Henri Lefebvre: PENSARE LA PACE


henri-lefebvre-1                                           PENSARE LA PACE

                                  Intervista a Henri Lefebvre*

                                        Parigi, 11 dicembre 1983

                    «Il Ponte», n. 1, gennaio-febbraio 1984, pp. 9-34

Le domande che tempo fa mi avete inviato per posta[1] richiamano una situazione che non è per niente semplice, perché, per rispondere, sono obbligato ad avere un duplice linguaggio, quasi un duplice pensiero. Se io dicessi tutto quello che penso, per esempio, della politica attuale del governo o di quello che riguarda l’Europa, sarei molto critico: rischierei di essere ipercritico e di eccedere, di non centrare il bersaglio voluto, rischierei anche di essere utopistico; ma se fossi realistico, allora farei un discorso ben diverso e apparirei come se, in nome della realtà, accettassi quello che succede.

Ciò vuol dire che ci si trova davanti a un divorzio tra teoria e pratica, che si adotta in modo distinto il linguaggio della teoria o il linguaggio della pratica. La differenza è enorme ed è estremamente difficile evitare gli errori, sia 1’ipercriticismo, in nome del quale si demolisce tutto, sia il realismo, in nome del quale si accetta tutto. Poco tempo fa la rivista «En jeux» mi ha posto questa domanda:

 

il 10 maggio[2] è stato un evento fondamentale, come molti hanno creduto, cioè un evento che rende possibile una visione del mondo rinnovata, oppure non ha fatto altro che completare le trasformazioni socio-economiche e culturali dei due decenni precedenti? In altri termini sarà una data storica per il domani che esso annunciava, oppure sarà una data storica come punto d’arrivo di un’evoluzione?

 

Ecco una domanda che è estremamente imbarazzante, che non è falsa, che è precisa, che è giusta, che non coincide esattamente con quelle che voi mi fate, ma che le implica, e alla quale è molto difficile rispondere, evitando sia il punto di vista ipercritico, sia quello realistico che tutto accetta. Allora, a una domanda come questa, sono sempre tentato di dire che 1’uno non esclude 1’altro, che quello che succede in Francia da due anni è nello stesso tempo il risultato e 1’esito di un certo periodo, e forse l’inizio di un altro.

Questo pone di nuovo il problema della transizione, un vecchio problema, che si pone da piú di un secolo. È stato ripreso da tutti e da tutte le parti, senza per questo essere stato risolto. Siamo veramente in una transizione o in un vicolo cieco? È molto difficile rispondere senza evitare gli eccessi o senza cadere nell’ambiguità.

Ma vorrei cominciare a rispondervi con una considerazione: ci invitano da ogni parte a pensare la guerra. In questi ultimi tempi, qualcuno che io conosco un po’, Glucksmann, ha avuto un grossissimo successo; è un lettore di Clausewitz, è stato maoista. Non ho letto il suo ultimo libro[3], ma a sentire i commenti – e lui stesso è pressapoco cosí – adesso egli sembra voler pensare lo stato di guerra come qualche cosa di permanente, non solamente come minaccia, ma come prospettiva immediata.

Ci invitano a pensare la guerra o uno stato di guerra imminente. Io propongo di pensare la pace. Mi sono accorto che nessuno pensa la pace, né si predispone a pensarla. Il problema mi è apparso con molta chiarezza qualche tempo fa, quando ho potuto leggere un libretto di cui avevo sentito parlare ma che avevo perso di vista, dal titolo La pace indesiderabile. Rapporto sull’utilità della guerra[4]. Credo che tutto quello che è stato detto dopo sia uno scherzo in confronto a questo libro, scritto da una decina di americani altamente qualificati e poi pubblicato da uno di loro. Il libro inizia cosí:

 

la pubblicazione senza autorizzazione di questo documento, che sarà oggetto di serie polemiche, pone tre domande: la prima è quella dell’autenticità; la seconda è quella di sapere se si possono considerare come fondati i motivi che hanno spinto uno degli autori a pubblicarlo, in violazione al giuramento che aveva prestato; la terza riguarda la validità, tanto sul piano teorico quanto su quello pratico, della sua conclusione.

 

Chi lo ha pubblicato è Galbraith, ed è un’autorità su scala mondiale. Egli dice che la pace è non solo impensabile ma indesiderabile, perché tutta l’economia è basata sugli armamenti, e non solo questo: tutti i nostri valori morali sono basati sulle tradizioni «guerriere», sul fatto che bisogna essere capaci di vivere con l’idea della guerra, di entrare in guerra, di accettarla, di condurla con successo. Tutta la nostra civiltà occidentale è basata sulla guerra, e la pace è impensabile. La pace non è nemmeno pensata, perché tutte le società hanno sempre vissuto sul piede di guerra, con valori «guerrieri».

A mio parere la vostra rivista dovrebbe ricordare 1’esistenza di questo libro o ripubblicarlo con un commento, perché mi sembra un documento capitale per la politica americana e anche per la politica attuale.

Ci si dovrebbe chiedere se per il pensiero marxista – o che tenta di esserlo – non sia venuto il tempo di introdurre qualche cosa di nuovo, pensando la pace. Sarebbe proprio una novità. Abbiamo constatato in diverse occasioni che la gente ha bisogno di qualcosa di nuovo, ne ha bisogno e nello stesso tempo lo teme; sarebbe una novità provare a pensare la pace, perché non c’e mai stata una società fondata sulla pace. Guardate la situazione in relazione al pensiero di Marx: non soltanto ci si è messi sotto il patrocinio di Eraclito – la guerra è il padre di tutte le cose –, ma l’idea stessa della lotta di classe è sempre stata accettata come qualcosa che porta a un confronto armato. Marx, inoltre, pensava che 1’epoca borghese arrivasse già a oltrepassare lo stadio delle società «guerriere» con l’importanza del mercato internazionale. Invece, è successo che con l’importanza assunta dal mercato mondiale, e precisamente nella prospettiva e nella pratica del modo di produzione capitalistico e della borghesia, dall’estensione del mercato mondiale è risultata l’importanza dei mercati nazionali, con tutto quello che ciò comporta, cioè le implicazioni non solo politiche e concorrenziali, ma «guerriere». E questo lo si vede da da piú di un secolo. In quanto a Lenin, egli ha pensato che i confronti tra gli imperialismi portassero necessariamente alla guerra e che la classe operaia avrebbe potuto approfittarne per mandare avanti la propria lotta. In quanto a Stalin, quello che ha pensato fino al 1940 rimane oscuro; forse si è immaginato che la guerra tra i paesi imperialisti risparmiasse questa prova alla Russia sovietica.

A ogni modo, nel pensiero marxista solamente Rosa Luxemburg sembra abbia detto che la pace era necessaria alla classe operaia (la quale poteva e doveva imporla) e abbia elevato a pensiero teorico l’idea della pace. E anche comparsa – cosa curiosa – presso i marxisti l’idea di un’aggressività fondamentale dell’essere umano; credo che appaia in Marcuse soprattutto, e forse in Adorno, perché la dialettica del negativo sembra implicare 1’aggressività o la negatività fondamentale dell’uomo; anche se questo non è chiaro in Adorno, mentre lo è di piú in Marcuse.

Dunque, il pensiero marxista è anche un pensiero della guerra; possiamo allora pensare la pace? Possiamo pensare una società che non sia fondata su valori «guerrieri»? Quando in qualche modo anche Marx ha concepito il lavoro come una specie di lotta «guerriera» contro la natura, come una specie di aggressività fondamentale dell’essere umano nei confronti della realtà naturale? Si possono introdurre dei nuovi valori che non siano piú dei valori «guerrieri», diretti o indiretti?

Ecco il primo problema, che io vorrei porre in questo colloquio e che la vostra rivista potrebbe affrontare, e sarebbe la prima a farlo.

 

 

La società autodistruttiva

 

D. Bisognerebbe allora pensare al rapporto tra guerra e distruzione?

 

R. Ah sí, molto giusto! Perché una società che si fonda sulla distruzione, arriva alla propria autodistruzione. Non è mai inoffensiva la volontà «guerriera»; presto o tardi si rivolta contro se stessa e la volontà di distruzione si rovescia letteralmente in autodistruzione. Forse si può concepire un modo di confronto che non porti alla guerra, cioè allo spargimento di sangue, anche se evitato a mala pena, come se ci si potesse avvicinare indefinitamente a questo punto limite, senza mai raggiungerlo. Questo mi sembra il punto di vista dello spirito diplomatico e politico: però non si è mai realizzato, si è toccato sempre, a un certo momento, il punto fatale dello scoppio. Mentre bisogna, forse, portare un po’ oltre l’idea della coesistenza pacifica, che era emersa e poi abbandonata da molto tempo, ma che non ha permesso di pensare la pace, consistendo semplicemente nell’evitare la guerra.

Quello che vorrei dire è che pensare la pace non è per niente pacifismo; il pacifismo è evitare la guerra, evitare la catastrofe, mentre ci si sente sull’orlo. Pensare la pace è pensare, concepire e sforzarsi di realizzare una società il cui problema non sia piú di evitare la guerra; è pensare una società pacifica. Ciò fa parte di questa problematica immensa con la quale ci stiamo confrontando.

 

 

Il non-lavoro

 

Immaginate che sotto questo termine, «crisi», si intendano molte cose molto diverse le une dalle altre, perché dire che c’e una crisi profonda è una banalità; dire che la crisi è totale, che tocca tutti i valori, diventa banale; dire che le morali e le estetiche sono in crisi è forse meno banale, ma infine non porta è niente di molto nuovo. Mentre quello che non si dice è che questa famosa automazione di cui si parla tanto, conduce, non subito, ma in un orizzonte forse non lontano, al non-lavoro. È la fine del lavoro che si annuncia in questa crisi. Invece, prima tutti lavoravano, e bisogna pur farlo: si cerca di lavorare, si vuole del lavoro. Solo il lavoro permette di vivere, mentre, invece, con 1’automazione completa della produzione è all’orizzonte il non-lavoro. E ciò fa parte di questa crisi, è forse anche un aspetto subordinato a volte, ma essenziale, e che passa assolutamente sotto silenzio.

C’e una specie di relazione tra questo problema del non-lavoro e quello della pace, ed è una relazione mal determinata, mal definibile, che bisognerebbe forse pensare e concepire, perché questa società che considera il lavoro come unico valore di pace, non è la società pacifica, non è la società di pace da pensare. Allora qui c’e un pensiero teorico completamente utopico: il non-lavoro è utopico oggi; non è mai stato cosí utopico, e però ci siamo già, è presente, con i nomi di cibernetica, informatica, di questo e di quello; è l’automazione completa del lavoro produttivo, che non è per domani, né per dopodomani, ma è all’orizzonte, è il nostro orizzonte.

Anche il problema del lavoro è particolarmente difficile da porsi, come quello della pace, d’altronde. Come questo problema sarà affrontato, come sarà risolto? Non si vede bene alcuna prospettiva. Ciò non entra nemmeno nelle prospettive degli uomini politici, non piú, del resto, del problema della pace o di quello del disarmo. D’altronde, si parla della robotizzazione completa, ma senza dire come ci arriveremo e dove, poi, ci condurrà.

C’è parecchio da pensare: si dirà, forse, che si fa della filosofia, si dirà, forse, che si fanno delle speculazioni, ma in effetti, come problema, è terribilmente pratico e concreto.

 

 

La mondialità e il lavoro

 

D. Come vede ora la situazione globale, la mondialità? Otto anni dopo la pubblicazione dei suoi quattro volumi sullo Stato, nei quali Lei ha messo in luce il concetto di modo di produzione statuale – che ricopre sia il capitalismo che il socialismo di Stato[5] – ritiene che si imponga un aggiornamento? E i rapporti fra lo Stato e le imprese multinazionali?

 

R. Sulla mondialità: ancora non è chiaro questo concetto di mondialità. La mondialità ci appare piú come un ammasso di contraddizioni e di conflitti che come qualche cosa che può essere definito. E tuttavia la mondialità ha un senso: 1’uomo di domani, e forse anche quello di oggi, è già un essere planetario, che ha una certa conoscenza, che ha delle relazioni con quasi tutto il pianeta (e anche al di là del pianeta). Ma la nozione di mondialità rimane poco elaborata. La nozione stessa di mondo rimane oscura – quella di mondiale o di planetario, visto che si tratta quindi della terra, e non dell’universo, comprese le stelle e le galassie –, rimane praticamente e teoricamente inesplorata.

Sarà 1’uomo planetario colui che troverà delle attività adeguate a rimpiazzare le attività «guerriere» e le attività produttrici cosí come sono oggi? È questa la domanda. La questione del mondiale e del planetario è, dunque, legata a quella di prima, quella del lavoro; è il terzo aspetto della questione.

In quanto allo Stato, credo che ci sia del nuovo da quando il mio libro è stato scritto, senza che quello che io ho provato a dire sullo Stato abbia per questo perso validità. Per esempio, lo Stato appare come gestore dell’energia: del petrolio, che è importato o esportato; dell’energia nucleare. Lo Stato ha un’importanza primordiale nelle informazioni; anche quando non sono completamente sottoposte al politico e allo statuale, questi hanno un ruolo determinante da tutti i punti di vista, e anche nella tecnologia. Lo Stato, poi, è sempre piú importante nelle relazioni di ogni paese con il mercato interno, con il mercato mondiale e con le imprese multinazionali[6].

Voi mi richiamate, molto giustamente, sulla questione delle imprese multinazionali: è di un’importanza estrema.

Quali sono i mezzi che gli Stati nazionali possiedono nei confronti delle società multinazionali o sovranazionali? Ecco, non c’e possibilità di saperlo e ci si chiede anche se gli uomini di Stato lo sappiano chiaramente. Forse procedono volta per volta, empiricamente e pragmaticamente, cedendo su un campo per guadagnare su un altro. Mi chiedo quali siano le capacità degli Stati, come lo Stato francese, nei confronti dell’Ibm, per esempio, che non ha il monopolio completo su scala mondiale, ma che comunque controlla gran parte di ciò che riguarda l’informatica. Lo Stato, cosí com’è oggi, rischia di diventare il gestore, per conto delle società multinazionali, su scala nazionale delle forze produttive arretrate tecnologicamente ed economicamente.

Ciò che ancora mi colpisce molto, è che le multinazionali tengono i due capi della catena: ce ne sono che fanno gli yogurth, il pesce surgelato, i blue-jeans, eccetera, e altre che detengono l’informazione. Ciò vuol dire che le une controllano la vita quotidiana e le altre i mezzi di comunicazione su scala mondiale. Questo è estremamente minaccioso.

Già una parte immensa del commercio, forse i1 30 o i1 40%, si svolge direttamente tramite società multinazionali. Su ciò ho una documentazione che proviene da una pubblicazione, Le forum du développement, organo dell’università mondiale che ha sede a Tokyo (ne faccio parte dalla fondazione); pubblica un mensile su cui c’e una documentazione insostituibile su tutti questi problemi, compresa 1’attività delle multinazionali. Con questo non è che i problemi siano risolti: si sono posti solo gli interrogativi, le soluzioni sono di la da venire.

 

D. Anche gli Stati del Socialismo di Stato corrono questo rischio, di diventare i gestori per conto delle società multinazionali?

 

R. Sí, credo che non sfuggano a questo rischio, ma che abbiano probabilmente – dico probabilmente – piú mezzi per reagire nei confronti delle società multinazionali. Non senza difficoltà, perché queste multinazionali sono in testa nella produzione, soprattutto dal punto di vista tecnologico.

Ho anche sentito sostenere che sono quelle che, secondo Marx e il marxismo, devono essere considerate come portatrici del progresso, visto che rappresentano le forze produttive e la tecnologia. Ma non è senza pericolo consegnare loro il mondo intero, perché ciò si traduce nell’impoverimento. Si prendono la ricchezza di un intero paese, anche se poi la riportano in altri paesi, come gli Stati Uniti.

Il caso piú curioso è senza dubbio il Messico, in cui le grandi società multinazionali hanno prestato il denaro e venduto il materiale per estrarre il petrolio e poi hanno comperato il petrolio estratto, pretendendo il rimborso con gli interessi per il denaro prestato. È un modo di sfruttamento straordinario, e questa nozione di sfruttamento, che è la nozione piú banale in Marx, sento dire da tutte le parti in Francia che è fuori moda. Evidentemente non si sa come si applica nel mondo moderno.

Sono andato spesso in Messico e ho un po’ osservato gli affari messicani: è lo sfruttamento di tutto un paese. Gli si e succhiata la ricchezza fino a portarlo vicinissimo alla scomparsa, alla fine, alla morte da tutti i punti di vista: agricolo, petrolifero, industriale. Questo paese è sull’orlo della catastrofe, certamente con la complicità di una parte della borghesia e del capitalismo locali. Insomma è un paese che è stato sfruttato a morte; è un esempio particolare, ma ce ne sono tanti altri. Non è sicuro che la Francia sfugga a questo destino, e nemmeno l’Italia. Quali sono i mezzi di difesa degli Stati nazionali: ci sono delle leggi? Ci sono delle procedure? Come si trasferiscono i capitali? Devono esserci dei mezzi, ma io non li conosco. Probabilmente è solo la “gente” al potere che li conosce, ma è senz’altro molto pericoloso non avere un controllo democratico, o almeno un controllo parlamentare, su questi trasferimenti di capitali, che sono trasferimenti di plusvalore. Non è solo denaro che si sposta, infatti, ma plusvalore.

