FERRUCCIO PARRI, 1945-1955


25-aprile-comando_generale_cvl“L’8 settembre 1943 ci aveva colti di sorpresa e lasciati interdetti, come il fulmine che annuncia l’uragano. Ma non ci trovava spiritualmente impreparati. Il 1943 aveva segnato il crollo non solo militare e politico ma anche psicologico del regime. Dopo i grandi scioperi del marzo di quell’anno, inattese prospettive si erano aperte sullo stato d’animo delle masse lavoratrici, sulla loro capacità di reazione e sulla efficacia della penetrazione tra di esse della propaganda politica, soprattutto dei comunisti.
Il regime Badoglio aveva aggiunto una seconda chiara lezione.L’Italia ufficiale postmussoliniana, agghiacciata dall’incubo della Germania e della rivoluzione, non sapeva opporre ai fatti incombenti che timide furberie e velleità reazionarie, intimamente incapace, per angustia di spirito e difetto di vigore morale, di dare al paese una guida liberatrice.
Era chiaro che un movimento di riscossa poteva avere origine e trovar alimento solo nelle correnti antifasciste e nelle forze popolari. Nulla è storicamente più indicativo delle decisioni che fin dall’agosto 1943 vengono formulate in due riunioni semiclandestine del Partito d’azione e del partito comunista, i quali giudicano entrambi l’insurrezione popolare contro i tedeschi tappa ineluttabile della Liberazione(…)
Questo fermento e questa maturazione di spiriti stanno dietro il miracolo dell’apparire improvviso e simultaneo, nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, in ogni parte dell’Italia alpina ed appenninica, da Cuneo ad Udine a Pisa, dei primi nuclei di insorti.Agli intellettuali politicizzati dall’antifascismo, agli agitatori comunisti si aggiungono, specialmente in Piemonte, gruppi di militari. Sin dalle prime settimane si imposta il problema dei rapporti tra queste maggiori correnti della Resistenza, e dalla soluzione di esso dipenderà la convergenza e l’efficacia degli sforzi comuni. Ma sono settimane di ansia. Il clamoroso fallimento dei tentativi insurrezionali abbozzati a fianco dei presidi militari l’8-9-10 settembre ammoniva contro le facili improvvisazioni. Nulla di più difficile nelle condizioni dell’Italia occupata dai tedeschi ed oppressa dai fascisti che organizzare una “guerra per bande”. Quanto avrebbe potuto tenere questa nostra prima fragile ragnatela partigiana di fronte alla violenta repressione nemica ed alle soglie dell’inverno? Ma soprattutto di qual presa avrebbe potuto esser capace una lotta così aspra, atroce anzi e ben presto inespiabile, in una società cresciuta nell’aria chiusa e viziata dei decenni fascisti?
Gli italiani maledivano la rovina mussoliniana, ma sapevano intendere le prime cause di quella rovina?Fu con profondo sentimento di gioia che un giorno del dicembre 1943, terminato il primo ciclo di rastrellamenti, credetti di poter assicurare i compagni del C.L.N. di Milano che l’insurrezione partigiana era ormai inestirpabile.Una grande prova sembrava vinta.La parte viva della nazione, gli italiani non pavidamente vegetanti mostravano di intendere la necessità e le giustezza della lotta. Gli intellettuali la intendevano come un fatto del loro spirito, traendo dal privilegio della cultura il dovere dell’esempio, come scrisse con la più luminosa lucidità Giaime Pintor.
I lavoratori, come tappa necessaria della loro liberazione. I militari, come un comando d’onore. Ma, soprattutto, la prova era stata vinta nell’animo dei giovani. Pur usciti dalle scuole fasciste, furono essi, senza pressione senz’ordine senza chiamata, a scegliere, nella via del rischio e della morte, la via del dovere e della vita.
Nulla di più eloquente nel confronto di qualità tra i giovani che accorsero alle nostre bandiere e quelli che si arruolarono nelle file fasciste. i ragazzi intorno ai venti anni formarono la grande maggioranza dell’esercito insurrezionale; i giovani sotto i trent’anni la grande maggioranza dei quadri combattenti.
L’insurrezione aveva avuto la prima grande vittoria nell’animo dei giovani. Di qui la mia intima sicurezza (…)Le prove che ci attendevano, angosciose spesso sul piano militare, non erano più agevoli sul piano politico.
Poté in qualche ora parere insolubile il problema, fondamentale per la storia d’Italia, dell’unità di una lotta di necessità fortemente politicizzata, condotta da forze guidate da interessi tanto diversi. E qui mancava il comando di autorità tradizionali, consolidate e riconosciute; mancava la paura, altro possente legame degli sforzi collettivi; mancava l’appoggio unificatore che dette il Piemonte al Risorgimento. Non avevamo – purtroppo – fuori d’Italia un De Gaulle cui riferirci; ed alla nostra lotta gli Alleati lesinarono appoggio ed autorità, diversamente di quel che fecero per la Francia e la Jugoslavia.
Avevamo l’unità generale dell’obbiettivo, ed alcune grandi leve: Italia, Libertà, giustizia. Fu forse la grande lezione dietro le spalle e l’incubo davanti agli occhi del fascismo ad aiutarci, ad accrescere l’efficacia delle idee unificatrici, a radicarle prima che nella ragione nel cuore anche dei semplici, a limitare i contrasti e ad evitare le scissioni irreparabili, ad obbligare le tendenze divergenti a restare nell’ambito dell’obiettivo comune e della necessità unitaria.
La storia anche politica della lotta di Liberazione non è stata idilliaca, ma anzi dura e difficile storia di passioni rivalità contrasti ed errori. Non anneghiamola nelle agiografie dolciastre. La grandezza dei risultati non ha bisogno di amplificazioni retoriche (…)Fu grande errore degli Alleati quello del non inserimento organico dell’armata insurrezionale nella guerra alleata; fu un grande errore non averlo inteso, soprattutto al tempo dell’offensiva d’autunno: pagarono i partigiani con i massacri orrendi dell’autunno-inverno 1944, che si sommarono a quelli della primavera-estate.Fu errore specialmente del governo di Churchill questa diffidente ostilità ad ammettere l’insurrezione italiana nel quadro dei popoli combattenti. Solo all’ultimo atto, nell’aprile 1945, l’offensiva partigiana fu l’avanguardia liberatrice dell’esercito alleato.Gli scontri sanguinosi, le azioni di forza che le nostre formazioni sostennero nell’epilogo vittorioso in Emilia nel Veneto in Piemonte bastano da sole alla gloria militare della Resistenza.***E così, chiuso questo triennio tremendo di rovine di lacrime e di sangue, si apriva all’Italia spossata ma libera l’alba di una novella istoria. Grandi speranze ma anche grandi interrogativi.
L’ecatombe della gioventù più generosa d’Italia, il sacrificio dei migliori che ora mancavano a dar anima alla nuova democrazia erano il prezzo della Liberazione. Di questa grande donazione volontaria di fede e di sangue l’Italia nuova avrebbe saputo riconoscere il valore di legato testamentario, avrebbe saputo riconoscervi il suo parametro ideale? O l’avrebbe seppellita sotto una coltre di apatica indifferenza, come una delle vicende fatali, un grande incidente dell’atroce follia che aveva devastato il mondo?Di me stesso ricordo che nell’esultanza della Liberazione ero uno dei più pensierosi.Il popolo minuto, ch’è sempre d’istinto contro gli oppressori, aveva generalmente solidarizzato con i partigiani, e subito le vendette bestiali dei soldati di Kesserling e di Graziani. Ma quanta parte era rimasta lontana, materialmente e psicologicamente, dalla lotta? Quanta parte d’Italia aveva subito la miseria della guerra, non la scossa morale dell’insurrezione? (…)

