La legge 52/2015 (Italicum): da pochi voti a molti seggi (1), di Massimo Villone


LevitanoFascicolo 1 | 2015

TORNIAMO AI FONDAMENTI

La legge 52/2015 (Italicum): da pochi voti a

molti seggi[1]

di MASSIMO VILLONE

La legge 52/2015 (Italicum): da pochi

voti a molti seggi[1]

di MASSIMO VILLONE

Già Professore ordinario di Diritto costituzionale – Università degli Studi di Napoli Federico II

Abstract

La nuova legge elettorale 52/2015 è stata approvata tra forti contrasti politici e critiche diffuse. La legge non si mostra rispettosa delle garanzie costituzionali della rappresentanza democratica e del diritto di voto, come definiti nella recente fondamentale sentenza 1/2014 della Corte costituzionale. Su tutto ha prevalso l’interesse del partito maggiore in Parlamento. Il procedimento legislativo è stato segnato da forzature e violazioni dei regolamenti parlamentari e delle prassi. Sorgono gravi dubbi sulla costituzionalità della legge, che potranno essere sottoposti al giudice delle leggi.

The new electoral law 52/2015 has been approved among strong political conflict and widespread criticism. The law does not appear to comply with the constitutional guarantees of democratic representation and of the right to vote, as recently defined by the Constitutional Court in a landmark case (1/2014). The political interests of the leading party in Parliament have been paramount. Parliamentary procedures and precedents have been frequently disregarded. Therefore, the constitutionality of the law can be strongly questioned, and new challenges may be expected.

Sommario. 1. Premessa. 1.1 La sentenza Corte cost. 1/2014: voto libero e uguale, rappresentanza, governabilità. 1.2. La sentenza Corte cost. 275/2014.

1.3. La legge elettorale europea e la sentenza Corte cost. 110/2015. 2. L’Italicum: un percorso parlamentare accidentato. 2.1 Il “maxi-canguro”. 2.2. La sostituzione forzosa di componenti di commissione. 2.3. La questione di fiducia. 3. Profili di incostituzionalità della legge 52/2015. 3.1. Una legge elettorale per una sola Camera. 3.2 Il principio di proporzionalità. 3.3. La rappresentanza politica. 3.4. Il voto libero e uguale. 3.5. La partecipazione democratica. 4. Effetti collaterali: governi e vocazione minoritaria e Costituzioni cedevoli.

1. Premessa.

Da un quarto di secolo si discute in Italia di legge elettorale. Un confronto quasi ininterrotto, che ha visto infinite proposte, molteplici iniziative referendarie, e cambiamenti anche radicali. Il primo nel 1993 dal proporzionale puro al maggioritario uninominale di collegio (Mattarellum), poi nel 2005 con il proporzionale a lista bloccata e premio di maggioranza (Porcellum), ed infine con l’ultima legge (52/2015, cd. Italicum[2]).

L’avvio nel 2013 della XVII legislatura vede una novità importante. Un cittadino elettore si rivolge al giudice – Tribunale e poi Corte di Appello di Milano – chiedendo che sia accertata l’impossibilità di votare conformemente ai principi costituzionale con la legge elettorale vigente. L’istanza viene respinta, ma in sede di ricorso avverso il rigetto la Corte di cassazione[3] solleva una questione di legittimità, con cui si prospetta la possibilità di molteplici violazioni, ed in specie la distorsione eccessiva e irragionevole della rappresentanza politica e del voto libero e uguale.

In passato, la Corte costituzionale è stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità di quesiti referendari in materia elettorale, ed è stata anche protagonista della svolta verso il maggioritario uninominale di collegio[4]. Ma con la pronuncia sulla legge elettorale una materia tradizionalmente assegnata alla discrezionalità del legislatore, e dunque alle scelte delle forze politiche, viene attratta nell’orbita del controllo giurisdizionale di costituzionalità. Con quali conseguenze?

1.1. La sentenza Corte cost. 1/2014.

Il 4 dicembre 2013 la Corte decide per l’incostituzionalità parziale della legge 270/2005. Ne dà notizia attraverso un comunicato[5], dal quale già risulta che la pronuncia è stata mirata sui punti del Porcellum che maggiori dubbi avevano fatto sorgere fin dal primo momento: il premio di maggioranza svincolato da qualsiasi soglia, e la lista bloccata per tutti i parlamentari[6].