 

 

Decentramento difficile

 

Allora bisogna modificare quello che ho scritto sul modo di produzione statuale e sul ruolo dello Stato, per certi aspetti aggravandolo[7]. C’e, tuttavia, anche il processo opposto, contraddittorio: un po’ dappertutto affiora la tendenza alla decentralizzazione. Questa è manipolata dallo Stato con i suoi apparati, ma comunque esiste[8]. In Italia, per esempio, le città e le regioni hanno certamente conquistato, o ritrovato, una certa autonomia nei confronti dello Stato centrale, il che non è senza pericolo. In Francia ci sono difficoltà da tutte le parti: nelle regioni periferiche i vecchi notabili riprendono il potere e ne scaturiscono disordini e problemi locali, non ancora come in Sicilia, ma non mi meraviglierei se un giorno arrivassimo a tanto.

Dunque, tutto questo non è privo di rischi. È molto probabile che si finisca per oscillare tra un decentramento, piú o meno riuscito, e un nuovo accentramento. A ogni modo, da una parte c’e una tendenza al decentramento, ed è un indebolimento dello Stato, e dall’altra al suo rafforzamento. Elementi di rafforzamento dello Stato sono gli armamenti, la strategia militare, le decisioni di ordine militare, che non si improvvisano, che bisogna prendere frequentemente; non si sarebbe pensato, qualche anno fa, che a ogni momento ci sarebbe stata per il capo dello Stato una decisione militare da prendere. Da questo rapporto dialettico, decentramento-accentramento, dipendono molte cose e su questo bisognerebbe fare un’analisi precisa.

 

 

La potenza degli Stati Uniti

 

D. Gli Usa si trovano in cima alla gerachia[9], al centro dell’impero, le multinazionali piú potenti vi hanno la loro sede. Pericolosi sul piano economico, politico e militare, gli Stati Uniti lo sono anche sul piano dell’ideologia. Lei soggiorna spesso negli Stati Uniti: qual è la sua opinione? È possibile differenziare la cultura americana dall’americanismo?

 

R. Solo per rispondere è questa domanda sarebbero necessarie delle ore. Gli Usa sono una potenza economica e finanziaria di cui ci si fa male l’idea, se non la si è vista da vicino. Eravamo quest’estate nell’Illinois: è il centro dell’America profonda, c’e una ricchezza favolosa di cui è difficile farsi un’idea. Sorvolando in aereo la campagna, ci si accorge che le aziende agricole hanno 200, 300, 400 ettari di mais o di soja, che non sono delle fattorie, ma delle industrie, delle industrie agricole. Alla televisione si segue la borsa di Chicago. È qui che per tutte le materie prime (come la carne di manzo, di vitello o di maiale, il mais o il grano) si fanno i prezzi. È qui che ci si accorge del modo in cui funzionano le cose con un capitalismo di grande flessibilità e di notevole abilità. Mi sono molto meravigliato nel vedere le quotazioni a termine differito della carne di maiale, ossia quotazioni su maiali che non sono ancora nati e che sono già venduti. Ci si gioca sopra e si può vincere del denaro o perderlo: è straordinario.

Tuttavia 1’economia degli Usa, cosí forte, ha pur le sue debolezze. È potente solo perché si annette il Canada e il Messico. Si dice che negli Usa solo il 30% della popolazione è produttiva, il resto è adibito ai servizi: è questo l’avvenire. Forse, ma nella popolazione produttiva degli Usa bisogna contare gli operai messicani che estraggono il petrolio e i canadesi che abbattono gli alberi e che fanno la pasta di carta per i giornali di New York. Cosí le cifre che abbiamo sono falsificate e, di conseguenza, niente affatto attendibili. Inoltre, i lavoratori addetti ai trasporti non sono considerati produttivi; ma un pezzo di acciaio alla fabbrica non è niente, bisogna trasportarlo dove serve, e questo fa parte del ciclo di produzione. Se si considera questo, si arriva a cifre completamente diverse. Ora, se gli Usa non riuscissero a dominare queste popolazioni in termini di neocolonialismo, la loro economia non reggerebbe, e se la loro economia perdesse questi sostegni la loro decadenza sarebbe estremamente rapida. Non sono al riparo dalle piú grandi difficoltà; per esempio, tutta la produzione della costa atlantica è in veloce perdita; tutta la creatività produttiva si è trasferita sulla costa pacifica, tanto che il Pacifico è il centro dell’economia mondiale.

Gli Usa hanno cosí una potenza economica straordinaria, ma niente affatto definitiva; per questo hanno bisogno di una politica imperialistica, per mantenere, cioè, le condizioni di questa straordinaria prosperità economica, accompagnata da un’ideologia terrificante.

 

 

Americanismo e cultura americana

 

Ho sentito dire negli Usa:

 

i paesi poveri? È colpa loro, non hanno voluto o non hanno saputo lavorare, non hanno saputo produrre, non hanno saputo inventare, peggio per loro, che muoiano, che scompaiano!

 

Chi dice cosí dimentica che gli Usa vendono molti dei loro prodotti e che il commercio fa parte dell’economia americana. L’idea che i paesi poveri siano colpevoli della loro povertà, che la gente che è nella miseria sia colpevole della miseria, è un’ideologia, non è la vera cultura americana. Ma negli Usa c’e anche da molto tempo un pensiero critico, e una cultura politica che non riesce, purtroppo, a proporre per ora un’alternativa politica molto chiara, e c’e una grande letteratura.

I rappresentanti della cultura di sinistra in America lottano con molte difficoltà, e si pongono come prioritario il problema del capitalismo. Negli Usa non si tratta solamente di lottare contro la destra, ma di trovare un’alternativa al capitalismo. In questo senso la lotta politica non è affatto arretrata. Si lotta contro la politica internazionale, anche se 1’ideologia dominante è quella del capitalismo dominante. Credo pertanto che bisogna sostenere la cultura americana contro l’ideologia americana, che è cosa estremamente diversa.

 

 

L’Unione Sovietica

 

D. Adesso l’Urss: l’Unione sovietica si contrappone agli Usa, ma il suo prestigio è molto discusso. La sua politica è contestata e in quanto modello non fa piú “ricetta”. Cosa pensa dell’Unione sovietica, del suo valore in quanto modello e della sua politica internazionale?

 

R. La risposta è molto semplice: in quanto modello l’Unione sovietica è inammissibile; non capisco nemmeno come l’Unione sovietica per qualcuno rappresenti un modello, visto che quello che si chiama «socialismo reale» non ha niente in comune con quello che Marx, e tutti quelli che hanno provato è dare un senso preciso è questo termine, hanno chiamato socialismo. Non voglio dire che tutto sia catastrofico, ma non è quello che si chiamava socialismo, è qualcosa di nuovo, è un modo di produzione statuale, visto che lo Stato dirige tutto, domina tutto e, nelle condizioni attuali[10], esce sempre piú rafforzato.

Detto ciò, se, insisto, l’Unione sovietica non esistesse, gli americani sarebbero i padroni del mondo. È meglio che ci sia questa rivalità, piuttosto che una potenza regnante, perché nella rivalità c’e almeno una qualche apertura, mentre con un’unica potenza dominante per fare qualcosa di nuovo occorre aspettare il suo declino, il suo deperimento.

Pertanto la politica estera dell’Unione sovietica, in quanto si oppone alla politica estera americana, mi sembra degna del piú grande interesse. Con questo non voglio dire di approvare e seguire il modello sovietico, non piú di quello americano d’altronde, ammesso che esista un modello americano e non sia invece 1’adozione pura e semplice delle tecnologie.

Allora, per quello che riguarda l’Unione sovietica la risposta è, da una parte, abbastanza semplice e, dall’altra, molto piú complessa, in quanto occorrerebbe spostare il discorso sulla classe operaia. Si parla molto della classe operaia, ma essa ha un po’ dappertutto difficoltà a costituirsi come classe. La parola d’ordine di Marx «proletari di tutti i paesi unitevi» ha qualcosa di folkloristico e non bisogna illudersi: l’internazionalismo proletario è diventato ideologico e fittizio.

Bisogna ricordare che la classe operaia registrò la prima sconfitta quando non impedí la guerra del 1914. L’Internazionale aveva detto che avrebbe impedito la guerra: non c’e riuscita. La seconda sconfitta è quella della classe operaia tedesca, la piú forte e la meglio organizzata, mezzo secolo fa, con 1’hitlerismo[11]. È seguito poi lo stalinismo e il suo tracollo ideologico: lo stalinismo cancro della rivoluzione.

E in seguito, è un punto sul quale vorrei insistere, dopo che lo stalinismo ha perso il suo prestigio – c’e una data precisa: il 1956 –, c’e stato un vuoto immenso, e questo vuoto, a partire dal 1960, si è riempito, piú o meno, in modo contraddittorio. Da una parte, c’e quella che si chiama rivoluzione scientifica e tecnologica con fenomeni di urbanizzazione ultrarapidi e barbari, con 1’industrializzazione molto rapida; dall’altra la contestazione. È un fenomeno straordinario: a partire dal 1960, da un lato abbiamo crescita tecnologica, pseudo-rivoluzione (infatti si fa nel quadro del modo di produzione capitalistico[12]) e contemporaneamente la contestazione, che cresce e che nel 1968 esplode, per poi attenuarsi e diminuire. E qui che nasce la nostra epoca, con le sue difficoltà: la contestazione è stata, infatti, inefficace e, se ha prodotto qualche turbine, ora tutto si è molto attenuato. Cosí il pensiero critico non si sa piú a che cosa serva, e la tecnologia, se pur promette delle meraviglie, è, a mio avviso, al suo ultimo respiro.

La rivoluzione tecnologica è alla fine; è difficile pensare un’altra innovazione che abbia un ruolo uguale è quello svolto dai microprocessori. Ma cosa verrà dopo, se non c’e una catastrofe mondiale? È a questo che bisogna pensare.

 

D. La genetica?

 

R. Si svilupperà la biologia, ma non si sa bene quello che ci riserva. Avete ragione, bisogna considerare la questione della genetica e delle sue applicazioni. Per esempio, a San Francisco ho saputo che si è scoperto il modo in cui i bachi da seta fabbricano la seta. Sono stati, quindi, inventati dei falsi “bachi” metallici che fanno della vera seta. Si è in procinto di industrializzare e commercializzare il procedimento. Una scoperta tecnologica ha, però, bisogno di anni per essere industrializzata e commercializzata: questa è la condizione della biologia genetica attuale. Non parlo nemmeno dei metodi di clonazione o di fabbricazione di specie, ma semplicemente di prodotti commerciali come la seta.

Allora, rispetto a queste nuove applicazioni, non si sa cosa ci riserva il futuro. Ma quella che si chiama la rivoluzione scientifica e tecnologica non è piú in crescita. È il mercato, è un’ideologia, è una moda, uno snobismo, e, infine, parecchie cose che rimangono molto superficiali e non rinnovano il modo di produzione. In ogni caso, è molto probabile che l’informatica diminuisca il numero dei posti di lavoro, anziché aumentarli.

Ciò che è biogenetico impiegherà molta gente? Non ho alcuna idea su questo. A ogni modo, può darsi che arrivi un momento in cui si cercherà di rilanciare la situazione, ma tutto quello che conosciamo è alla fine.

 

 

L’olocausto dell’Europa

 

D. Come vede oggi la situazione attuale dell’Europa, pensando alla sua ipotesi sul «Vento del Sud» di qualche anno fa[13]?

 

R. Prima una considerazione: quando una congiuntura, un’occasione storica è stata mancata, non si ritrova piú: è molto probabile che ci siano stati dei momenti in cui quella che si chiama rivoluzione sociale e politica avrebbe potuto essere attuata, ma non è stata fatta.

Per esempio, un’occasione come quella del 1968, come congiuntura, non si ritroverà piú in Francia. Sapete quello che è successo: ci sono stati gli studenti in agitazione e poi, di colpo, lo sciopero della classe operaia, ma uno sciopero cosí generale che nei ministeri non c’era piú nessuno e 1’apparato dello Stato era crollato. Se la classe operaia e il Partito comunista avessero voluto prendere il potere, certo pur con molte difficoltà, lo avrebbero conquistato su scala nazionale. C’è stato un solo uomo che ha tentato, Mendes France, ma in modo cosí maldestro che la cosa non ha funzionato. Questa situazione non si ripresenterà mai piú.

L’Europa ha avuto diverse occasioni, soprattutto alla fine della guerra, di fare la rivoluzione: non le è riuscito. La Francia ha la sua parte di responsabilità: De Gaulle, il nazionalismo francese e tutti i nazionalismi non volevano e non vogliono 1’Europa. Adesso i problemi dell’Europa si arenano in difficoltà che potrebbero sembrare secondarie, ma che di fatto sono primarie. Non sono per niente ottimista, e vedo 1’Europa destinata, con tutti questi errori, all’olocausto. Gli americani, d’altronde, vedrebbero volentieri sparire 1’Europa come concorrente.

La questione dei missili in Germania: il primo obiettivo della loro installazione è quello di impedire 1’unità della Germania, mentre invece ci può essere un’Europa unificata solo se c’e una Germania unificata. L’unificazione dell’Europa è l’unificazione della Germania, cioè la fusione della Germania dell’Est con la Germania dell’Ovest. Di questa aspirazione voglio ricordare un fenomeno molto curioso: le grandi feste che si sono svolte nella Germania dell’Est per la nascita di Lutero. Ebbene, Lutero e stato festeggiato quanto Marx. Questa è una mano tesa e molte altre cose; è un elemento rivelatore dell’esigenza della riunificazione. Il secondo obiettivo è quello di portare 1’economia sovietica al tracollo, obbligandola a uno sforzo di guerra gigantesco.

Buona parte della sinistra francese considera freddamente la guerra; non tanto per difendere 1’Europa, quanto perché è visceralmente antisovietica; la parola d’ordine è: «piuttosto morto che rosso». In tal caso non è solamente la Francia che è minacciata, ma 1’Europa intera.

Alla televisione, quel tale che ha quasi il monopolio delle transazioni agro-alimentari con la Russia, che è membro del Partito comunista e che è plurimiliardario, ha detto: «fate la guerra: se ci sono 40 milioni di morti negli Usa, il capitalismo è finito; se ce ne sono 40 milioni in Russia il socialismo continuerà e addirittura progredirà». E fantastico sentire questi discorsi: discorsi senza senso, incredibili; ma c’e molta gente che accetta 1’idea della guerra, con l’idea del sacrificio dell’Europa.

Oh 1’Europa! Ha avuto un gran passato, ma è sull’orlo del declino; allora è meglio che muoia gloriosamente. Ho sentito sostenere questo da amici molto vicini al governo. Sono molto decisi; si riorganizza 1’esercito francese in due parti: un corpo di guerra costituito soprattutto da elicotteri blindati, e un esercito di sorveglianza dell’interno. Il corpo di guerra può spostarsi alla frontiera dei paesi dell’Est in quattro ore; poi il resto dell’esercito si unirà alla polizia per sorvegliare le retrovie. Io sono totalmente avverso a questa riorganizzazione dell’esercito.

Che 1’Europa declini, questo è sicuro; che sia colpa sua, è altrettanto sicuro: due guerre mondiali da essa scatenate pesano! Ma non è una buona ragione per accettare il sacrificio.

Una rivista come la vostra deve mettere in guardia l’opinione pubblica su questo stato di cose: c’è gente che considera freddamente non solo lo scatenamento di una guerra, ma anche che 1’Europa serva da olocausto, il prossimo olocausto.

Dunque, io penso che 1’Europa sia veramente in pericolo, ma nessuno ne prende la difesa. Si parla molto del pericolo nucleare, ma, a parer mio, il pericolo non è tanto quello di una guerra intercontinentale, quanto quello di una guerra «di teatro» sul territorio tedesco, che in seguito si allargherà, e con dei mezzi di distruzione terribili, perché ci sono dei missili tattici che sono di un’efficacia terribile.

Vi segnalo, per divertire i vostri lettori, che i vecchi missili dell’esercito francese si chiamavano «Pluton», come il dio degli Inferi; i nuovi missili si chiamano «Ades», che è il nome in greco degli Inferi stessi. I missili «Ades» sono di portata molto piú grande e piú potenti.

Di questa riorganizzazione militare se ne parla molto poco, il meno possibile. Ci sono delle cose di cui non si parla in Francia, o molto poco; non bisogna parlarne, come se fosse grossolano o quasi osceno. Per esempio, sotto il governo di sinistra, parlare dell’autogestione[14] è grossolano, osceno, è essere maleducati, non bisogna farlo. Io sono solito ricordare che, come in Inghilterra sotto la regina Vittoria non si dovesse parlare di cosce o di natiche; ebbene ora in Francia non si deve parlare di autogestione.