Senza abbandonarci ai cliscè, un poco triti, della “reazione in agguato”, non era dubbio che gli interessi, soprattutto del grande capitale, così bene accomodatisi nella serra chiusa del fascismo, non privati degli strumenti di potenza e d’influenza sull’opinione pubblica, avrebbero finito per reagire in senso contrario alla spinta della Liberazione.
Sono queste le premesse delle contraddizioni di questi dieci anni di storia politicamente ed idealmente così delusiva. Il 1945 ha impresso di forza un determinato indirizzo alla storia ed alla politica d’Italia; agiscono in contraddittorio le forze di un passato non ancora obliterato e le forze retrive che legano il loro interesse a ritorni indietro (…)

Le forze moderate che hanno condotto in questo decennio la ricostruzione amministrativa, e che sono state al centro della vita politica, non possono, e neppure vogliono, rinnegare le premesse della Liberazione, ma sotto il peso delle forze contrarie, capitaliste e clericali, nazionali ed internazionali, eludono o postergano l’assolvimento di troppa parte degli impegni costituzionali che quelle premesse postulano imprescindibilmente.

La Liberazione resta il centro polemico immanente dell’attuale grande contrasto di fondo (…)

Alla conquista della Costituzione, che è l’articolazione giuridica di quel fine comune, non possono restare insensibili neppure uomini di destra; alle esigenze di progresso che essa afferma non può restare insensibile neppure la parte prevalente della Democrazia Cristiana.

E così questo frutto unitario della lotta di ieri è ancora, dieci anni dopo, componente essenziale della storia d’Italia; è il freno efficace contro il suo regresso.

Un bilancio sereno e razionale di questi dieci anni non autorizza dunque a pessimismi di fondo. L’orizzonte è ancora aperto ad assestamenti rispetto ai quali varrà sempre come termine di confronto il 1945, riepilogo a sua volta delle componenti ideali e permanenti della nostra storia nazionale.

Ma ancora una volta la riprova e conferma di questa apertura alla speranza ci viene dai giovani. Son essi che in questi anni hanno potuto operare, nel modo più libero, confronti e scelte. Se essi, con sempre maggiore e più diffusa consapevolezza, scelgono la Liberazione col suo tormento i suoi martiri ed i suoi frutti è perché hanno sentito che è quella la via della vita e dell’avvenire.

Passiamo ad essi la nostra consegna ideale che vuole l’Italia rinnovata in una sincera, umana e moderna democrazia”.

FERRUCCIO PARRI

(“La Liberazione”, numero speciale de Il Ponte, Rivista mensile di Politica e Letteratura, diretta da Piero Calamandrei, Anno XI, n.4-5, Aprile-Maggio 1955, pp.465-469).

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