La Corte afferma nel comunicato che «il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali». Quali che saranno le motivazioni, la pronuncia non vincolerà il legislatore al sistema elettorale che ne risulta. Ma nemmeno lo lascerà assolutamente libero di scegliere. La chiave è nelle parole «rispetto dei principi costituzionali». La domanda è: quale legge elettorale è compatibile con i

principi posti dalla Corte? Non è consentito reintrodurre disposizioni dichiarate illegittime. Ma sono in prospettiva precluse anche formulazioni normative equivalenti o comunque tali da produrre analoghi effetti.

Appena qualche giorno dopo il comunicato della Corte, il Presidente del consiglio Letta, in occasione del voto su una questione di fiducia, afferma che si deve evitare l’eccessivo frazionamento della rappresentanza, confermare il maggioritario, puntare alla democrazia dell’alternanza, restituire ai cittadini la scelta di chi li rappresenta e li governa[7]. Ed è subito evidente il problema: ribadire in termini assoluti gli obiettivi del bipolarismo e della governabilità in una fase in cui il sistema politico sembra durevolmente strutturato su tre poli. Qualunque sistema azzerasse o comprimesse oltre misura due dei poli per garantire la vittoria nei numeri parlamentari del terzo sarebbe probabilmente in contrasto con la linea già enunciata dalla Corte nel comunicato.

Il 13 gennaio 2014 viene depositata la sentenza[8]. La Corte supera anzitutto le perplessità di una parte della dottrina sulla am m issibilità della questione. Invero, a tali dubbi la precedente giurisprudenza della Corte offriva qualche argomento, per la sostanziale sovrapponibilità del petitum posto al giudice a quo rispetto a quello posto alla Corte[9]. Ma l’ostacolo viene superato, oltre che facendo riferimento alla motivazione sulla rilevanza adottata dal giudice remittente, con una netta affermazione di principio: le questioni sollevate sono ammissibili “anche in linea con l’esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato. Diversamente, si finirebbe con il creare una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico, in quanto incide sul diritto fondamentale di voto;; per ciò stesso, si determinerebbe un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale”.

La Corte colpisce due cardini essenziali del Porcellum. Il primo. La mancanza di una soglia per il premio di maggioranza rende possibile una distorsione eccessiva del risultato elettorale. Possibile, si badi, non certa. È del tutto ovvio che essendo il premio configurato come l’aggiunta di seggi in numero variabile fino a un totale di 340, la mancanza di una soglia per l’applicazione non determina di per sé la misura della distorsione, che potrà essere ridotta o elevata in ragione della distribuzione dei consensi tra i soggetti politici. Dunque, il dettato normativo viene colpito non in virtù di una quantificazione data del premio, ma per la eventualità che in concreto esso possa giungere a una misura incompatibile con il bene costituzionalmente protetto della rappresentatività dell’istituzione. Il contrasto con una rappresentatività costituzionalmente protetta e quindi necessaria sussiste per la mera possibilità che l’applicazione del premio di fatto produca esiti non rispettosi di quella rappresentatività. Un esito eventuale si traduce in una violazione certa della Costituzione. Da questo si trae il corollario che un sistema elettorale – qualunque sia – sarà conforme a Costituzione solo se eviterà con certezza quella stessa eventualità. Saranno

conformi a Costituzione tutti i sistemi elettorali, comunque configurati, per i quali una eccessiva distorsione nel tradursi dei voti in seggi sia impossibile in principio, e a prescindere dal concreto esito del voto.

Il secondo. La previsione di una lista bloccata estesa a tutta la rappresentanza parlamentare nega all’elettore ogni scelta. Il bene costituzionalmente protetto è qui il libero determinarsi nell’esercizio del diritto di voto, che non può essere limitato alla scelta di un soggetto politico, tramite la mera adesione alla offerta di candidature messa in campo da quel soggetto. Un principio di libera scelta deve essere salvaguardato: modulabile nelle modalità o nell’estensione, ma non conculcabile nella sua interezza. E certo l’intervento del giudice delle leggi è molto invasivo, tanto da assumere – per la parte relativa alle liste bloccate – la forma della sentenza additiva.