Tornando all’Europa ribadisco che la sua posizione è estremamente compromessa; sta andando verso il sacrificio, perché – come ho detto – molto probabilmente non ci sarà una guerra intercontinentale, ma una guerra con eserciti convenzionali. È per questo che 1’idea di un equilibrio militare all’interno dell’Europa è assolutamente folle: prima di tutto non c’e equilibrio stabile possibile e poi è proprio quest’idea che destina 1’Europa a essere il teatro delle operazioni militari. Non so se queste arriveranno fino alla Spagna e all’Italia, ma è molto probabile.

Allora c’e anche questa considerazione: 1’esercito francese, finché era un esercito difensivo, poteva sfuggire al comando integrato della Nato, ma come esercito offensivo non sfuggirà, perché un’offensiva si realizza solo in rapporto con gli altri eserciti europei. Allora, quando i simpatizzanti del governo e della legge che potenzia 1’esercito mi dicono «non accetteremo mai un comando integrato, ti sbagli, la tua accusa è falsa», io rispondo: «un esercito offensivo è necessariamente sotto il comando di coloro che dirigono le operazioni».

Siamo giunti, dunque, a questa situazione: la guerra si terrà sul territorio europeo e siccome le armi attuali hanno una potenza distruttiva non molto al di sotto di quella delle armi atomiche strategiche, 1’Europa va verso la sua autodistruzione.

 

 

Creatività o autodistruzione?

 

Parlo adesso da filosofo: la capacità creativa dell’essere umano, del pensiero umano e dell’attività umana, va insieme a una capacità autodistruttiva. È vero da tutti i punti di vista. Le stesse potenze che sono capaci di modificare il mondo in modo costruttivo, possono anche distruggerlo. Nell’essere umano le capacità creative e le capacità di autodistruzione sono uguali, ancora oggi. E questo il problema dei valori «guerrieri» cui prima accennavo: 1’autodistruzione è potente quanto le capacità creatrici; è questa la dialettica profonda dell’essere umano. E la riprova è in questa povera Europa, che è stata alla testa delle capacità costruttive e creative, che ha inventato tante di quelle cose, da 2.500 anni, dal tempo dei greci, ma che inventa anche la sua autodistruzione. Cosa fa 1’Europa da un secolo? Lavora alla sua autodistruzione.

Allora il problema è di sapere chi vincerà: le forze di autodistruzione o le forze creative? E questa la posta in gioco, e si gioca in Europa una partita colossale; in gioco – notate la parola gioco – è prima di tutto 1’esistenza dell’Europa, poi il tutto si allargherà e coinvolgerà molte altre cose. È questa la posta di una partita che non è facile, né innocente, né inoffensiva; è un gioco terrificante tra queste due capacità: è tutta la dialettica dell’essere umano.

Non è del tutto marxista quello che dico, cioè che le capacità autodistruttive fanno parte delle capacità costruttive, creative.

 

 

Un progetto alternativo

 

D. Cosa pensa della situazione interna dei nostri paesi? Appare come bloccata, nell’assenza di una spinta alternativa.

 

R. Voglio rispondere abbastanza a lungo su questo punto, Credo che la questione sia quella di proporre un’alternativa[15].

Ci sono state nella storia delle alternative proposte da Marx, da Lenin; non hanno funzionato molto bene, hanno anche dato dei risultati contrari a quelli che ci si aspettava. Lenin – come Marx – voleva una società senza Stato, con uno Stato in via di deperimento. Marx lo ha scritto in La Comune di Parigi, Lenin in Stato e rivoluzione; la rivoluzione doveva portare alla sparizione dello Stato. È andata male; bisogna trovare una nuova alternativa, ed è un lavoro gigantesco. Quali gli elementi di questa alternativa? Bisogna trovarli altrimenti la situazione rimane bloccata.

Credo che vi siano in Francia e nei paesi del Sud, per ragioni non sempre chiare, delle forze di intervento capaci di creatività e di azione, che adesso sono bloccate. I governanti, in Francia, credono di essere 1’alternativa al capitalismo: non ne sono convinto. Bisogna passare tramite loro? E come proporre cosí un’alternativa? Credo che un progetto di alternativa potrebbe essere esteso alla Spagna, all’Italia, alla Francia, alla Grecia, e forse a tutto il Bacino mediterraneo.

La dichiarazione dei diritti dell’uomo cosí com’è, è molto importante, ma è incompleta. Non bisognerà forse aggiungerci il concetto di «nuova cittadinanza»[16] a ribadire la partecipazione attiva del cittadino, per esempio, alla vita della sua città? Occorre, inoltre, fare tutti gli sforzi per cambiare la vita quotidiana, e per questo possiamo usare anche le nuove tecnologie.

Tempo fa a Marsiglia ho saputo come la povera gente, gli emigrati, gli iugoslavi, i magrebini, la gente dell’Africa del Nord, non si scrivono piú (prima avevano degli scrivani pubblici). Sapete cosa fanno? Si mandano delle cassette. Ecco un uso concreto, pratico, della tecnologia. Mi è stata raccontata la storia di una donna il cui marito era partito per Lione, lasciandola sola con due bambini. Non avendo piú notizie di lui, gli ha spedito una cassetta, dicendogli: “razza di sporco individuo, sei un uomo schifoso che lasci la tua moglie e i tuoi figli; sbrigati a dare tue notizie!”. Forse non avrebbe mai scritto questi insulti, ma la cassetta è una forma diretta e immediata di comunicazione, e dà bene l’idea di una nuova immediatezza, che si conquista tramite i mezzi tecnologici moderni.

Allora. un progetto di società alternativa dovrà essere molto largo e comprendere una democrazia completa per le comunità, la trasformazione della vita quotidiana e un adattamento progressivo al non-lavoro (la disoccupazione, infatti, non credo che la si riassorba con 1’aumento delle forze produttive, visto che queste vanno verso 1’automazione del lavoro). È necessario, inoltre, un adattamento progressivo della società non solo agli svaghi, che hanno dato luogo a un’industria, e alla cultura, che ha dato luogo a una produzione, ma a una nuova cultura politica[17].

La «nuova cittadinanza» comporta un’idea interessante in rapporto al marxismo. Marx ha detto che bisognava realizzare la filosofia; anche un noto libro di Adorno dice che la filosofia continua perché il momento della sua realizzazione è stato mancato. Ora questa «realizzazione» si potrebbe trovare anche nell’estetica. L’estetica, come conoscenza dell’arte, ha un senso, infatti, se dà luogo a una pratica, alla realizzazione dell’estetica stessa. E quello che succedeva in altri tempi per 1’architettura nelle vostre città, a Firenze: non una visione astratta, ma un’estetica, un’idea dell’arte.

La realizzazione dell’arte (ma la realizzazione vera, che non passa attraverso disegni, o riproduzioni, o scarabocchi, che si attaccano al muro) tocca 1’architettura, l’urbanistica, la trasformazione della vita, in altre parole la metamorfosi della vita[18]. Bisognerà servirsi di tutti questi elementi per giungere ad un progetto di società alternativa.

I socialisti in Francia, invece, hanno concepito un progetto di società, che d’altronde non si e realizzato, che non va oltre la democrazia rappresentativa. Occorre allora arrivare all’allargamento dei diritti dei cittadini, reintegrare, ravvivare, 1’idea della «cittadinanza», che si è un po’ smorzata. Qui credo che la vostra rivista potrebbe svolgere un ruolo attivo nell’elaborazione di questo progetto: perché ormai non si sa piú che cosa sia socialismo. Se il socialismo è da ridefinire, è necessario un progetto.

 

 

La sinistra francese

 

D. Qual è la sua valutazione sulla sinistra francese?

 

R.: Sono un uomo di sinistra, ma devo dire che questa non è in uno stato eccellente e vive una condizione paradigmatica.

Parlavo prima della capacità autodistruttiva che si unisce alla capacità creativa: è esattamente questa la condizione della sinistra. Da molti anni lavora per distruggere se stessa. Il discorso ha un senso soprattutto sul piano teorico e ideologico, ma da venti o trenta anni è successo di tutto, sembra che la sinistra abbia voluto demolire tutto quello che aveva realizzato: la sua forza, il suo patrimonio, quello che aveva ricevuto dalla Rivoluzione francese, da Marx, e da altre parti. Non c’e un’idea che non sia stata sottoposta a critica, e per di piú a critica distruttiva.

Prendo a esempio l’umanesimo. Quello che si chiamava umanesimo era qualcosa di molto fragile. Derivava in parte dai gesuiti e dalla borghesia liberale; era un eclettismo un po’ fittizio, che idealizzava tutto e valorizzava 1’essere umano solo in quanto cittadino astratto. Si potevano fare mille rimproveri a questo umanesimo: in particolare, sia di tenere conto solamente di certe leggi, come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, e non delle loro applicazioni reali, sia di limitarsi alle analisi di testi classici e letterari piú o meno tradizionali. Tuttavia, c’era anche 1’umanesimo che Marx tentava di costituire, un umanesimo piú concreto, né borghese, né liberale; ebbene niente di tutto questo è sfuggito alla critica.

L’umanesimo marxista è stato demolito, non senza virtuosismo, da un marxista: Althusser. Il punto di partenza di Althusser è la distruzione di quello che Marx ci aveva lasciato come valori, come valorizzazione dell’essere umano, sostituendovi solo il sapere, il sapere del sapere, quello che sfuggiva alla critica condotta attraverso 1’epistemologia. Dopo non si sono piú avuti valori; l’unico valore persistente era questa epistemologia che non permette di vivere: non si vive su un sapere o sulla semplice applicazione del sapere. Il marxismo ridotto a un’epistemologia è un marxismo irrigidito, ghiacciato, senza capacità di emozione[19].

Ma non ci si può fermare solo all’umanesimo: è tutta la tradizione giacobina che è passata sotto la critica, e non ne è rimasto nulla.

II progresso: l’idea di progresso è facile; divulgata sotto la Terza repubblica è servita a miriadi di discorsi, da quelli dei consiglieri comunali, dei maestri di paese, fino a quelli del presidente della Repubblica. Era facile da demolire, ma, una volta demolita, cosa rimane?

La razionalità: eccetto la sua base tecnologica, il suo fondamento era senza dubbio fragile. La filosofia costitutiva di questa trilogia – umanesimo, razionalismo, progressismo – era forse la filosofia di Kant, che non ha resistito agli attacchi; 1’irrazionalismo è spuntato da tutte le parti, in psicologia, in sociologia, in storia, in psicanalisi; non c’e rimasta razionalità.

L’informatica: è stata data come qualcosa che basta a se stessa, come se 1’attività principale dell’uomo consistesse nel ricevere dei messaggi o nel decifrarli. Ma cosa ce ne facciamo di questi messaggi, e cosa passa tramite questi, qual è il loro contenuto e come si utilizzano quando li si riceve? Tutto questo è stato lasciato da parte, a vantaggio della semplice nozione formale del messaggio e della comunicazione.

Dunque, tutto quello che dava un senso alla sinistra è stato distrutto dalle fondamenta e non è stato proposto niente per rimpiazzarlo, o, quando qualcosa è comparso, non ha avuto eco.

La sinistra ha dato prova di un potere di autodistruzione straordinario, favoloso, fin dall’inizio del XX secolo. Ciò che dice Lukycás in La distruzione della ragione è solo parzialmente esatto, perché l’umanesimo ha persistito e anche il razionalismo. Tutto ciò doveva essere criticato, ma non distrutto, insieme al progressismo. Adesso c’e un ammasso di rovine.

La sinistra è arrivata al potere sulle rovine della sua ideologia. Qui che c’e bisogno di qualche cosa di nuovo, è qui che potete, dovete, aprire l’orizzonte e sforzarvi, nella vostra rivista, di porre le basi di un discorso innovatore.

 

 

Lo storicismo della sinistra italiana

 

D. E la sinistra italiana?

 

R. Conosco la sinistra italiana meno della sinistra francese. Conosco la sinistra francese come testimone da decine di anni, so come lavora alla propria distruzione, che mi sembra, d’altronde, essere un cattivo presagio per 1’Europa stessa. Mi pare che apra un processo che può avere delle conseguenze piuttosto gravi. La sinistra francese si basava su un’idea abbastanza astratta, che avrebbe dovuto essere completata dalla ragione, ma ciò non e avvenuto.

La sinistra italiana si fonda di piú sulla storia, su una certa storia, che diviene storicismo e marxismo (Labriola, Gramsci). Dico subito che non sono gramsciano e non so se oggi potete trarre ancora molto da Gramsci. Ciò che io non accetto di Gramsci è che è prestaliniano. Tutto quello che ha scritto in Il principe moderno e Le note su Machiavelli mi sembra molto preoccupante dopo 1’esperienza staliniana; restano comunque scritti di grandissima importanza. Non credo però che dopo il periodo staliniano possano servire per trarne molte conseguenze politiche e pratiche[20].

A ogni modo, la sinistra italiana mi sembra avere basi piú solide della sinistra francese, particolarmente perché non ha avuto questa spinta – che gli psicanalisti chiamerebbero masochista – all’autodistruzione. In Francia c’è gente di sinistra che, per fondare un sapere inespugnabile, ha costruito, in nome dell’epistemologia, una specie di fortezza imprendibile e completamente isolata, ma inefficace e destinata a cadere in rovina.

È anche grave che i governanti non abbiano altro mezzo di agire sull’opinione pubblica se non quello di dire che la destra è una minaccia. Questo è senz’altro un buon argomento, ma non dà un’ideologia, una teoria, un’argomentazione, su cui si possa costruire qualcosa. In questo senso voi avete basi migliori per costruire una nuova prospettiva di sinistra.

 

D. Come spiega questo comportamento autodistruttivo della gauche francese?

 

R. Il fenomeno dipende dal fatto che non ci sono confini precisi tra la critica e l’ipercritica, e nel pensiero critico si e sempre tentati di cedere all’ipercritica.

Lo si vede molto bene anche nel pensiero marxista, laddove Adorno parla di una dialettica negativa: se questa si spinge fino in fondo, si distrugge da sé. L’estetica di Adorno, infatti, si distrugge da sé; vuole dare una teoria dell’arte e dice che la teoria dell’arte è destinata è distruggersi. Quindi, questo eccesso di negatività si trova nello stesso pensiero marxista, nello stesso Adorno, che, per quanto sia un grande, passa dalla critica all’ipercritica. L’ipercritica è la critica che mette in discussione se stessa, che mette in gioco la sua validità e la sua efficacia.

 

 

Per un progetto internazionale

 

D. Come pensare il progetto della costruzione di una nuova cultura politica? Infine, che cosa bisogna o che cosa si può fare in questa situazione?

 

R. Ponete la domanda su un piano filosofico e teorico, o su un piano politico e pratico? Perché non è la stessa cosa. Devo rispondervi su un piano teorico e filosofico, o pratico e politico, o, come penso, su tutti e due? Non è una risposta semplice.

È necessario, ma non sufficiente, proporre un’alternativa. Questa alternativa bisogna che sia un progetto. Ci sono gia stati dei progetti di società e molti ne hanno a tutt’oggi. C’e un progetto di società cristiana in Vaticano o in Polonia, forse; c’e un progetto di società in Iran, che si regge su quel fanatismo straordinario e completamente imprevisto che la religione ha prodotto in molto paesi.

I progetti di società non mancano, ma abbiamo bisogno di un progetto di società credibile e accettabile. Si tratta, dunque, di un grande lavoro collettivo e internazionale. Non penso affatto che bisogna farlo per l’Italia, per la Francia, per la Spagna singolarmente. Ciò vuol dire che, se volete procedere su questa strada, vi dovete sforzare di costituire un “gruppo” internazionale che tenga conto delle particolarità dei differenti paesi, ma che sappia anche proporre qualcosa di ordine piú generale, per ritrovare una certa universalità.

Un progetto di società accettabile, credibile, è necessario, ma non sufficiente. Se lo si vuole diffondere, occorre intervenire politicamente. Devo dire che finora i politici si sono mostrati piuttosto chiusi; si sono ripiegati sul pragmatismo, non hanno nemmeno piú strategie (forse una strategia militare), almeno in Francia, vivono alla giornata, non hanno un piano d’insieme.

È per questo che si fa sentire il bisogno di un progetto globale, senza che per questo sia un modello esclusivo e totalitario; occorre lasciare spazio al pluralismo. Forse non si è insistito abbastanza sull’idea di un pluralismo politico, in modo da tenere conto delle differenti correnti, dei diversi gruppi sociali, delle differenze di classe e cosí via. Occorre definire un progetto di democrazia pluralistica e diretta nello stesso tempo, il che è paradossale, ma necessario.

Per arrivare a diffondere questo progetto, bisogna svolgere un ruolo di avanguardia, il che non è facile oggi, e bisogna farsi ascoltare. Come? Vi sono dei gruppi in Francia che sarebbero disposti ad ascoltare un nuovo progetto, ma non li credo molto efficaci. Non ho alcuna idea di quello che può succedere in Italia: forse bisogna formare dei quadri politici, o dei circoli politici, o degli scrittori politici?