L‘argomentare della sent. 1/2014 è saldamente incardinato sulla natura del voto come diritto fondamentale. È proprio con questa impostazione che la Corte sposta la materia da un’area sostanzialmente rimessa ai soggetti politici, e dunque assoggettata a un’ampia discrezionalità del legislatore, ad un terreno nel quale la scelta del decisore politico trova rigorosi confini. Beninteso, un bilanciamento rimane necessario. Per la Corte, la rappresentatività delle assemblee elettive è centrale per il sistema democratico, ma anche la governabilità e l’efficienza decisionale sono valori costituzionalmente rilevanti. Al tempo stesso, non è prescritto in Costituzione uno specifico modello, ed in specie un sistema elettorale proporzionale puro. Ma essendo il cardine nel voto come diritto fondamentale, l’ambito di scelta del legislatore trova rigorosi confini nei principi di necessità, proporzionalità, ragionevolezza[10].

È la chiara affermazione della applicabilità di questo test che cambia, anche in prospettiva, i termini della questione. Il legislatore si potrà allontanare dalla esatta corrispondenza tra voti e seggi, ma solo per quanto necessario, e seguendo la scelta meno lesiva tra quelle possibili. Dunque, non in misura eccessiva o arbitraria. Da questa premessa viene con chiarezza la lesione derivante da un premio di maggioranza applicabile senza alcuna soglia minima di voti conseguiti, e dunque tale da produrre una distorsione anche molto elevata.

Analogo ragionamento la Corte svolge quando guarda, sia pure forse con minore nettezza[11], al principio del voto “eguale”, concludendo per la violazione anche dell’art. 48 della Costituzione. Ed infine quando considera la scelta consapevole dell’elettore ai fini del voto “libero”, precluso dalle liste bloccate sull’intera rappresentanza parlamentare.

La sent. 1/2014 si collega in modo diretto al confronto politico e parlamentare a quel momento in corso sulla legge elettorale. Nell’argomentare della Corte rappresentatività e voto eguale si intrecciano, e non tutte le risposte sono semplici e nette. Tuttavia, se ne traggono indicazioni ineludibili, oltre a punti problematici. Se la rappresentatività assume un autonomo e decisivo rilievo costituzionale per la democraticità del sistema, ne segue che la misura della

distorsione, comunque prodotta, deve osservare i principi di proporzionalità e ragionevolezza. Una distorsione eccessiva o arbitraria è di per sé lesiva della Costituzione, anche se espressione di un voto tecnicamente libero ed eguale. E ribadiamo che per l’incostituzionalità basta che la distorsione sia potenziale.

Infine, la sent. 1/2014 ribadisce la legittimità formale del parlamento in carica, eletto in base alla legge all’epoca vigente. Ma non sfugge il rilievo di un dato: gli equilibri politici nelle assemblee sono decisivamente conformati proprio dal premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Se questo non incide sulla legittimità formale, certo colpisce la legittimazione sostanziale, in specie quella a perseguire riforme istituzionali, affidate a un parlamento viziato nella sua composizione dal premio di maggioranza espunto dalla legge. Forse non è un caso che la Corte leghi la necessaria rappresentatività delle assemblee elettive alle “delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.)”. È un suggerimento che il parlamento in carica – illegittimamente composto – dovrebbe astenersi dall’esercitare quelle “delicate funzioni”?.

1.2. La sentenza Corte cost. 275/2014.

Il Testo unico delle leggi regionali Trentino Alto Adige sulle elezioni comunali dispone per i Comuni con più di 3.000 abitanti un premio fino al 60% dei seggi per la lista o la coalizione di liste collegate al candidato eletto sindaco. In sede di ricorso di cittadini-candidati il giudice amministrativo solleva una questione di costituzionalità, in specie richiamando il premio attribuito senza previsione di una soglia minima di voti, la irrazionalità di un sistema che incentiverebbe coalizioni disomogenee, e la violazione del principio di eguaglianza del voto, per il diverso peso attribuito al voto espresso per le liste perdenti rispetto a quelle vincenti[12]. Le argomentazioni dell’ordinanza sulla non manifesta infondatezza della questione richiamano ampiamente le motivazioni alla base della sent. 1/2014 della Corte costituzionale.