A ogni modo il problema è politico, ma prima ancora è teorico; occorre riprendere da Gramsci, in modo molto critico, 1’idea che, almeno nel caso della rivoluzione borghese – è l’unica che Gramsci abbia conosciuto e analizzato (e che ricava dall’esame della Rivoluzione francese e anche dalla storia italiana del XIX secolo) –, la rivoluzione culturale ha preceduto la rivoluzione politica. Anche in Francia il XVIII secolo, con Diderot, è il periodo di una vera rivoluzione culturale, che precede e prepara la rivoluzione politica. Forse bisogna ritornare è questa idea, tenendo conto di tutto quello che e cambiato.

Forse il legame tra rivoluzione politica e rivoluzione culturale non è piú quello, ma questo schema di una rivoluzione culturale che accompagna, che addirittura precede la rivoluzione politica va ben esaminato, tanto piú che in nome di Marx, e soprattutto in nome di Lenin, è stato trasformato lo schema per arrivare a dire che la rivoluzione culturale segue la rivoluzione politica. È una questione assai grossa, che voi potreste sollevare nella vostra rivista.

Allora, qui una linea si profila: progetto credibile, da perfezionare e trasformare, tenendo conto di tutto quello che può succedere di nuovo, sia nelle città che nella condizione delle donne. Poi trasformazione della cultura, sia tramite la critica che attraverso delle proposte.

Occorrerebbe proprio proporre qualche cosa nella cultura e forse questo già avviene intorno a noi, senza che ce ne rendiamo conto: forse nella musica, forse nel teatro, vi sono degli elementi nuovi che bisognerebbe valorizzare; forse anche nella poesia.

 

D. Un’ultima cosa: non vuole tornare un momento sulla definizione di nuova immediatezza?

 

R. Attraverso le “mediazioni” formidabili che noi subiamo, con la televisione e la radio, appaiono gli elementi di una nuova immediatezza e il bisogno di contatti diretti[21]. Hanno chiamato questo «convivialità», ma si può ben chiamarlo immediatezza.

Vi ho raccontato, per esempio, la storia delle comunicazioni tramite cassette, dove la mediazione – i media – servono di supporto a una nuova immediatezza: tutto questo nella linea dello sviluppo di una nuova cultura politica.

 

* Henri Lefebvre, nato in Francia nel 1901 ad Hagetmau (Landes), è entrato nel Partito comunista francese nel 1928 e ne è uscito nel 1958, dopo trent’anni di militanza, in seguito al perdurare dell’ostilità del partito, anche dopo il XX Congresso del Pcus, alla sua lunga battaglia antistalinista, riaffermando però la sua adesione al pensiero marxiano e la sua posizione del tutto critica del modo di produzione vigente. Nel 1965 ha avuto la cattedra di sociologia all’Università di Nanterre e nel 1968 ha partecipato direttamente al «maggio francese». Lefebvre è riconosciuto fra i maggiori pensatori marxiani del Novecento. Del filosofo, o piuttosto del metafilosofo (come siamo certi preferirebbe essere chiamato), francese sono stati pubblicati in Italia Il materialismo dialettico, Torino, Einaudi, 1949 (riediz. 1975); Il marxismo visto da un marxista, Milano, Garzanti, 1954; La sociologia di Marx, Milano, Il Saggiatore, 1969; Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970; Linguaggio e società, Firenze, Valmartina, 1971; La fine della storia, Milano, Sugar, 1972; Il marxismo e la città, Milano, Mazzotta, 1973; La rivoluzione urbana, Roma, Armando, 1973; Dal rurale all’urbano, Firenze, Guaraldi, 1973; Spazio e politica, Milano, Moizzi, 1976; La produzione dello spazio, Milano, Moizzi, 1976, vol. I e II; Lo Stato, Bari, Dedalo, 1976-1978, vol. I, II, III, IV; La critica della vita quotidiana, Bari, Dedalo, 1977, vol. I e II; La vita quotidiana nel mondo moderno, Milano, Il Saggiatore, 1978; Il manifesto differenzialista, Bari, Dedalo, 1980; La rivoluzione non è piú quella (scritto con Catherine Regulier), Bari, Dedalo, 1980; Abbandonare Marx?, Roma, Editori Riuniti, 1983.

[1] Dalla redazione del «Ponte», in preparazione all’intervista. Intervista, traduzione e note al testo di Mario Monforte.

[2] Ricordiamo che il 10 maggio del 1981 si ha in Francia l’affermazione elettorale che segna 1’ascesa al governo della sinistra.

[3] A. Glucksmann, La force du vertige, Paris, Grasset, 1983.

[4] La paix indésirable. Rapport sur l’utilité des guerres, preface de H. Mc Landress (J. K. Galbraith), Paris, Calmann-Levy, 1968.

[5] Nella sua opera Lo Stato, voll. I-IV, Bari, Dedalo, 1976-1978, ma anche in Il manifesto differenzialista e La rivoluzione non è piú quella (Bari, Dedalo, 1980), Henri Lefebvre sviluppa e articola la sua concezione, che è vista come rilettura, continuazione e applicazione del marxismo al mondo «moderno». Fondamentale nella sua riflessione è appunto lo Stato; è sulla mancata soluzione della questione dello Stato e sull’abbandono dell’impostazione iniziale del marxismo in merito, che lo stesso marxismo – dice Lefebvre – è finito per scoppiare e ridursi in vane «schegge», «frammenti»: i diversi marxismi. Non abbiamo certo la pretesa di sintetizzare in questa nota una parte essenziale di un pensiero vasto e complesso come quello di Lefebvre. Ne indichiamo soltanto alcuni parziali elementi – in modo forzatamente schematico e riduttivo -, per chiarire il senso di questa parte dell’intervista, rinviando per il resto il lettore interessato alla lettura delle opere indicate. Lo Stato, secondo Lefebvre, e quindi 1’istituzione, il politico, ha sempre avuto una funzione essenziale nell’esprimere e assicurare l’omogeneita e 1’equivalenza, l’astrazione concreta del valore di scambio, dei circuiti commerciali, del lavoro astratto, rispetto all’uso e al valore d’uso, al lavoro concreto, insomma 1’omogeneità «indifferente» rispetto e sulla «differenza». L’economico procede insieme al politico e si sviluppa coerentemente in tal senso, con il formarsi ed estendersi del modo di produzione capitalistico, finendo per schiacciare il sociale (cioè la base dell’esistenza; la suddivisione che compie Lefebvre supera infatti quella dicotomica struttura-sovrastruttura, per articolarsi cosí: base-struttura-sovrastruttura; sociale, economico, politico-ideologico). L’opera e il pensiero di Marx hanno potuto essere fraintesi e distorti anche (ma non solo) perché il lavoro fondamentale di Marx – II Capitale – che doveva occuparsi del reddito, delle classi e dello Stato, come risulta dal piano iniziale, è rimasto incompiuto. Perciò il suo pensiero deve essere interpretato alla luce del complesso delle sue opere (che Lefebvre recupera nel loro insieme, dai Manoscritti economico-filosofici in poi, rifiutando la divisione fra un Marx «marxista» e un Marx «democratico-radicale»), vedendone anche limiti e oscillazioni, ma conservandolo e sviluppandolo. Il modo di produzione capitalistico, che si sviluppa sul piano economico, implicando però costantemente quello politico (basti vedere, dice Lefebvre, il processo di accumulazione primitiva in un quadro piú ampio di quello avvenuto in Inghilterra, comprendendo anche l’esame di quello avvenuto in Europa, insieme alto sviluppo e affermazione degli Stati-nazione), procede attraverso crisi e contraddizioni, estendendosi a tutto il mondo, creando il mercato mondiale e la mondialità, implicando una sempre maggiore fusione con il politico, e viene coerentemente sviluppandosi secondo la sua «natura» (la sua essenza, il suo concetto). Non vi è un momento in cui si può dire che il modo di produzione capitalistico si è gia pienamente realizzato in quanto tale, perché appunto si modifica, procede, si sviluppa. Sviluppandosi, il modo di produzione capitalistico conduce e sbocca net modo di produzione statuale. Questo è caratterizzato dal fatto che è lo Stato che si fa carico della crescita economica, attraverso quel processo che si chiama programmazione economica (di vario tipo) e tramite l’istituzionalizzazione (piú o meno formale) delle imprese e dei processi economici in genere. Ciò implica che i rapporti sociali e di produzione capitalistici, e le classi sociali, non si riproducono da sé, per un cieco meccanismo economico, ma vengono riprodotti, sono oggetto di strategie (non senza un complesso di continue contraddizioni).

[6] Lefebvre ha affrontato piú volte la questione delle multinazionali (in Lo Stato e Il manifesto differenzialista). Ricordiamo, in particolare, La rivoluzione non è piú quella, p. 114 ss. La. concezione di. Lefebvre relativa alle multinazionali è da inserire in quella di «mondalità», cioè di mercato mondiale (sostanzialmente unico) da un lato e, dall’altro, di strategie politico-statuali, che, per essere veramente tali, devono estendersi su un piano mondiale. Le multinazionali non sono le semplici eredi dei monopoli; organizzano la produzione alla loro scala, esprimono strategie globali (cioè mondiali) e occupano gli spazi vuoti esistenti, dalle regioni locali al mercato mondiale. Sono un’altra forma, generata dallo sviluppo del modo di produzione capitalistico in modo di produzione statuale, di raggiungere e installarsi (istituirsi) nella mondialità. Ma questo implica una contraddizione continua, latente o aperta a seconda dei casi, con lo Stato, con gli Stati, i quali sono posti nella condizione di doversi sottomettere alle multinazionali, oppure opporsi.

[7] Con questo «aggravandolo» Lefebvre intende sia confermare e riaffermare quanto ha detto sul modo di produzione statuale e sullo Stato della crescita economica («Stato della crescita, crescita dello Stato», Lo Stato, vol. I, p. 75 ss. in particolare) nonché sulle multinazionali e sulla dialettica fra queste ultime e Stato, sia mettere in evidenza come il modo di produzione statuale e il sistema degli Stati si è perfezionato, radicato, saldamente installato nel mondo – cosí si è anche accentuato il complesso di contraddizioni che comporta, lo «stato critico» permanente e globale – ,e come si sono intensificate le contraddizioni con le multinazionali.

[8] La tematica del decentramento si connette nel pensiero Lefebvfre a quella della democrazia sostanziale, diretta, e dell’autogestione; è una linea che unisce tutto il complesso delle sue opere. E cosí che, secondo Lefebvre, si esprime ciò che strategie politiche e politica economica tendono costantemente è ridurre, a schiacciare, ciò che è compresso fra il politico e 1’economico, e che invece è irriducibile: il sociale, la società, con le sue tendenze, negate e soffocate, strumentalizzate e subalternizzate, ma tuttavia esistenti, a riappropriarsi dell’economico e del politico, sussumendoli. Si tratta perciò di tendenze intrinsecamente rivoluzionarie.

[9] Si allude alla gerarchia statuale, cioè al sistema gerarchico di Stati che si è installato su tutto il pianeta – gerarchia instabile, perché sottoposta alla legge dello sviluppo ineguale e carica di conflitti e tensioni –, che trova una sua forma di espressione nel «parlamento» mondiale degli Stati, 1’Onu (vedi Lo Stato, vol. I).

[10] Sul modo di produzione statuale nel suo «genere» del socialismo di Stato, con 1’esame della sua genesi in Urss tramite lo stalinismo e 1’analisi delle condizioni contemporanee, vedi Lo Stato, vol. I, p. 255 ss., vol. II, p. 295 ss., anche vol. IV, p. 330 ss.; vedi inoltre Il manifesto differenzialista.

[11] Su questo punto insiste Lefebvre nelle sue opere (Il manifesto … , La rivoluzione … , Lo Stato, op. cit.): la classe operaia ha subito due sconfitte di importanza storica: la prima, non riuscendo a impedire la prima guerra mondiale, anzi subendola e partecipandovi; la seconda, con il nazismo e i «regimi totalitari». Protagonista di questi conflitti è stato sempre ciò che di nuovo si annunciava, cioè lo Stato, nel suo perfezionamento, e il procedere del capitalismo verso il modo di produzione statuale.

[12] Questa «pseudo-rivoluzione» avviene all’interno del capitalismo; ricordiamo che, secondo Lefebvre, il capitalismo di Stato è uno dei due «generi» del modo di produzione statuale. Nel capitalismo di Stato i rapporti di produzione capitalistici vengono riprodotti attraverso le strategie politiche ed economiche, anche se questa riproduzione non avviene senza continue contraddizioni e conflitti, senza modificazioni (e nuovi contrasti fra quanto resta di capitalismo vero e proprio, e rapporti relativi invece al modo di produzione statuale). In questo senso Lefebvre parla di «pseudo-rivoluzione»: perché all’interno del capitalismo e utilizzata per la sua riproduzione.

[13] Ci riferiamo all’articolo di Lefebvre pubblicato su «Le Monde» il 7 gennaio 1978 e intitolato Le vent du Sud. In quest’articolo Lefebvre metteva in luce le potenzialità esistenti nell’«Europa latina» (riferendosi espressamente a Spagna, Italia e Francia) sia in termini di base industriale, sia di posizione strategica, sia di forza e attività della società civile e spazi di democrazia. Potenzialità dirette verso una chance: aprire una nuova via, nello svincolamento dalle due superpotenze, verso una società nuova, diversa sia dal socialismo di Stato che dal capitalismo di Stato (pur nella sua variante socialdemocratica), una società non subordinata allo Stato, fondata sulla democrazia diretta, sul decentramento effettivo che implica 1’autogestione. Lefebvre collegava allora l’individuazione di queste potenzialità alle possibilità che si aprivano per quello che fu chiamato «eurocomunismo» (pur riferendosi ai partiti «eurocomunisti» in modo molto problematico). In altre occasioni Lefebvre si è già espresso, in seguito, sul fallimento dell’«eurocomunismo» (in generale e come momento di apertura e di avanzata per le potenzialità indicate) e nell’intervista che pubblichiamo non ne fa piú parola, mentre conferma 1’esistenza delle potenzialità individuate, che anzi estende ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

[14] Ricordiamo l’importanza centrale che hanno nel pensiero di Lefebvre il concetto e la pratica dell’autogestione, come espressione concreta del decentramento e della democrazia diretta, quindi come ripresa del marxismo rivoluzionario sulla questione dello Stato e del socialismo. Perciò Lefebvre ha anche seguito l’esperienza iugoslava, che non costituisce però per lui né un modello, né una via da seguire (vedi La rivoluzione non è piú quella; vedi Lo Stato, vol. III, p. 290 ss.). L’autogestione implica necessariamente il movimento dal basso; se fatta propria, gestita e imposta dall’alto, si snatura e fallisce.

[15] Lefebvre è già recentemente entrato in merito alla questione dell’alternativa, nell’intervista intitolata Pour un projet politique, rilasciata il 29 aprile 1982 e pubblicata sulla rivista «Autogestions», n. 10, estate 1982, pp. 3-12. Termini e concetti che userà nella presente intervista hanno come presupposto e quadro di riferimento il discorso sviluppato su «Autogestions».

[16] Vedi Pour un projet politique cit., p. 7; la nouvelle citoyenneté si configura, secondo Lefebvre, come diritto del cittadino di partecipare attivamente, attraverso la cultura e la conoscenza politica, alle decisioni, in contrapposizione al ruolo a cui viene sempre piú ridotto, quello di utente, che deve invece essere riassorbito e sussunto in quello del «nuovo cittadino».

[17] Vedi Pour un projet politique cit., p. 7; secondo Lefebvre la nuova cultura politica si deve caratterizzare per un aggiornamento concreto della coscienza e della conoscenza politiche, per la spinta a prendere parte attiva a tutte e decisioni (e a negarne anche alcune), per 1’acquisizione degli elementi fondamentali di un pensiero teorico adeguato alla situazione attuale.

[18] L’estetica «applicata» come uno dei mezzi per trasformare e metamorfizzare la vita, la vita quotidiana; la trasformazione della vita vista come molla e scopo reali della rivoluzione sono altre tematiche fondamentali per Lefebvre, da lui affrontate in La vita quotidiana nel mondo moderno e nella Critica della vita quotidiana cit. (e altre opere non pubblicate in Italia). Ma la vita esiste, avviene, si svolge nello spazio e la sua metamorfizzazione implica e richiede quella dello spazio (quindi della città, dell’urbano). Qui un altro campo di tematiche essenziali, che Lefebvre tratta in opere quali Il diritto alla città, La rivoluzione urbana, Dal rurale all’urbano, Il marxismo e la città, Spazio e politica, La produzione dello spazio cit.

[19] Lefebvre ha condotto una lunga e approfondita battaglia teorica contro il «marx-strutturalismo» di Althusser e della sua scuola, nonché contro lo strutturalismo in generale come tendenza filosofico-ideologica; vedi in particolare L’Ideologie structuraliste, Parigi, Anthropos, 1971 e, per la linguistica strutturalista, vedi Linguaggio e società cit.

[20] In proposito vedi Lo Stato, vol. II, p. 285 ss.

[21] I bisogni di contatti diretti fanno parte di quelli che Lefebvre chiama i «nuovi bisogni» (che vede come fondamento per la ripresa del sociale sul politico e 1’economico). Lefebvre definisce in generale i «nuovi bisogni» come quelli che non passano attraverso gli scambi commerciali e le reti dell’equivalenza. Si tratta dei bisogni di beni non scambiabili, nel lavoro, nelle opere, nella vita, nello spazio; vedi Pour un projet politique cit., p. 9.

PENSARE LA PACE

Intervista a Henri Lefebvre*

Parigi, 11 dicembre 1983

«Il Ponte», n. 1, gennaio-febbraio 1984, pp. 9-34

 

Le domande che tempo fa mi avete inviato per posta[1] richiamano una situazione che non è per niente semplice, perché, per rispondere, sono obbligato ad avere un duplice linguaggio, quasi un duplice pensiero. Se io dicessi tutto quello che penso, per esempio, della politica attuale del governo o di quello che riguarda l’Europa, sarei molto critico: rischierei di essere ipercritico e di eccedere, di non centrare il bersaglio voluto, rischierei anche di essere utopistico; ma se fossi realistico, allora farei un discorso ben diverso e apparirei come se, in nome della realtà, accettassi quello che succede.

Ciò vuol dire che ci si trova davanti a un divorzio tra teoria e pratica, che si adotta in modo distinto il linguaggio della teoria o il linguaggio della pratica. La differenza è enorme ed è estremamente difficile evitare gli errori, sia 1’ipercriticismo, in nome del quale si demolisce tutto, sia il realismo, in nome del quale si accetta tutto. Poco tempo fa la rivista «En jeux» mi ha posto questa domanda:

 

il 10 maggio[2] è stato un evento fondamentale, come molti hanno creduto, cioè un evento che rende possibile una visione del mondo rinnovata, oppure non ha fatto altro che completare le trasformazioni socio-economiche e culturali dei due decenni precedenti? In altri termini sarà una data storica per il domani che esso annunciava, oppure sarà una data storica come punto d’arrivo di un’evoluzione?

 

Ecco una domanda che è estremamente imbarazzante, che non è falsa, che è precisa, che è giusta, che non coincide esattamente con quelle che voi mi fate, ma che le implica, e alla quale è molto difficile rispondere, evitando sia il punto di vista ipercritico, sia quello realistico che tutto accetta. Allora, a una domanda come questa, sono sempre tentato di dire che 1’uno non esclude 1’altro, che quello che succede in Francia da due anni è nello stesso tempo il risultato e 1’esito di un certo periodo, e forse l’inizio di un altro.

Questo pone di nuovo il problema della transizione, un vecchio problema, che si pone da piú di un secolo. È stato ripreso da tutti e da tutte le parti, senza per questo essere stato risolto. Siamo veramente in una transizione o in un vicolo cieco? È molto difficile rispondere senza evitare gli eccessi o senza cadere nell’ambiguità.

Ma vorrei cominciare a rispondervi con una considerazione: ci invitano da ogni parte a pensare la guerra. In questi ultimi tempi, qualcuno che io conosco un po’, Glucksmann, ha avuto un grossissimo successo; è un lettore di Clausewitz, è stato maoista. Non ho letto il suo ultimo libro[3], ma a sentire i commenti – e lui stesso è pressapoco cosí – adesso egli sembra voler pensare lo stato di guerra come qualche cosa di permanente, non solamente come minaccia, ma come prospettiva immediata.

Ci invitano a pensare la guerra o uno stato di guerra imminente. Io propongo di pensare la pace. Mi sono accorto che nessuno pensa la pace, né si predispone a pensarla. Il problema mi è apparso con molta chiarezza qualche tempo fa, quando ho potuto leggere un libretto di cui avevo sentito parlare ma che avevo perso di vista, dal titolo La pace indesiderabile. Rapporto sull’utilità della guerra[4]. Credo che tutto quello che è stato detto dopo sia uno scherzo in confronto a questo libro, scritto da una decina di americani altamente qualificati e poi pubblicato da uno di loro. Il libro inizia cosí:

 

la pubblicazione senza autorizzazione di questo documento, che sarà oggetto di serie polemiche, pone tre domande: la prima è quella dell’autenticità; la seconda è quella di sapere se si possono considerare come fondati i motivi che hanno spinto uno degli autori a pubblicarlo, in violazione al giuramento che aveva prestato; la terza riguarda la validità, tanto sul piano teorico quanto su quello pratico, della sua conclusione.

 

Chi lo ha pubblicato è Galbraith, ed è un’autorità su scala mondiale. Egli dice che la pace è non solo impensabile ma indesiderabile, perché tutta l’economia è basata sugli armamenti, e non solo questo: tutti i nostri valori morali sono basati sulle tradizioni «guerriere», sul fatto che bisogna essere capaci di vivere con l’idea della guerra, di entrare in guerra, di accettarla, di condurla con successo. Tutta la nostra civiltà occidentale è basata sulla guerra, e la pace è impensabile. La pace non è nemmeno pensata, perché tutte le società hanno sempre vissuto sul piede di guerra, con valori «guerrieri».

A mio parere la vostra rivista dovrebbe ricordare 1’esistenza di questo libro o ripubblicarlo con un commento, perché mi sembra un documento capitale per la politica americana e anche per la politica attuale.

Ci si dovrebbe chiedere se per il pensiero marxista – o che tenta di esserlo – non sia venuto il tempo di introdurre qualche cosa di nuovo, pensando la pace. Sarebbe proprio una novità. Abbiamo constatato in diverse occasioni che la gente ha bisogno di qualcosa di nuovo, ne ha bisogno e nello stesso tempo lo teme; sarebbe una novità provare a pensare la pace, perché non c’e mai stata una società fondata sulla pace. Guardate la situazione in relazione al pensiero di Marx: non soltanto ci si è messi sotto il patrocinio di Eraclito – la guerra è il padre di tutte le cose –, ma l’idea stessa della lotta di classe è sempre stata accettata come qualcosa che porta a un confronto armato. Marx, inoltre, pensava che 1’epoca borghese arrivasse già a oltrepassare lo stadio delle società «guerriere» con l’importanza del mercato internazionale. Invece, è successo che con l’importanza assunta dal mercato mondiale, e precisamente nella prospettiva e nella pratica del modo di produzione capitalistico e della borghesia, dall’estensione del mercato mondiale è risultata l’importanza dei mercati nazionali, con tutto quello che ciò comporta, cioè le implicazioni non solo politiche e concorrenziali, ma «guerriere». E questo lo si vede da da piú di un secolo. In quanto a Lenin, egli ha pensato che i confronti tra gli imperialismi portassero necessariamente alla guerra e che la classe operaia avrebbe potuto approfittarne per mandare avanti la propria lotta. In quanto a Stalin, quello che ha pensato fino al 1940 rimane oscuro; forse si è immaginato che la guerra tra i paesi imperialisti risparmiasse questa prova alla Russia sovietica.

A ogni modo, nel pensiero marxista solamente Rosa Luxemburg sembra abbia detto che la pace era necessaria alla classe operaia (la quale poteva e doveva imporla) e abbia elevato a pensiero teorico l’idea della pace. E anche comparsa – cosa curiosa – presso i marxisti l’idea di un’aggressività fondamentale dell’essere umano; credo che appaia in Marcuse soprattutto, e forse in Adorno, perché la dialettica del negativo sembra implicare 1’aggressività o la negatività fondamentale dell’uomo; anche se questo non è chiaro in Adorno, mentre lo è di piú in Marcuse.

Dunque, il pensiero marxista è anche un pensiero della guerra; possiamo allora pensare la pace? Possiamo pensare una società che non sia fondata su valori «guerrieri»? Quando in qualche modo anche Marx ha concepito il lavoro come una specie di lotta «guerriera» contro la natura, come una specie di aggressività fondamentale dell’essere umano nei confronti della realtà naturale? Si possono introdurre dei nuovi valori che non siano piú dei valori «guerrieri», diretti o indiretti?

Ecco il primo problema, che io vorrei porre in questo colloquio e che la vostra rivista potrebbe affrontare, e sarebbe la prima a farlo.

 

 

La società autodistruttiva

 

D. Bisognerebbe allora pensare al rapporto tra guerra e distruzione?

 

R. Ah sí, molto giusto! Perché una società che si fonda sulla distruzione, arriva alla propria autodistruzione. Non è mai inoffensiva la volontà «guerriera»; presto o tardi si rivolta contro se stessa e la volontà di distruzione si rovescia letteralmente in autodistruzione. Forse si può concepire un modo di confronto che non porti alla guerra, cioè allo spargimento di sangue, anche se evitato a mala pena, come se ci si potesse avvicinare indefinitamente a questo punto limite, senza mai raggiungerlo. Questo mi sembra il punto di vista dello spirito diplomatico e politico: però non si è mai realizzato, si è toccato sempre, a un certo momento, il punto fatale dello scoppio. Mentre bisogna, forse, portare un po’ oltre l’idea della coesistenza pacifica, che era emersa e poi abbandonata da molto tempo, ma che non ha permesso di pensare la pace, consistendo semplicemente nell’evitare la guerra.

Quello che vorrei dire è che pensare la pace non è per niente pacifismo; il pacifismo è evitare la guerra, evitare la catastrofe, mentre ci si sente sull’orlo. Pensare la pace è pensare, concepire e sforzarsi di realizzare una società il cui problema non sia piú di evitare la guerra; è pensare una società pacifica. Ciò fa parte di questa problematica immensa con la quale ci stiamo confrontando.

 

 

Il non-lavoro

 

Immaginate che sotto questo termine, «crisi», si intendano molte cose molto diverse le une dalle altre, perché dire che c’e una crisi profonda è una banalità; dire che la crisi è totale, che tocca tutti i valori, diventa banale; dire che le morali e le estetiche sono in crisi è forse meno banale, ma infine non porta è niente di molto nuovo. Mentre quello che non si dice è che questa famosa automazione di cui si parla tanto, conduce, non subito, ma in un orizzonte forse non lontano, al non-lavoro. È la fine del lavoro che si annuncia in questa crisi. Invece, prima tutti lavoravano, e bisogna pur farlo: si cerca di lavorare, si vuole del lavoro. Solo il lavoro permette di vivere, mentre, invece, con 1’automazione completa della produzione è all’orizzonte il non-lavoro. E ciò fa parte di questa crisi, è forse anche un aspetto subordinato a volte, ma essenziale, e che passa assolutamente sotto silenzio.

C’e una specie di relazione tra questo problema del non-lavoro e quello della pace, ed è una relazione mal determinata, mal definibile, che bisognerebbe forse pensare e concepire, perché questa società che considera il lavoro come unico valore di pace, non è la società pacifica, non è la società di pace da pensare. Allora qui c’e un pensiero teorico completamente utopico: il non-lavoro è utopico oggi; non è mai stato cosí utopico, e però ci siamo già, è presente, con i nomi di cibernetica, informatica, di questo e di quello; è l’automazione completa del lavoro produttivo, che non è per domani, né per dopodomani, ma è all’orizzonte, è il nostro orizzonte.

Anche il problema del lavoro è particolarmente difficile da porsi, come quello della pace, d’altronde. Come questo problema sarà affrontato, come sarà risolto? Non si vede bene alcuna prospettiva. Ciò non entra nemmeno nelle prospettive degli uomini politici, non piú, del resto, del problema della pace o di quello del disarmo. D’altronde, si parla della robotizzazione completa, ma senza dire come ci arriveremo e dove, poi, ci condurrà.

C’è parecchio da pensare: si dirà, forse, che si fa della filosofia, si dirà, forse, che si fanno delle speculazioni, ma in effetti, come problema, è terribilmente pratico e concreto.

 

 

La mondialità e il lavoro

 

D. Come vede ora la situazione globale, la mondialità? Otto anni dopo la pubblicazione dei suoi quattro volumi sullo Stato, nei quali Lei ha messo in luce il concetto di modo di produzione statuale – che ricopre sia il capitalismo che il socialismo di Stato[5] – ritiene che si imponga un aggiornamento? E i rapporti fra lo Stato e le imprese multinazionali?

 

R. Sulla mondialità: ancora non è chiaro questo concetto di mondialità. La mondialità ci appare piú come un ammasso di contraddizioni e di conflitti che come qualche cosa che può essere definito. E tuttavia la mondialità ha un senso: 1’uomo di domani, e forse anche quello di oggi, è già un essere planetario, che ha una certa conoscenza, che ha delle relazioni con quasi tutto il pianeta (e anche al di là del pianeta). Ma la nozione di mondialità rimane poco elaborata. La nozione stessa di mondo rimane oscura – quella di mondiale o di planetario, visto che si tratta quindi della terra, e non dell’universo, comprese le stelle e le galassie –, rimane praticamente e teoricamente inesplorata.

Sarà 1’uomo planetario colui che troverà delle attività adeguate a rimpiazzare le attività «guerriere» e le attività produttrici cosí come sono oggi? È questa la domanda. La questione del mondiale e del planetario è, dunque, legata a quella di prima, quella del lavoro; è il terzo aspetto della questione.

In quanto allo Stato, credo che ci sia del nuovo da quando il mio libro è stato scritto, senza che quello che io ho provato a dire sullo Stato abbia per questo perso validità. Per esempio, lo Stato appare come gestore dell’energia: del petrolio, che è importato o esportato; dell’energia nucleare. Lo Stato ha un’importanza primordiale nelle informazioni; anche quando non sono completamente sottoposte al politico e allo statuale, questi hanno un ruolo determinante da tutti i punti di vista, e anche nella tecnologia. Lo Stato, poi, è sempre piú importante nelle relazioni di ogni paese con il mercato interno, con il mercato mondiale e con le imprese multinazionali[6].

Voi mi richiamate, molto giustamente, sulla questione delle imprese multinazionali: è di un’importanza estrema.

Quali sono i mezzi che gli Stati nazionali possiedono nei confronti delle società multinazionali o sovranazionali? Ecco, non c’e possibilità di saperlo e ci si chiede anche se gli uomini di Stato lo sappiano chiaramente. Forse procedono volta per volta, empiricamente e pragmaticamente, cedendo su un campo per guadagnare su un altro. Mi chiedo quali siano le capacità degli Stati, come lo Stato francese, nei confronti dell’Ibm, per esempio, che non ha il monopolio completo su scala mondiale, ma che comunque controlla gran parte di ciò che riguarda l’informatica. Lo Stato, cosí com’è oggi, rischia di diventare il gestore, per conto delle società multinazionali, su scala nazionale delle forze produttive arretrate tecnologicamente ed economicamente.

Ciò che ancora mi colpisce molto, è che le multinazionali tengono i due capi della catena: ce ne sono che fanno gli yogurth, il pesce surgelato, i blue-jeans, eccetera, e altre che detengono l’informazione. Ciò vuol dire che le une controllano la vita quotidiana e le altre i mezzi di comunicazione su scala mondiale. Questo è estremamente minaccioso.

Già una parte immensa del commercio, forse i1 30 o i1 40%, si svolge direttamente tramite società multinazionali. Su ciò ho una documentazione che proviene da una pubblicazione, Le forum du développement, organo dell’università mondiale che ha sede a Tokyo (ne faccio parte dalla fondazione); pubblica un mensile su cui c’e una documentazione insostituibile su tutti questi problemi, compresa 1’attività delle multinazionali. Con questo non è che i problemi siano risolti: si sono posti solo gli interrogativi, le soluzioni sono di la da venire.

 

D. Anche gli Stati del Socialismo di Stato corrono questo rischio, di diventare i gestori per conto delle società multinazionali?

 

R. Sí, credo che non sfuggano a questo rischio, ma che abbiano probabilmente – dico probabilmente – piú mezzi per reagire nei confronti delle società multinazionali. Non senza difficoltà, perché queste multinazionali sono in testa nella produzione, soprattutto dal punto di vista tecnologico.

Ho anche sentito sostenere che sono quelle che, secondo Marx e il marxismo, devono essere considerate come portatrici del progresso, visto che rappresentano le forze produttive e la tecnologia. Ma non è senza pericolo consegnare loro il mondo intero, perché ciò si traduce nell’impoverimento. Si prendono la ricchezza di un intero paese, anche se poi la riportano in altri paesi, come gli Stati Uniti.

Il caso piú curioso è senza dubbio il Messico, in cui le grandi società multinazionali hanno prestato il denaro e venduto il materiale per estrarre il petrolio e poi hanno comperato il petrolio estratto, pretendendo il rimborso con gli interessi per il denaro prestato. È un modo di sfruttamento straordinario, e questa nozione di sfruttamento, che è la nozione piú banale in Marx, sento dire da tutte le parti in Francia che è fuori moda. Evidentemente non si sa come si applica nel mondo moderno.

Sono andato spesso in Messico e ho un po’ osservato gli affari messicani: è lo sfruttamento di tutto un paese. Gli si e succhiata la ricchezza fino a portarlo vicinissimo alla scomparsa, alla fine, alla morte da tutti i punti di vista: agricolo, petrolifero, industriale. Questo paese è sull’orlo della catastrofe, certamente con la complicità di una parte della borghesia e del capitalismo locali. Insomma è un paese che è stato sfruttato a morte; è un esempio particolare, ma ce ne sono tanti altri. Non è sicuro che la Francia sfugga a questo destino, e nemmeno l’Italia. Quali sono i mezzi di difesa degli Stati nazionali: ci sono delle leggi? Ci sono delle procedure? Come si trasferiscono i capitali? Devono esserci dei mezzi, ma io non li conosco. Probabilmente è solo la “gente” al potere che li conosce, ma è senz’altro molto pericoloso non avere un controllo democratico, o almeno un controllo parlamentare, su questi trasferimenti di capitali, che sono trasferimenti di plusvalore. Non è solo denaro che si sposta, infatti, ma plusvalore.