La Corte dichiara la questione infondata, nonostante le evidenti assonanze con la propria precedente pronuncia. Cosa è cambiato?

In realtà, nella sentenza 275/2014 la Corte poteva affrontare il problema in due modi diversi. O partendo dagli elementi che le due fattispecie avevano in comune, ed in particolare dal voto come diritto fondamentale e inviolabile. O ppure partendo dalle differenze, ed esercitandosi nella sottile arte del distinguishing. La prima opzione avrebbe probabilmente condotto a un accoglimento. La seconda – che la Corte ha scelto – ha condotto al rigetto[13].

Nella pronuncia sono ampiamente sottolineati gli elementi che differenziano la fattispecie da quella oggetto della sentenza 1/2014: voto locale, elezione diretta, ballottaggio[14]. Non è dubbio che vi siano elementi tecnicamente distintivi. Ma doveva porsi la domanda se tali elementi fossero nella specie rilevanti. Soprattutto considerando che da essi viene un bilanciamento sfavorevole per un diritto che è esattamente lo stesso assunto a perno della sentenza 1/2014: il

voto.

Non si potrebbe infatti considerare il diritto di voto a livello locale come geneticamente minore rispetto a quello espresso a livello nazionale. Il rilievo politico-istituzionale del diritto di voto si misura nell’ambito della comunità di riferimento, in ordine alla quale è sempre parimenti essenziale. La prova la troviamo nell’art. 114 della Costituzione, per cui la Repubblica “è costituita” dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato. Possiamo mai intendere che in elementi che parimenti concorrono a costituire la Repubblica l’essenziale elemento del voto sia differenziabile per importanza in ragione della dimensione dell’ente territoriale interessato? Analogo ragionamento può svolgersi in base all’art. 5 Cost., per cui la Repubblica riconosce e favorisce le autonomie locali. È proprio l‘impianto autonomistico e multilivello della Costituzione che certifica la pari dignità delle comunità che costituiscono la Repubblica, e la natura parimenti fondamentale e inviolabile del diritto di voto che in ciascuna di esse si esercita. Ne segue che in principio il diritto di voto in sede locale non può vedersi come più cedevole rispetto ad esigenze di governabilità in ragione della diversità delle funzioni che fanno capo all’ente territoriale.

Se poi si volesse ritenere che il bilanciamento più sfavorevole al diritto di voto viene non già dalla natura locale, ma dalle diversità prima elencate di per sé, ne verrebbe una conseguenza parimenti aberrante. Si tratterebbe infatti di differenze che la Corte ha ormai certificato nella pronuncia come legittime costituzionalmente. Sarebbero quindi come tali traducibili a livello nazionale. Ed è agevole vedere che in tale ipotesi tutto l’argomentare della sent. 1/2014 potrebbe essere smantellato senza difficoltà alcuna. In realtà, dopo la sentenza 275/2014 o si argomenta che quelle differenze non possono essere trasposte a livello nazionale, oppure a livello nazionale si riapre la via ad una compressione anche radicale del diritto di voto e della rappresentanza politica.

Quindi la sentenza 275/2014 quanto meno introduce elementi di ambiguità in un contesto che sembrava con grande chiarezza definito dalla sent. 1/2014. Un momento di timidezza giurisprudenziale? L’inizio di un ripensamento? Per saperlo, bisognerà aspettare. Il punto di debolezza della sentenza 275/2014 è nel non assumere a proprio fondamento la considerazione del voto come diritto fondamentale e inviolabile. Che come tale trascina inevitabilmente un test di costituzionalità più rigoroso per la discrezionalità del legislatore: necessità, proporzionalità, indisponibilità di opzioni meno invasive. È significativo che nella sentenza 275/2014 le parole diritto fondamentale, proporzionalità, necessità non siano menzionate nemmeno una volta. Il suggerimento del giudice a quo, che la Corte non ha inteso cogliere era appunto che il voto non perde le sue caratteristiche genetiche a livello regionale e locale. Invece, nella sent. 275/2014 l’argomentare si risolve tutto nella razionalità del sistema politico-istituzionale in chiave di governabilità. Ogni compressione della rappresentanza politica può allora diventare razionale, e a cascata la natura fondamentale e inviolabile del diritto di voto fatalmente sfuma nello sfondo. La pronuncia avrebbe potuto essere scritta tal quale anni addietro, ed è in realtà

scritta come se la sentenza 1/2014 non avesse visto la luce.