 

 

Decentramento difficile

 

Allora bisogna modificare quello che ho scritto sul modo di produzione statuale e sul ruolo dello Stato, per certi aspetti aggravandolo[7]. C’e, tuttavia, anche il processo opposto, contraddittorio: un po’ dappertutto affiora la tendenza alla decentralizzazione. Questa è manipolata dallo Stato con i suoi apparati, ma comunque esiste[8]. In Italia, per esempio, le città e le regioni hanno certamente conquistato, o ritrovato, una certa autonomia nei confronti dello Stato centrale, il che non è senza pericolo. In Francia ci sono difficoltà da tutte le parti: nelle regioni periferiche i vecchi notabili riprendono il potere e ne scaturiscono disordini e problemi locali, non ancora come in Sicilia, ma non mi meraviglierei se un giorno arrivassimo a tanto.

Dunque, tutto questo non è privo di rischi. È molto probabile che si finisca per oscillare tra un decentramento, piú o meno riuscito, e un nuovo accentramento. A ogni modo, da una parte c’e una tendenza al decentramento, ed è un indebolimento dello Stato, e dall’altra al suo rafforzamento. Elementi di rafforzamento dello Stato sono gli armamenti, la strategia militare, le decisioni di ordine militare, che non si improvvisano, che bisogna prendere frequentemente; non si sarebbe pensato, qualche anno fa, che a ogni momento ci sarebbe stata per il capo dello Stato una decisione militare da prendere. Da questo rapporto dialettico, decentramento-accentramento, dipendono molte cose e su questo bisognerebbe fare un’analisi precisa.

 

 

La potenza degli Stati Uniti

 

D. Gli Usa si trovano in cima alla gerachia[9], al centro dell’impero, le multinazionali piú potenti vi hanno la loro sede. Pericolosi sul piano economico, politico e militare, gli Stati Uniti lo sono anche sul piano dell’ideologia. Lei soggiorna spesso negli Stati Uniti: qual è la sua opinione? È possibile differenziare la cultura americana dall’americanismo?

 

R. Solo per rispondere è questa domanda sarebbero necessarie delle ore. Gli Usa sono una potenza economica e finanziaria di cui ci si fa male l’idea, se non la si è vista da vicino. Eravamo quest’estate nell’Illinois: è il centro dell’America profonda, c’e una ricchezza favolosa di cui è difficile farsi un’idea. Sorvolando in aereo la campagna, ci si accorge che le aziende agricole hanno 200, 300, 400 ettari di mais o di soja, che non sono delle fattorie, ma delle industrie, delle industrie agricole. Alla televisione si segue la borsa di Chicago. È qui che per tutte le materie prime (come la carne di manzo, di vitello o di maiale, il mais o il grano) si fanno i prezzi. È qui che ci si accorge del modo in cui funzionano le cose con un capitalismo di grande flessibilità e di notevole abilità. Mi sono molto meravigliato nel vedere le quotazioni a termine differito della carne di maiale, ossia quotazioni su maiali che non sono ancora nati e che sono già venduti. Ci si gioca sopra e si può vincere del denaro o perderlo: è straordinario.

Tuttavia 1’economia degli Usa, cosí forte, ha pur le sue debolezze. È potente solo perché si annette il Canada e il Messico. Si dice che negli Usa solo il 30% della popolazione è produttiva, il resto è adibito ai servizi: è questo l’avvenire. Forse, ma nella popolazione produttiva degli Usa bisogna contare gli operai messicani che estraggono il petrolio e i canadesi che abbattono gli alberi e che fanno la pasta di carta per i giornali di New York. Cosí le cifre che abbiamo sono falsificate e, di conseguenza, niente affatto attendibili. Inoltre, i lavoratori addetti ai trasporti non sono considerati produttivi; ma un pezzo di acciaio alla fabbrica non è niente, bisogna trasportarlo dove serve, e questo fa parte del ciclo di produzione. Se si considera questo, si arriva a cifre completamente diverse. Ora, se gli Usa non riuscissero a dominare queste popolazioni in termini di neocolonialismo, la loro economia non reggerebbe, e se la loro economia perdesse questi sostegni la loro decadenza sarebbe estremamente rapida. Non sono al riparo dalle piú grandi difficoltà; per esempio, tutta la produzione della costa atlantica è in veloce perdita; tutta la creatività produttiva si è trasferita sulla costa pacifica, tanto che il Pacifico è il centro dell’economia mondiale.

Gli Usa hanno cosí una potenza economica straordinaria, ma niente affatto definitiva; per questo hanno bisogno di una politica imperialistica, per mantenere, cioè, le condizioni di questa straordinaria prosperità economica, accompagnata da un’ideologia terrificante.

 

 

Americanismo e cultura americana

 

Ho sentito dire negli Usa:

 

i paesi poveri? È colpa loro, non hanno voluto o non hanno saputo lavorare, non hanno saputo produrre, non hanno saputo inventare, peggio per loro, che muoiano, che scompaiano!

 

Chi dice cosí dimentica che gli Usa vendono molti dei loro prodotti e che il commercio fa parte dell’economia americana. L’idea che i paesi poveri siano colpevoli della loro povertà, che la gente che è nella miseria sia colpevole della miseria, è un’ideologia, non è la vera cultura americana. Ma negli Usa c’e anche da molto tempo un pensiero critico, e una cultura politica che non riesce, purtroppo, a proporre per ora un’alternativa politica molto chiara, e c’e una grande letteratura.

I rappresentanti della cultura di sinistra in America lottano con molte difficoltà, e si pongono come prioritario il problema del capitalismo. Negli Usa non si tratta solamente di lottare contro la destra, ma di trovare un’alternativa al capitalismo. In questo senso la lotta politica non è affatto arretrata. Si lotta contro la politica internazionale, anche se 1’ideologia dominante è quella del capitalismo dominante. Credo pertanto che bisogna sostenere la cultura americana contro l’ideologia americana, che è cosa estremamente diversa.

 

 

L’Unione Sovietica

 

D. Adesso l’Urss: l’Unione sovietica si contrappone agli Usa, ma il suo prestigio è molto discusso. La sua politica è contestata e in quanto modello non fa piú “ricetta”. Cosa pensa dell’Unione sovietica, del suo valore in quanto modello e della sua politica internazionale?

 

R. La risposta è molto semplice: in quanto modello l’Unione sovietica è inammissibile; non capisco nemmeno come l’Unione sovietica per qualcuno rappresenti un modello, visto che quello che si chiama «socialismo reale» non ha niente in comune con quello che Marx, e tutti quelli che hanno provato è dare un senso preciso è questo termine, hanno chiamato socialismo. Non voglio dire che tutto sia catastrofico, ma non è quello che si chiamava socialismo, è qualcosa di nuovo, è un modo di produzione statuale, visto che lo Stato dirige tutto, domina tutto e, nelle condizioni attuali[10], esce sempre piú rafforzato.

Detto ciò, se, insisto, l’Unione sovietica non esistesse, gli americani sarebbero i padroni del mondo. È meglio che ci sia questa rivalità, piuttosto che una potenza regnante, perché nella rivalità c’e almeno una qualche apertura, mentre con un’unica potenza dominante per fare qualcosa di nuovo occorre aspettare il suo declino, il suo deperimento.

Pertanto la politica estera dell’Unione sovietica, in quanto si oppone alla politica estera americana, mi sembra degna del piú grande interesse. Con questo non voglio dire di approvare e seguire il modello sovietico, non piú di quello americano d’altronde, ammesso che esista un modello americano e non sia invece 1’adozione pura e semplice delle tecnologie.

Allora, per quello che riguarda l’Unione sovietica la risposta è, da una parte, abbastanza semplice e, dall’altra, molto piú complessa, in quanto occorrerebbe spostare il discorso sulla classe operaia. Si parla molto della classe operaia, ma essa ha un po’ dappertutto difficoltà a costituirsi come classe. La parola d’ordine di Marx «proletari di tutti i paesi unitevi» ha qualcosa di folkloristico e non bisogna illudersi: l’internazionalismo proletario è diventato ideologico e fittizio.

Bisogna ricordare che la classe operaia registrò la prima sconfitta quando non impedí la guerra del 1914. L’Internazionale aveva detto che avrebbe impedito la guerra: non c’e riuscita. La seconda sconfitta è quella della classe operaia tedesca, la piú forte e la meglio organizzata, mezzo secolo fa, con 1’hitlerismo[11]. È seguito poi lo stalinismo e il suo tracollo ideologico: lo stalinismo cancro della rivoluzione.

E in seguito, è un punto sul quale vorrei insistere, dopo che lo stalinismo ha perso il suo prestigio – c’e una data precisa: il 1956 –, c’e stato un vuoto immenso, e questo vuoto, a partire dal 1960, si è riempito, piú o meno, in modo contraddittorio. Da una parte, c’e quella che si chiama rivoluzione scientifica e tecnologica con fenomeni di urbanizzazione ultrarapidi e barbari, con 1’industrializzazione molto rapida; dall’altra la contestazione. È un fenomeno straordinario: a partire dal 1960, da un lato abbiamo crescita tecnologica, pseudo-rivoluzione (infatti si fa nel quadro del modo di produzione capitalistico[12]) e contemporaneamente la contestazione, che cresce e che nel 1968 esplode, per poi attenuarsi e diminuire. E qui che nasce la nostra epoca, con le sue difficoltà: la contestazione è stata, infatti, inefficace e, se ha prodotto qualche turbine, ora tutto si è molto attenuato. Cosí il pensiero critico non si sa piú a che cosa serva, e la tecnologia, se pur promette delle meraviglie, è, a mio avviso, al suo ultimo respiro.

La rivoluzione tecnologica è alla fine; è difficile pensare un’altra innovazione che abbia un ruolo uguale è quello svolto dai microprocessori. Ma cosa verrà dopo, se non c’e una catastrofe mondiale? È a questo che bisogna pensare.

 

D. La genetica?

 

R. Si svilupperà la biologia, ma non si sa bene quello che ci riserva. Avete ragione, bisogna considerare la questione della genetica e delle sue applicazioni. Per esempio, a San Francisco ho saputo che si è scoperto il modo in cui i bachi da seta fabbricano la seta. Sono stati, quindi, inventati dei falsi “bachi” metallici che fanno della vera seta. Si è in procinto di industrializzare e commercializzare il procedimento. Una scoperta tecnologica ha, però, bisogno di anni per essere industrializzata e commercializzata: questa è la condizione della biologia genetica attuale. Non parlo nemmeno dei metodi di clonazione o di fabbricazione di specie, ma semplicemente di prodotti commerciali come la seta.

Allora, rispetto a queste nuove applicazioni, non si sa cosa ci riserva il futuro. Ma quella che si chiama la rivoluzione scientifica e tecnologica non è piú in crescita. È il mercato, è un’ideologia, è una moda, uno snobismo, e, infine, parecchie cose che rimangono molto superficiali e non rinnovano il modo di produzione. In ogni caso, è molto probabile che l’informatica diminuisca il numero dei posti di lavoro, anziché aumentarli.

Ciò che è biogenetico impiegherà molta gente? Non ho alcuna idea su questo. A ogni modo, può darsi che arrivi un momento in cui si cercherà di rilanciare la situazione, ma tutto quello che conosciamo è alla fine.

 

 

L’olocausto dell’Europa

 

D. Come vede oggi la situazione attuale dell’Europa, pensando alla sua ipotesi sul «Vento del Sud» di qualche anno fa[13]?

 

R. Prima una considerazione: quando una congiuntura, un’occasione storica è stata mancata, non si ritrova piú: è molto probabile che ci siano stati dei momenti in cui quella che si chiama rivoluzione sociale e politica avrebbe potuto essere attuata, ma non è stata fatta.

Per esempio, un’occasione come quella del 1968, come congiuntura, non si ritroverà piú in Francia. Sapete quello che è successo: ci sono stati gli studenti in agitazione e poi, di colpo, lo sciopero della classe operaia, ma uno sciopero cosí generale che nei ministeri non c’era piú nessuno e 1’apparato dello Stato era crollato. Se la classe operaia e il Partito comunista avessero voluto prendere il potere, certo pur con molte difficoltà, lo avrebbero conquistato su scala nazionale. C’è stato un solo uomo che ha tentato, Mendes France, ma in modo cosí maldestro che la cosa non ha funzionato. Questa situazione non si ripresenterà mai piú.

L’Europa ha avuto diverse occasioni, soprattutto alla fine della guerra, di fare la rivoluzione: non le è riuscito. La Francia ha la sua parte di responsabilità: De Gaulle, il nazionalismo francese e tutti i nazionalismi non volevano e non vogliono 1’Europa. Adesso i problemi dell’Europa si arenano in difficoltà che potrebbero sembrare secondarie, ma che di fatto sono primarie. Non sono per niente ottimista, e vedo 1’Europa destinata, con tutti questi errori, all’olocausto. Gli americani, d’altronde, vedrebbero volentieri sparire 1’Europa come concorrente.

La questione dei missili in Germania: il primo obiettivo della loro installazione è quello di impedire 1’unità della Germania, mentre invece ci può essere un’Europa unificata solo se c’e una Germania unificata. L’unificazione dell’Europa è l’unificazione della Germania, cioè la fusione della Germania dell’Est con la Germania dell’Ovest. Di questa aspirazione voglio ricordare un fenomeno molto curioso: le grandi feste che si sono svolte nella Germania dell’Est per la nascita di Lutero. Ebbene, Lutero e stato festeggiato quanto Marx. Questa è una mano tesa e molte altre cose; è un elemento rivelatore dell’esigenza della riunificazione. Il secondo obiettivo è quello di portare 1’economia sovietica al tracollo, obbligandola a uno sforzo di guerra gigantesco.

Buona parte della sinistra francese considera freddamente la guerra; non tanto per difendere 1’Europa, quanto perché è visceralmente antisovietica; la parola d’ordine è: «piuttosto morto che rosso». In tal caso non è solamente la Francia che è minacciata, ma 1’Europa intera.

Alla televisione, quel tale che ha quasi il monopolio delle transazioni agro-alimentari con la Russia, che è membro del Partito comunista e che è plurimiliardario, ha detto: «fate la guerra: se ci sono 40 milioni di morti negli Usa, il capitalismo è finito; se ce ne sono 40 milioni in Russia il socialismo continuerà e addirittura progredirà». E fantastico sentire questi discorsi: discorsi senza senso, incredibili; ma c’e molta gente che accetta 1’idea della guerra, con l’idea del sacrificio dell’Europa.

Oh 1’Europa! Ha avuto un gran passato, ma è sull’orlo del declino; allora è meglio che muoia gloriosamente. Ho sentito sostenere questo da amici molto vicini al governo. Sono molto decisi; si riorganizza 1’esercito francese in due parti: un corpo di guerra costituito soprattutto da elicotteri blindati, e un esercito di sorveglianza dell’interno. Il corpo di guerra può spostarsi alla frontiera dei paesi dell’Est in quattro ore; poi il resto dell’esercito si unirà alla polizia per sorvegliare le retrovie. Io sono totalmente avverso a questa riorganizzazione dell’esercito.

Che 1’Europa declini, questo è sicuro; che sia colpa sua, è altrettanto sicuro: due guerre mondiali da essa scatenate pesano! Ma non è una buona ragione per accettare il sacrificio.

Una rivista come la vostra deve mettere in guardia l’opinione pubblica su questo stato di cose: c’è gente che considera freddamente non solo lo scatenamento di una guerra, ma anche che 1’Europa serva da olocausto, il prossimo olocausto.

Dunque, io penso che 1’Europa sia veramente in pericolo, ma nessuno ne prende la difesa. Si parla molto del pericolo nucleare, ma, a parer mio, il pericolo non è tanto quello di una guerra intercontinentale, quanto quello di una guerra «di teatro» sul territorio tedesco, che in seguito si allargherà, e con dei mezzi di distruzione terribili, perché ci sono dei missili tattici che sono di un’efficacia terribile.

Vi segnalo, per divertire i vostri lettori, che i vecchi missili dell’esercito francese si chiamavano «Pluton», come il dio degli Inferi; i nuovi missili si chiamano «Ades», che è il nome in greco degli Inferi stessi. I missili «Ades» sono di portata molto piú grande e piú potenti.

Di questa riorganizzazione militare se ne parla molto poco, il meno possibile. Ci sono delle cose di cui non si parla in Francia, o molto poco; non bisogna parlarne, come se fosse grossolano o quasi osceno. Per esempio, sotto il governo di sinistra, parlare dell’autogestione[14] è grossolano, osceno, è essere maleducati, non bisogna farlo. Io sono solito ricordare che, come in Inghilterra sotto la regina Vittoria non si dovesse parlare di cosce o di natiche; ebbene ora in Francia non si deve parlare di autogestione.