1.3. La legge elettorale europea e la sentenza Corte cost. 110/2015.

Una postilla di rilievo è data dalla vicenda della legge elettorale europea. Il tribunale di Venezia[15] rimette alla Corte costituzionale il dubbio di incostituzionalità della soglia di sbarramento al 4% che la legge vigente prevede per le elezioni europee. La Corte costituzionale tedesca ha già dichiarato l’incostituzionalità dello sbarramento al 5 e poi al 3% previsto in quel paese con due successive sentenze (9 novembre 2011 e 26 febbraio 2014[16]). Il tribunale di Venezia sostanzialmente assume le motivazioni della corte tedesca, prospettate nel giudizio.

Cosa dice la Corte tedesca? Il ragionamento si può così sintetizzare. Primo: uno sbarramento è comunque lesivo del principio di eguaglianza del voto e tra i partiti politici. Secondo: può trovare giustificazione ed essere costituzionalmente consentito per esigenze di governabilità e stabilità. Terzo: in Europa queste esigenze non sussistono, perché il parlamento non ha sul governo i poteri tipici di un sistema parlamentare (riassumibili in un rapporto di fiducia). Quarto: la soglia è oggi per tale motivo incostituzionale. Quinto: la situazione potrebbe cambiare, e la soglia divenire costituzionalmente compatibile, se l’architettura istituzionale europea dovesse in futuro cambiare.

Il ragionamento posto nella sent. 1/2014 sul Porcellum suggerisce che la Corte italiana potrebbe seguire per la legge elettorale europea un percorso analogo a quello della corte tedesca. I parametri costituzionali sono essenzialmente gli stessi. Come si arrivò in Italia alla soglia del 4%? Il blitz parlamentare che nel giro di pochi giorni la introdusse, nell’imminenza delle elezioni europee del 2009, volle rendere il sistema elettorale europeo omogeneo con il Porcellum nella lettura data da Veltroni nel 2008, con la chiusura a sinistra della coalizione. La porta chiusa nel 2008 doveva rimanere chiusa. La relazione all’aula del Senato[17] di Malan (PDL) e Ceccanti (PD) ricorda che le regole elettorali erano state nel 2008 “curvate politicamente”. E quanto all’assenza di esigenze di governabilità, si dice che bisogna comunque evitare la frammentazione delle rappresentanze di un grande Paese per evitare un danno al “peso degli eletti in Italia, nei gruppi più rappresentativi”.

L’argomento è palesemente privo di merito. Maggior rilievo assume la considerazione che oggi l’Europa è dei governi prima che dei popoli. La dominanza degli esecutivi è evidente. Abbiamo un consiglio europeo dei capi di stato e di governo, un consiglio europeo di emanazione governativa, una commissione europea del pari derivante dalle scelte dei governi, e un presidente della commissione per la cui scelta è decisivo un accordo intergovernativo. Una prima timida correzione la vediamo ora nelle candidature alla presidenza prospettate agli elettori nel voto, e chissà se è nel senso giusto[18]. Per contro, il parlamento europeo è solo compartecipe – non dominus – del procedimento di formazione della legge europea, in cui è decisivo il ruolo degli organi di emanazione governativa. E non ha poteri sulla vita e sull’indirizzo politico della

commissione europea e del suo presidente, cui non vota la fiducia e che non ha il potere di rimuovere.

L’assetto istituzionale incide sulle politiche che attraverso di esso si producono. Per questo il punto della rappresentatività del parlamento europeo e delle soglie è rilevante. Aprire a tutti i soggetti politici significa dare visibilità e voce più compiuta ai diritti e ai bisogni delle persone che votano. Ma qui troviamo una contraddizione, che la corte tedesca espone con chiarezza. La soglia è incostituzionale, e quindi la rappresentatività prevale, perché il parlamento conta poco. Se contasse di più, si giustificherebbe la soglia e la riduzione della rappresentatività. È questo il dilemma per chi crede in una democrazia rappresentativa e parlamentare. Si può accettare una centralità dell’assemblea elettiv a c on qu ista ta a spese della su a ra ppresen ta tiv ità ? È la stessa contraddizione che viviamo in Italia[19]. La vicenda della legge elettorale europea sottolinea in modo specifico il dilemma tra rappresentatività e stabilità/governabilità. Due poli contrapposti tra i quali la sent. 1/2014 impone sia trovato un ragionevole equilibrio.

La Corte costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile[20]. La decisione si impernia nell’affermazione che per la legge elettorale europea è possibile adire il giudice per contestare un concreto esito elettorale. Quel giudizio è pertanto la sede dalla quale pervenire alla Corte in via incidentale. È inammissibile invece la questione posta – come nel caso – in via di accertamento della portata del diritto di voto, al di fuori della contestazione di uno specifico esito elettorale da parte di chi abbia diritto a contestarlo. Ed è questa la differenza rispetto alla elezione al parlamento nazionale. La Corte afferma che “in quel caso, il controllo dei risultati elettorali è sottratto al giudice comune ed è rimesso dall’art. 66 Cost. alle Camere di appartenenza degli eletti … Di conseguenza il vulnus che si lamenti arrecato a un diritto fondamentale, quale è il diritto di voto, da una normativa elettorale che si sospetti costituzionalmente illegittima non potrebbe essere eliminato attraverso lo strumento del giudizio incidentale”.

La sentenza 110/2015 da questo punto di vista non si pone in antitesi rispetto alla precedente 1/2014, anche se ne sottolinea in qualche modo l’unicità. Ribadisce anzi il principio che non debba esservi alcuna zona d’ombra sottratta al controllo di costituzionalità laddove un diritto di cruciale importanza per il sistema democratico sia in gioco. Rimane impregiudicato il merito, che potrà essere di nuovo sottoposto all’attenzione della Corte.

2. L’Italicum: un percorso parlamentare accidentato.

Matteo Renzi, neo-segretario con le primarie dell’8 dicembre 2014 e la successiva assemblea PD del 15 dicembre, assume tra le priorità urgenti la legge elettorale[21]. Inizialmente, avanza tre proposte: un Mattarellum modificato, con il 75% di collegi uninominali maggioritari, 15% di premio di maggioranza, 10% di diritto di tribuna;; un sistema similspagnolo, maggioritario con collegi piccoli o piccolissimi e miniliste bloccate; e un modello similsindaci, con

elezione sostanzialmente diretta del capo del governo, e conseguente trascinamento della lista o coalizione collegata al premier vincente al 60% (o forse 55%) dei seggi nell’assemblea elettiva. A prima lettura, le proposte — tutte — sono volte a un bipolarismo blindato e all’obiettivo di avere dal giorno del voto un vincitore certo non solo nel voto popolare, ma anche — e soprattutto — nei numeri parlamentari.

La proposta di Renzi si precisa nel confronto con Berlusconi, condannato e decaduto dalla carica di senatore. In un incontro nella sede romana del PD tenuto il 18 gennaio 2014 viene raggiunta – secondo la dichiarazione dello stesso Renzi, una “profonda sintonia” sui temi della legge elettorale, nonché della riforma del titolo V e del senato[22]. L’accordo, noto come “patto del Nazareno”, suscita forti polemiche. La proposta viene precisata nella direzione del PD del 20 gennaio 2014[23]: tre soglie di accesso al 5, 8 e 12%;; premio di maggioranza del 18% con soglia del 35%, e fino a concorrenza del 55% dei seggi;; doppio turno per il premio se nessuno raggiunge il 35% dei voti;; minicollegi e liste bloccate brevi, con primarie per la scelta dei candidati.

L’impianto delineato nel patto del Nazareno viene tradotto[24] nel testo approvato dalla Camera l’11 marzo 2014. Il Senato approva con modifiche il 27 gennaio 2015. La soglia per l’attribuzione del premio, attribuito alla sola lista vincente e non più alla coalizione, è stabilita al 40%, con un secondo turno di ballottaggio nel caso di mancato raggiungimento. Le soglie per l’accesso sono fissate al 3%. Si introduce la preferenza, rimanendo il blocco per i capilista. La definitiva approvazione della Camera sopravviene il 4 maggio 2015.