Tornando all’Europa ribadisco che la sua posizione è estremamente compromessa; sta andando verso il sacrificio, perché – come ho detto – molto probabilmente non ci sarà una guerra intercontinentale, ma una guerra con eserciti convenzionali. È per questo che 1’idea di un equilibrio militare all’interno dell’Europa è assolutamente folle: prima di tutto non c’e equilibrio stabile possibile e poi è proprio quest’idea che destina 1’Europa a essere il teatro delle operazioni militari. Non so se queste arriveranno fino alla Spagna e all’Italia, ma è molto probabile.

Allora c’e anche questa considerazione: 1’esercito francese, finché era un esercito difensivo, poteva sfuggire al comando integrato della Nato, ma come esercito offensivo non sfuggirà, perché un’offensiva si realizza solo in rapporto con gli altri eserciti europei. Allora, quando i simpatizzanti del governo e della legge che potenzia 1’esercito mi dicono «non accetteremo mai un comando integrato, ti sbagli, la tua accusa è falsa», io rispondo: «un esercito offensivo è necessariamente sotto il comando di coloro che dirigono le operazioni».

Siamo giunti, dunque, a questa situazione: la guerra si terrà sul territorio europeo e siccome le armi attuali hanno una potenza distruttiva non molto al di sotto di quella delle armi atomiche strategiche, 1’Europa va verso la sua autodistruzione.

 

 

Creatività o autodistruzione?

 

Parlo adesso da filosofo: la capacità creativa dell’essere umano, del pensiero umano e dell’attività umana, va insieme a una capacità autodistruttiva. È vero da tutti i punti di vista. Le stesse potenze che sono capaci di modificare il mondo in modo costruttivo, possono anche distruggerlo. Nell’essere umano le capacità creative e le capacità di autodistruzione sono uguali, ancora oggi. E questo il problema dei valori «guerrieri» cui prima accennavo: 1’autodistruzione è potente quanto le capacità creatrici; è questa la dialettica profonda dell’essere umano. E la riprova è in questa povera Europa, che è stata alla testa delle capacità costruttive e creative, che ha inventato tante di quelle cose, da 2.500 anni, dal tempo dei greci, ma che inventa anche la sua autodistruzione. Cosa fa 1’Europa da un secolo? Lavora alla sua autodistruzione.

Allora il problema è di sapere chi vincerà: le forze di autodistruzione o le forze creative? E questa la posta in gioco, e si gioca in Europa una partita colossale; in gioco – notate la parola gioco – è prima di tutto 1’esistenza dell’Europa, poi il tutto si allargherà e coinvolgerà molte altre cose. È questa la posta di una partita che non è facile, né innocente, né inoffensiva; è un gioco terrificante tra queste due capacità: è tutta la dialettica dell’essere umano.

Non è del tutto marxista quello che dico, cioè che le capacità autodistruttive fanno parte delle capacità costruttive, creative.

 

 

Un progetto alternativo

 

D. Cosa pensa della situazione interna dei nostri paesi? Appare come bloccata, nell’assenza di una spinta alternativa.

 

R. Voglio rispondere abbastanza a lungo su questo punto, Credo che la questione sia quella di proporre un’alternativa[15].

Ci sono state nella storia delle alternative proposte da Marx, da Lenin; non hanno funzionato molto bene, hanno anche dato dei risultati contrari a quelli che ci si aspettava. Lenin – come Marx – voleva una società senza Stato, con uno Stato in via di deperimento. Marx lo ha scritto in La Comune di Parigi, Lenin in Stato e rivoluzione; la rivoluzione doveva portare alla sparizione dello Stato. È andata male; bisogna trovare una nuova alternativa, ed è un lavoro gigantesco. Quali gli elementi di questa alternativa? Bisogna trovarli altrimenti la situazione rimane bloccata.

Credo che vi siano in Francia e nei paesi del Sud, per ragioni non sempre chiare, delle forze di intervento capaci di creatività e di azione, che adesso sono bloccate. I governanti, in Francia, credono di essere 1’alternativa al capitalismo: non ne sono convinto. Bisogna passare tramite loro? E come proporre cosí un’alternativa? Credo che un progetto di alternativa potrebbe essere esteso alla Spagna, all’Italia, alla Francia, alla Grecia, e forse a tutto il Bacino mediterraneo.

La dichiarazione dei diritti dell’uomo cosí com’è, è molto importante, ma è incompleta. Non bisognerà forse aggiungerci il concetto di «nuova cittadinanza»[16] a ribadire la partecipazione attiva del cittadino, per esempio, alla vita della sua città? Occorre, inoltre, fare tutti gli sforzi per cambiare la vita quotidiana, e per questo possiamo usare anche le nuove tecnologie.

Tempo fa a Marsiglia ho saputo come la povera gente, gli emigrati, gli iugoslavi, i magrebini, la gente dell’Africa del Nord, non si scrivono piú (prima avevano degli scrivani pubblici). Sapete cosa fanno? Si mandano delle cassette. Ecco un uso concreto, pratico, della tecnologia. Mi è stata raccontata la storia di una donna il cui marito era partito per Lione, lasciandola sola con due bambini. Non avendo piú notizie di lui, gli ha spedito una cassetta, dicendogli: “razza di sporco individuo, sei un uomo schifoso che lasci la tua moglie e i tuoi figli; sbrigati a dare tue notizie!”. Forse non avrebbe mai scritto questi insulti, ma la cassetta è una forma diretta e immediata di comunicazione, e dà bene l’idea di una nuova immediatezza, che si conquista tramite i mezzi tecnologici moderni.

Allora. un progetto di società alternativa dovrà essere molto largo e comprendere una democrazia completa per le comunità, la trasformazione della vita quotidiana e un adattamento progressivo al non-lavoro (la disoccupazione, infatti, non credo che la si riassorba con 1’aumento delle forze produttive, visto che queste vanno verso 1’automazione del lavoro). È necessario, inoltre, un adattamento progressivo della società non solo agli svaghi, che hanno dato luogo a un’industria, e alla cultura, che ha dato luogo a una produzione, ma a una nuova cultura politica[17].

La «nuova cittadinanza» comporta un’idea interessante in rapporto al marxismo. Marx ha detto che bisognava realizzare la filosofia; anche un noto libro di Adorno dice che la filosofia continua perché il momento della sua realizzazione è stato mancato. Ora questa «realizzazione» si potrebbe trovare anche nell’estetica. L’estetica, come conoscenza dell’arte, ha un senso, infatti, se dà luogo a una pratica, alla realizzazione dell’estetica stessa. E quello che succedeva in altri tempi per 1’architettura nelle vostre città, a Firenze: non una visione astratta, ma un’estetica, un’idea dell’arte.

La realizzazione dell’arte (ma la realizzazione vera, che non passa attraverso disegni, o riproduzioni, o scarabocchi, che si attaccano al muro) tocca 1’architettura, l’urbanistica, la trasformazione della vita, in altre parole la metamorfosi della vita[18]. Bisognerà servirsi di tutti questi elementi per giungere ad un progetto di società alternativa.

I socialisti in Francia, invece, hanno concepito un progetto di società, che d’altronde non si e realizzato, che non va oltre la democrazia rappresentativa. Occorre allora arrivare all’allargamento dei diritti dei cittadini, reintegrare, ravvivare, 1’idea della «cittadinanza», che si è un po’ smorzata. Qui credo che la vostra rivista potrebbe svolgere un ruolo attivo nell’elaborazione di questo progetto: perché ormai non si sa piú che cosa sia socialismo. Se il socialismo è da ridefinire, è necessario un progetto.

 

 

La sinistra francese

 

D. Qual è la sua valutazione sulla sinistra francese?

 

R.: Sono un uomo di sinistra, ma devo dire che questa non è in uno stato eccellente e vive una condizione paradigmatica.

Parlavo prima della capacità autodistruttiva che si unisce alla capacità creativa: è esattamente questa la condizione della sinistra. Da molti anni lavora per distruggere se stessa. Il discorso ha un senso soprattutto sul piano teorico e ideologico, ma da venti o trenta anni è successo di tutto, sembra che la sinistra abbia voluto demolire tutto quello che aveva realizzato: la sua forza, il suo patrimonio, quello che aveva ricevuto dalla Rivoluzione francese, da Marx, e da altre parti. Non c’e un’idea che non sia stata sottoposta a critica, e per di piú a critica distruttiva.

Prendo a esempio l’umanesimo. Quello che si chiamava umanesimo era qualcosa di molto fragile. Derivava in parte dai gesuiti e dalla borghesia liberale; era un eclettismo un po’ fittizio, che idealizzava tutto e valorizzava 1’essere umano solo in quanto cittadino astratto. Si potevano fare mille rimproveri a questo umanesimo: in particolare, sia di tenere conto solamente di certe leggi, come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, e non delle loro applicazioni reali, sia di limitarsi alle analisi di testi classici e letterari piú o meno tradizionali. Tuttavia, c’era anche 1’umanesimo che Marx tentava di costituire, un umanesimo piú concreto, né borghese, né liberale; ebbene niente di tutto questo è sfuggito alla critica.

L’umanesimo marxista è stato demolito, non senza virtuosismo, da un marxista: Althusser. Il punto di partenza di Althusser è la distruzione di quello che Marx ci aveva lasciato come valori, come valorizzazione dell’essere umano, sostituendovi solo il sapere, il sapere del sapere, quello che sfuggiva alla critica condotta attraverso 1’epistemologia. Dopo non si sono piú avuti valori; l’unico valore persistente era questa epistemologia che non permette di vivere: non si vive su un sapere o sulla semplice applicazione del sapere. Il marxismo ridotto a un’epistemologia è un marxismo irrigidito, ghiacciato, senza capacità di emozione[19].

Ma non ci si può fermare solo all’umanesimo: è tutta la tradizione giacobina che è passata sotto la critica, e non ne è rimasto nulla.

II progresso: l’idea di progresso è facile; divulgata sotto la Terza repubblica è servita a miriadi di discorsi, da quelli dei consiglieri comunali, dei maestri di paese, fino a quelli del presidente della Repubblica. Era facile da demolire, ma, una volta demolita, cosa rimane?

La razionalità: eccetto la sua base tecnologica, il suo fondamento era senza dubbio fragile. La filosofia costitutiva di questa trilogia – umanesimo, razionalismo, progressismo – era forse la filosofia di Kant, che non ha resistito agli attacchi; 1’irrazionalismo è spuntato da tutte le parti, in psicologia, in sociologia, in storia, in psicanalisi; non c’e rimasta razionalità.

L’informatica: è stata data come qualcosa che basta a se stessa, come se 1’attività principale dell’uomo consistesse nel ricevere dei messaggi o nel decifrarli. Ma cosa ce ne facciamo di questi messaggi, e cosa passa tramite questi, qual è il loro contenuto e come si utilizzano quando li si riceve? Tutto questo è stato lasciato da parte, a vantaggio della semplice nozione formale del messaggio e della comunicazione.

Dunque, tutto quello che dava un senso alla sinistra è stato distrutto dalle fondamenta e non è stato proposto niente per rimpiazzarlo, o, quando qualcosa è comparso, non ha avuto eco.

La sinistra ha dato prova di un potere di autodistruzione straordinario, favoloso, fin dall’inizio del XX secolo. Ciò che dice Lukycás in La distruzione della ragione è solo parzialmente esatto, perché l’umanesimo ha persistito e anche il razionalismo. Tutto ciò doveva essere criticato, ma non distrutto, insieme al progressismo. Adesso c’e un ammasso di rovine.

La sinistra è arrivata al potere sulle rovine della sua ideologia. Qui che c’e bisogno di qualche cosa di nuovo, è qui che potete, dovete, aprire l’orizzonte e sforzarvi, nella vostra rivista, di porre le basi di un discorso innovatore.

 

 

Lo storicismo della sinistra italiana

 

D. E la sinistra italiana?

 

R. Conosco la sinistra italiana meno della sinistra francese. Conosco la sinistra francese come testimone da decine di anni, so come lavora alla propria distruzione, che mi sembra, d’altronde, essere un cattivo presagio per 1’Europa stessa. Mi pare che apra un processo che può avere delle conseguenze piuttosto gravi. La sinistra francese si basava su un’idea abbastanza astratta, che avrebbe dovuto essere completata dalla ragione, ma ciò non e avvenuto.

La sinistra italiana si fonda di piú sulla storia, su una certa storia, che diviene storicismo e marxismo (Labriola, Gramsci). Dico subito che non sono gramsciano e non so se oggi potete trarre ancora molto da Gramsci. Ciò che io non accetto di Gramsci è che è prestaliniano. Tutto quello che ha scritto in Il principe moderno e Le note su Machiavelli mi sembra molto preoccupante dopo 1’esperienza staliniana; restano comunque scritti di grandissima importanza. Non credo però che dopo il periodo staliniano possano servire per trarne molte conseguenze politiche e pratiche[20].

A ogni modo, la sinistra italiana mi sembra avere basi piú solide della sinistra francese, particolarmente perché non ha avuto questa spinta – che gli psicanalisti chiamerebbero masochista – all’autodistruzione. In Francia c’è gente di sinistra che, per fondare un sapere inespugnabile, ha costruito, in nome dell’epistemologia, una specie di fortezza imprendibile e completamente isolata, ma inefficace e destinata a cadere in rovina.

È anche grave che i governanti non abbiano altro mezzo di agire sull’opinione pubblica se non quello di dire che la destra è una minaccia. Questo è senz’altro un buon argomento, ma non dà un’ideologia, una teoria, un’argomentazione, su cui si possa costruire qualcosa. In questo senso voi avete basi migliori per costruire una nuova prospettiva di sinistra.

 

D. Come spiega questo comportamento autodistruttivo della gauche francese?

 

R. Il fenomeno dipende dal fatto che non ci sono confini precisi tra la critica e l’ipercritica, e nel pensiero critico si e sempre tentati di cedere all’ipercritica.

Lo si vede molto bene anche nel pensiero marxista, laddove Adorno parla di una dialettica negativa: se questa si spinge fino in fondo, si distrugge da sé. L’estetica di Adorno, infatti, si distrugge da sé; vuole dare una teoria dell’arte e dice che la teoria dell’arte è destinata è distruggersi. Quindi, questo eccesso di negatività si trova nello stesso pensiero marxista, nello stesso Adorno, che, per quanto sia un grande, passa dalla critica all’ipercritica. L’ipercritica è la critica che mette in discussione se stessa, che mette in gioco la sua validità e la sua efficacia.

 

 

Per un progetto internazionale

 

D. Come pensare il progetto della costruzione di una nuova cultura politica? Infine, che cosa bisogna o che cosa si può fare in questa situazione?

 

R. Ponete la domanda su un piano filosofico e teorico, o su un piano politico e pratico? Perché non è la stessa cosa. Devo rispondervi su un piano teorico e filosofico, o pratico e politico, o, come penso, su tutti e due? Non è una risposta semplice.

È necessario, ma non sufficiente, proporre un’alternativa. Questa alternativa bisogna che sia un progetto. Ci sono gia stati dei progetti di società e molti ne hanno a tutt’oggi. C’e un progetto di società cristiana in Vaticano o in Polonia, forse; c’e un progetto di società in Iran, che si regge su quel fanatismo straordinario e completamente imprevisto che la religione ha prodotto in molto paesi.

I progetti di società non mancano, ma abbiamo bisogno di un progetto di società credibile e accettabile. Si tratta, dunque, di un grande lavoro collettivo e internazionale. Non penso affatto che bisogna farlo per l’Italia, per la Francia, per la Spagna singolarmente. Ciò vuol dire che, se volete procedere su questa strada, vi dovete sforzare di costituire un “gruppo” internazionale che tenga conto delle particolarità dei differenti paesi, ma che sappia anche proporre qualcosa di ordine piú generale, per ritrovare una certa universalità.

Un progetto di società accettabile, credibile, è necessario, ma non sufficiente. Se lo si vuole diffondere, occorre intervenire politicamente. Devo dire che finora i politici si sono mostrati piuttosto chiusi; si sono ripiegati sul pragmatismo, non hanno nemmeno piú strategie (forse una strategia militare), almeno in Francia, vivono alla giornata, non hanno un piano d’insieme.

È per questo che si fa sentire il bisogno di un progetto globale, senza che per questo sia un modello esclusivo e totalitario; occorre lasciare spazio al pluralismo. Forse non si è insistito abbastanza sull’idea di un pluralismo politico, in modo da tenere conto delle differenti correnti, dei diversi gruppi sociali, delle differenze di classe e cosí via. Occorre definire un progetto di democrazia pluralistica e diretta nello stesso tempo, il che è paradossale, ma necessario.

Per arrivare a diffondere questo progetto, bisogna svolgere un ruolo di avanguardia, il che non è facile oggi, e bisogna farsi ascoltare. Come? Vi sono dei gruppi in Francia che sarebbero disposti ad ascoltare un nuovo progetto, ma non li credo molto efficaci. Non ho alcuna idea di quello che può succedere in Italia: forse bisogna formare dei quadri politici, o dei circoli politici, o degli scrittori politici?

A ogni modo il problema è politico, ma prima ancora è teorico; occorre riprendere da Gramsci, in modo molto critico, 1’idea che, almeno nel caso della rivoluzione borghese – è l’unica che Gramsci abbia conosciuto e analizzato (e che ricava dall’esame della Rivoluzione francese e anche dalla storia italiana del XIX secolo) –, la rivoluzione culturale ha preceduto la rivoluzione politica. Anche in Francia il XVIII secolo, con Diderot, è il periodo di una vera rivoluzione culturale, che precede e prepara la rivoluzione politica. Forse bisogna ritornare è questa idea, tenendo conto di tutto quello che e cambiato.