Il percorso parlamentare è tormentato. Si segnalano in specie tre questioni: la sostituzione forzosa di componenti di commissione per evitarne il dissenso;; l’uso estremamente estensivo del cd. “canguro” a fini anti-ostruzionistici;; il ricorso alla questione di fiducia nel voto delle pregiudiziali e del testo della legge elettorale;;

2.1. Il “maxi-canguro”

Il 21 gennaio 2015 in Senato l’approvazione dell’emendamento 01.103, a firma Esposito – oggi, art. 1 della legge 52/2015 – fa decadere migliaia di emendamenti[25]. In pratica, un solo emendamento decisivamente contribuisce a stroncare l’ostruzionismo. Si dice sia stata applicata una tecnica – il “canguro” – ben nota alla prassi parlamentare. Ma non è così.

In principio, un emendamento vuole sostituire il contenuto normativo di un dettato testuale con un contenuto diverso[26]. Il principio alla base del “canguro” è che l’assemblea non può essere chiamata a votare nuovamente su quello che ha già deciso. Quindi, se un emendamento viene rigettato, il voto travolge anche gli altri emendamenti di contenuto sovrapponibile al primo, assumendo tra l’altro che uguale volontà esprimerebbe l’Aula votandoli uno a uno. Si salta all’emendamento successivo, e da qui il nome. Ma è corretto

ritenere che il voto negativo su un emendamento ne travolga altri solo fino a quando si può assumere che in tutti gli emendamenti vi sia una parte coincidente, e che questa sia assorbente per il merito dell’emendamento nel complesso[27]. E va nella specie ricordato che per l’art. 72 Cost. la legge elettorale è necessariamente discussa e approvata in assemblea articolo per articolo. Per l’art. 100 del regolamento Senato gli emendamenti seguono la stessa logica.

L’emendamento 01.103 premetteva all’art. 1 dell’Italicum un articolo 01 recante in sintesi gli indirizzi generali desumibili dall’intera proposta. Non richiamava altri articoli, commi, emendamenti, e non ne toccava quindi il contenuto normativo specifico. Nemmeno poneva norme autonomamente applicabili. Né infine rispetta v a il principio della discussione e approvazione articolo per articolo, come è provato proprio dalla decadenza di emendamenti a molteplici articoli del disegno di legge. Come è stato detto in Aula, al più avrebbe potuto configurarsi come ordine del giorno.

Seguendo la logica dell’emendamento Esposito basterebbe — sotto le mentite spoglie di emendamento — anteporre a qualsiasi disegno di legge un riassunto dei suoi contenuti e approvarlo per far ritenere preclusi tutti gli emendamenti. Un bavaglio istantaneo e, se fatto dal governo, una sostanziale ghigliottina disponibile in ogni momento, con effetti di fatto analoghi a quelli ottenibili attraverso una questione di fiducia, ma senza l’attivazione dello speciale procedimento a tal fine previsto e senza l’assunzione di una specifica responsabilità. Ciò prova il tradimento della lettera e dello spirito della Costituzione e del regolamento, e per di più in una materia cruciale, come è quella elettorale.

L’emendamento 01.103 avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, in quanto privo di «reale portata modificativa» (art. 100.8 reg. sen.).

2.2. La sostituzione forzosa di componenti nelle commissioni.

Il 20 aprile 2015 una vasta eco di stampa circonda la notizia che l’Ufficio di presidenza del gruppo parlamentare PD ha deciso la sostituzione nella Commissione affari costituzionali della camera di ben dieci componenti, tutti appartenenti alla minoranza del partito, per il dissenso manifestato sulla proposta di legge elettorale in discussione. La sostituzione tende ad evitare – come vuole il Governo – che la Commissione modifichi il testo uscito dal Senato. La sostituzione vale per la sola proposta di legge elettorale, e non è stata né richiesta né consentita dagli interessati, che anzi la rifiutano. Dunque, una rimozione forzosa mirata a determinare l’esito dell’esame in Commissione[28].