Forse il legame tra rivoluzione politica e rivoluzione culturale non è piú quello, ma questo schema di una rivoluzione culturale che accompagna, che addirittura precede la rivoluzione politica va ben esaminato, tanto piú che in nome di Marx, e soprattutto in nome di Lenin, è stato trasformato lo schema per arrivare a dire che la rivoluzione culturale segue la rivoluzione politica. È una questione assai grossa, che voi potreste sollevare nella vostra rivista.

Allora, qui una linea si profila: progetto credibile, da perfezionare e trasformare, tenendo conto di tutto quello che può succedere di nuovo, sia nelle città che nella condizione delle donne. Poi trasformazione della cultura, sia tramite la critica che attraverso delle proposte.

Occorrerebbe proprio proporre qualche cosa nella cultura e forse questo già avviene intorno a noi, senza che ce ne rendiamo conto: forse nella musica, forse nel teatro, vi sono degli elementi nuovi che bisognerebbe valorizzare; forse anche nella poesia.

 

D. Un’ultima cosa: non vuole tornare un momento sulla definizione di nuova immediatezza?

 

R. Attraverso le “mediazioni” formidabili che noi subiamo, con la televisione e la radio, appaiono gli elementi di una nuova immediatezza e il bisogno di contatti diretti[21]. Hanno chiamato questo «convivialità», ma si può ben chiamarlo immediatezza.

Vi ho raccontato, per esempio, la storia delle comunicazioni tramite cassette, dove la mediazione – i media – servono di supporto a una nuova immediatezza: tutto questo nella linea dello sviluppo di una nuova cultura politica.

 

* Henri Lefebvre, nato in Francia nel 1901 ad Hagetmau (Landes), è entrato nel Partito comunista francese nel 1928 e ne è uscito nel 1958, dopo trent’anni di militanza, in seguito al perdurare dell’ostilità del partito, anche dopo il XX Congresso del Pcus, alla sua lunga battaglia antistalinista, riaffermando però la sua adesione al pensiero marxiano e la sua posizione del tutto critica del modo di produzione vigente. Nel 1965 ha avuto la cattedra di sociologia all’Università di Nanterre e nel 1968 ha partecipato direttamente al «maggio francese». Lefebvre è riconosciuto fra i maggiori pensatori marxiani del Novecento. Del filosofo, o piuttosto del metafilosofo (come siamo certi preferirebbe essere chiamato), francese sono stati pubblicati in Italia Il materialismo dialettico, Torino, Einaudi, 1949 (riediz. 1975); Il marxismo visto da un marxista, Milano, Garzanti, 1954; La sociologia di Marx, Milano, Il Saggiatore, 1969; Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970; Linguaggio e società, Firenze, Valmartina, 1971; La fine della storia, Milano, Sugar, 1972; Il marxismo e la città, Milano, Mazzotta, 1973; La rivoluzione urbana, Roma, Armando, 1973; Dal rurale all’urbano, Firenze, Guaraldi, 1973; Spazio e politica, Milano, Moizzi, 1976; La produzione dello spazio, Milano, Moizzi, 1976, vol. I e II; Lo Stato, Bari, Dedalo, 1976-1978, vol. I, II, III, IV; La critica della vita quotidiana, Bari, Dedalo, 1977, vol. I e II; La vita quotidiana nel mondo moderno, Milano, Il Saggiatore, 1978; Il manifesto differenzialista, Bari, Dedalo, 1980; La rivoluzione non è piú quella (scritto con Catherine Regulier), Bari, Dedalo, 1980; Abbandonare Marx?, Roma, Editori Riuniti, 1983.

[1] Dalla redazione del «Ponte», in preparazione all’intervista. Intervista, traduzione e note al testo di Mario Monforte.

[2] Ricordiamo che il 10 maggio del 1981 si ha in Francia l’affermazione elettorale che segna 1’ascesa al governo della sinistra.

[3] A. Glucksmann, La force du vertige, Paris, Grasset, 1983.

[4] La paix indésirable. Rapport sur l’utilité des guerres, preface de H. Mc Landress (J. K. Galbraith), Paris, Calmann-Levy, 1968.

[5] Nella sua opera Lo Stato, voll. I-IV, Bari, Dedalo, 1976-1978, ma anche in Il manifesto differenzialista e La rivoluzione non è piú quella (Bari, Dedalo, 1980), Henri Lefebvre sviluppa e articola la sua concezione, che è vista come rilettura, continuazione e applicazione del marxismo al mondo «moderno». Fondamentale nella sua riflessione è appunto lo Stato; è sulla mancata soluzione della questione dello Stato e sull’abbandono dell’impostazione iniziale del marxismo in merito, che lo stesso marxismo – dice Lefebvre – è finito per scoppiare e ridursi in vane «schegge», «frammenti»: i diversi marxismi. Non abbiamo certo la pretesa di sintetizzare in questa nota una parte essenziale di un pensiero vasto e complesso come quello di Lefebvre. Ne indichiamo soltanto alcuni parziali elementi – in modo forzatamente schematico e riduttivo -, per chiarire il senso di questa parte dell’intervista, rinviando per il resto il lettore interessato alla lettura delle opere indicate. Lo Stato, secondo Lefebvre, e quindi 1’istituzione, il politico, ha sempre avuto una funzione essenziale nell’esprimere e assicurare l’omogeneita e 1’equivalenza, l’astrazione concreta del valore di scambio, dei circuiti commerciali, del lavoro astratto, rispetto all’uso e al valore d’uso, al lavoro concreto, insomma 1’omogeneità «indifferente» rispetto e sulla «differenza». L’economico procede insieme al politico e si sviluppa coerentemente in tal senso, con il formarsi ed estendersi del modo di produzione capitalistico, finendo per schiacciare il sociale (cioè la base dell’esistenza; la suddivisione che compie Lefebvre supera infatti quella dicotomica struttura-sovrastruttura, per articolarsi cosí: base-struttura-sovrastruttura; sociale, economico, politico-ideologico). L’opera e il pensiero di Marx hanno potuto essere fraintesi e distorti anche (ma non solo) perché il lavoro fondamentale di Marx – II Capitale – che doveva occuparsi del reddito, delle classi e dello Stato, come risulta dal piano iniziale, è rimasto incompiuto. Perciò il suo pensiero deve essere interpretato alla luce del complesso delle sue opere (che Lefebvre recupera nel loro insieme, dai Manoscritti economico-filosofici in poi, rifiutando la divisione fra un Marx «marxista» e un Marx «democratico-radicale»), vedendone anche limiti e oscillazioni, ma conservandolo e sviluppandolo. Il modo di produzione capitalistico, che si sviluppa sul piano economico, implicando però costantemente quello politico (basti vedere, dice Lefebvre, il processo di accumulazione primitiva in un quadro piú ampio di quello avvenuto in Inghilterra, comprendendo anche l’esame di quello avvenuto in Europa, insieme alto sviluppo e affermazione degli Stati-nazione), procede attraverso crisi e contraddizioni, estendendosi a tutto il mondo, creando il mercato mondiale e la mondialità, implicando una sempre maggiore fusione con il politico, e viene coerentemente sviluppandosi secondo la sua «natura» (la sua essenza, il suo concetto). Non vi è un momento in cui si può dire che il modo di produzione capitalistico si è gia pienamente realizzato in quanto tale, perché appunto si modifica, procede, si sviluppa. Sviluppandosi, il modo di produzione capitalistico conduce e sbocca net modo di produzione statuale. Questo è caratterizzato dal fatto che è lo Stato che si fa carico della crescita economica, attraverso quel processo che si chiama programmazione economica (di vario tipo) e tramite l’istituzionalizzazione (piú o meno formale) delle imprese e dei processi economici in genere. Ciò implica che i rapporti sociali e di produzione capitalistici, e le classi sociali, non si riproducono da sé, per un cieco meccanismo economico, ma vengono riprodotti, sono oggetto di strategie (non senza un complesso di continue contraddizioni).

[6] Lefebvre ha affrontato piú volte la questione delle multinazionali (in Lo Stato e Il manifesto differenzialista). Ricordiamo, in particolare, La rivoluzione non è piú quella, p. 114 ss. La. concezione di. Lefebvre relativa alle multinazionali è da inserire in quella di «mondalità», cioè di mercato mondiale (sostanzialmente unico) da un lato e, dall’altro, di strategie politico-statuali, che, per essere veramente tali, devono estendersi su un piano mondiale. Le multinazionali non sono le semplici eredi dei monopoli; organizzano la produzione alla loro scala, esprimono strategie globali (cioè mondiali) e occupano gli spazi vuoti esistenti, dalle regioni locali al mercato mondiale. Sono un’altra forma, generata dallo sviluppo del modo di produzione capitalistico in modo di produzione statuale, di raggiungere e installarsi (istituirsi) nella mondialità. Ma questo implica una contraddizione continua, latente o aperta a seconda dei casi, con lo Stato, con gli Stati, i quali sono posti nella condizione di doversi sottomettere alle multinazionali, oppure opporsi.

[7] Con questo «aggravandolo» Lefebvre intende sia confermare e riaffermare quanto ha detto sul modo di produzione statuale e sullo Stato della crescita economica («Stato della crescita, crescita dello Stato», Lo Stato, vol. I, p. 75 ss. in particolare) nonché sulle multinazionali e sulla dialettica fra queste ultime e Stato, sia mettere in evidenza come il modo di produzione statuale e il sistema degli Stati si è perfezionato, radicato, saldamente installato nel mondo – cosí si è anche accentuato il complesso di contraddizioni che comporta, lo «stato critico» permanente e globale – ,e come si sono intensificate le contraddizioni con le multinazionali.

[8] La tematica del decentramento si connette nel pensiero Lefebvfre a quella della democrazia sostanziale, diretta, e dell’autogestione; è una linea che unisce tutto il complesso delle sue opere. E cosí che, secondo Lefebvre, si esprime ciò che strategie politiche e politica economica tendono costantemente è ridurre, a schiacciare, ciò che è compresso fra il politico e 1’economico, e che invece è irriducibile: il sociale, la società, con le sue tendenze, negate e soffocate, strumentalizzate e subalternizzate, ma tuttavia esistenti, a riappropriarsi dell’economico e del politico, sussumendoli. Si tratta perciò di tendenze intrinsecamente rivoluzionarie.

[9] Si allude alla gerarchia statuale, cioè al sistema gerarchico di Stati che si è installato su tutto il pianeta – gerarchia instabile, perché sottoposta alla legge dello sviluppo ineguale e carica di conflitti e tensioni –, che trova una sua forma di espressione nel «parlamento» mondiale degli Stati, 1’Onu (vedi Lo Stato, vol. I).

[10] Sul modo di produzione statuale nel suo «genere» del socialismo di Stato, con 1’esame della sua genesi in Urss tramite lo stalinismo e 1’analisi delle condizioni contemporanee, vedi Lo Stato, vol. I, p. 255 ss., vol. II, p. 295 ss., anche vol. IV, p. 330 ss.; vedi inoltre Il manifesto differenzialista.

[11] Su questo punto insiste Lefebvre nelle sue opere (Il manifesto … , La rivoluzione … , Lo Stato, op. cit.): la classe operaia ha subito due sconfitte di importanza storica: la prima, non riuscendo a impedire la prima guerra mondiale, anzi subendola e partecipandovi; la seconda, con il nazismo e i «regimi totalitari». Protagonista di questi conflitti è stato sempre ciò che di nuovo si annunciava, cioè lo Stato, nel suo perfezionamento, e il procedere del capitalismo verso il modo di produzione statuale.

[12] Questa «pseudo-rivoluzione» avviene all’interno del capitalismo; ricordiamo che, secondo Lefebvre, il capitalismo di Stato è uno dei due «generi» del modo di produzione statuale. Nel capitalismo di Stato i rapporti di produzione capitalistici vengono riprodotti attraverso le strategie politiche ed economiche, anche se questa riproduzione non avviene senza continue contraddizioni e conflitti, senza modificazioni (e nuovi contrasti fra quanto resta di capitalismo vero e proprio, e rapporti relativi invece al modo di produzione statuale). In questo senso Lefebvre parla di «pseudo-rivoluzione»: perché all’interno del capitalismo e utilizzata per la sua riproduzione.

[13] Ci riferiamo all’articolo di Lefebvre pubblicato su «Le Monde» il 7 gennaio 1978 e intitolato Le vent du Sud. In quest’articolo Lefebvre metteva in luce le potenzialità esistenti nell’«Europa latina» (riferendosi espressamente a Spagna, Italia e Francia) sia in termini di base industriale, sia di posizione strategica, sia di forza e attività della società civile e spazi di democrazia. Potenzialità dirette verso una chance: aprire una nuova via, nello svincolamento dalle due superpotenze, verso una società nuova, diversa sia dal socialismo di Stato che dal capitalismo di Stato (pur nella sua variante socialdemocratica), una società non subordinata allo Stato, fondata sulla democrazia diretta, sul decentramento effettivo che implica 1’autogestione. Lefebvre collegava allora l’individuazione di queste potenzialità alle possibilità che si aprivano per quello che fu chiamato «eurocomunismo» (pur riferendosi ai partiti «eurocomunisti» in modo molto problematico). In altre occasioni Lefebvre si è già espresso, in seguito, sul fallimento dell’«eurocomunismo» (in generale e come momento di apertura e di avanzata per le potenzialità indicate) e nell’intervista che pubblichiamo non ne fa piú parola, mentre conferma 1’esistenza delle potenzialità individuate, che anzi estende ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

[14] Ricordiamo l’importanza centrale che hanno nel pensiero di Lefebvre il concetto e la pratica dell’autogestione, come espressione concreta del decentramento e della democrazia diretta, quindi come ripresa del marxismo rivoluzionario sulla questione dello Stato e del socialismo. Perciò Lefebvre ha anche seguito l’esperienza iugoslava, che non costituisce però per lui né un modello, né una via da seguire (vedi La rivoluzione non è piú quella; vedi Lo Stato, vol. III, p. 290 ss.). L’autogestione implica necessariamente il movimento dal basso; se fatta propria, gestita e imposta dall’alto, si snatura e fallisce.

[15] Lefebvre è già recentemente entrato in merito alla questione dell’alternativa, nell’intervista intitolata Pour un projet politique, rilasciata il 29 aprile 1982 e pubblicata sulla rivista «Autogestions», n. 10, estate 1982, pp. 3-12. Termini e concetti che userà nella presente intervista hanno come presupposto e quadro di riferimento il discorso sviluppato su «Autogestions».

[16] Vedi Pour un projet politique cit., p. 7; la nouvelle citoyenneté si configura, secondo Lefebvre, come diritto del cittadino di partecipare attivamente, attraverso la cultura e la conoscenza politica, alle decisioni, in contrapposizione al ruolo a cui viene sempre piú ridotto, quello di utente, che deve invece essere riassorbito e sussunto in quello del «nuovo cittadino».

[17] Vedi Pour un projet politique cit., p. 7; secondo Lefebvre la nuova cultura politica si deve caratterizzare per un aggiornamento concreto della coscienza e della conoscenza politiche, per la spinta a prendere parte attiva a tutte e decisioni (e a negarne anche alcune), per 1’acquisizione degli elementi fondamentali di un pensiero teorico adeguato alla situazione attuale.

[18] L’estetica «applicata» come uno dei mezzi per trasformare e metamorfizzare la vita, la vita quotidiana; la trasformazione della vita vista come molla e scopo reali della rivoluzione sono altre tematiche fondamentali per Lefebvre, da lui affrontate in La vita quotidiana nel mondo moderno e nella Critica della vita quotidiana cit. (e altre opere non pubblicate in Italia). Ma la vita esiste, avviene, si svolge nello spazio e la sua metamorfizzazione implica e richiede quella dello spazio (quindi della città, dell’urbano). Qui un altro campo di tematiche essenziali, che Lefebvre tratta in opere quali Il diritto alla città, La rivoluzione urbana, Dal rurale all’urbano, Il marxismo e la città, Spazio e politica, La produzione dello spazio cit.

[19] Lefebvre ha condotto una lunga e approfondita battaglia teorica contro il «marx-strutturalismo» di Althusser e della sua scuola, nonché contro lo strutturalismo in generale come tendenza filosofico-ideologica; vedi in particolare L’Ideologie structuraliste, Parigi, Anthropos, 1971 e, per la linguistica strutturalista, vedi Linguaggio e società cit.

[20] In proposito vedi Lo Stato, vol. II, p. 285 ss.

[21] I bisogni di contatti diretti fanno parte di quelli che Lefebvre chiama i «nuovi bisogni» (che vede come fondamento per la ripresa del sociale sul politico e 1’economico). Lefebvre definisce in generale i «nuovi bisogni» come quelli che non passano attraverso gli scambi commerciali e le reti dell’equivalenza. Si tratta dei bisogni di beni non scambiabili, nel lavoro, nelle opere, nella vita, nello spazio; vedi Pour un projet politique cit., p. 9.

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