La prassi in entrambe le Camere conosce la sostituzione temporanea di componenti nelle commissioni per una o più sedute[29], ad esempio quando il tema in discussione richieda una competenza specialistica che altro parlamentare possiede. Ma si tratta ovviamente di sostituzioni concordate e

motivate con la specificità delle competenze. La rimozione forzosa pone ben altri problemi, ed investe in modo specifico la questione del dissenso nel gruppo, nel più ampio quadro del diritto di ciascun parlamentare di esercitare le proprie funzioni rappresentando la nazione senza vincolo di mandato, ai sensi dell’art. 67 della costituzione, e del principio, parimenti sancito in Costituzione, che le commissioni sono composte in modo da riflettere i gruppi parlamentari. Il che implica da un lato che il parlamentare non può essere obbligato a votare in un modo o nell’altro, come è provato dalla menzione nei regolamenti del dissenso rispetto al gruppo. Ma al tempo stesso che ciascun gruppo ha il diritto di vedere espresse nelle commissioni posizioni coerenti con quelle assunte dal gruppo stesso sulle materie in discussione. Conseguentemente, i regolamenti parlamentari assegnano ai gruppi il potere di indicare per ciascun proprio componente la commissione di appartenenza. Vanno anche considerati in proposito i regolamenti interni dei gruppi[30].

Il conflitto è dunque tra la tutela accordata sia alla libertà del singolo parlamentare, sia all’identità politica del gruppo nei lavori parlamentari. Se la composizione in sede politica fallisce – come nel caso – bisogna in principio perseguire la soluzione che sia meno lesiva per entrambi i beni protetti. Nella specie, il bavaglio imposto al parlamentare con l’estromissione forzosa non era tecnicamente indispensabile. Il dissenso era dichiaratamente mirato sulla singola questione, e non volto in via generale alle politiche del gruppo. Qualunque esito non gradito della votazione in commissione sulla legge elettorale avrebbe potuto essere agevolmente corretto in Aula in via emendativa. Se poi il costo politico del dissenso fosse stato ritenuto intollerabile, l’alternativa sarebbe stata la espulsione dal gruppo, cui sarebbe seguita la sostituzione definitiva in commissione con un parlamentare espressione del gruppo. È la espulsione il modo corretto di affrontare la rottura non recuperabile dell’idem sentire tra parlamentare e gruppo di appartenenza.

La sostituzione forzosa in commissione per il singolo affare nel caso di dissenso non sembra dunque essere la soluzione corretta. Ancor più se adottata per grandi numeri, indicando ciò che si usa l’istituzione per affrontare un problema che sarebbe più appropriatamente collocato in una sede di partito. Nella specie, si può ritenere che la presidenza dell’assemblea, cui spetta in via generale e residuale la garanzia del rispetto delle regole che a ogni livello disciplinano la vita della istituzione, avrebbe potuto e dovuto intervenire per bloccare la sostituzione.

2.3. La questione di fiducia

Nel dibattito nella Camera dei deputati il governo ha posto la fiducia sia sulle pregiudiziali, sia sugli articoli del testo in discussione. Tale iniziativa avrebbe dovuto essere preclusa, ai sensi degli artt. 49 e 116 del regolamento. Per l’art. 49 il voto è palese, salvo ·che per alcune materie enumerate in cui è necessariamente segreto, e per alcune altre in cui è segreto a richiesta di almeno

30 deputati (art. 51). Tra queste ultime – voto segreto a richiesta – troviamo appunto la legge elettorale. Per l’art. 116 la questione di fiducia non può essere posta «su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto». Il che è ovvio, visto che la fiducia si vota per appello nominale. La domanda dunque è: lo scrutinio segreto a richiesta sulla legge elettorale ex art. 49 si configura come voto segreto “prescritto” ai sensi dell’art. 116? O deve considerarsi “prescritto” solo il voto “necessariamente” segreto, e cioè segreto anche in assenza di richiesta?

La risposta è chiara. Anche il voto segreto a richiesta – beninteso, una volta che la richiesta sia stata avanzata – deve considerarsi “prescritto” ai sensi dell’art. 116, e dunque idoneo a determinare la preclusione della questione di fiducia. Bisogna partire dalla considerazione che la modalità di votazione in ambito parlamentare non è mai oggetto di valutazione discrezionale da parte di chicchessia. Che il voto sia segreto o palese non discende da una scelta di opportunità, ma dal dettato regolamentare. Ciò per ovvi motivi di garanzia dei singoli parlamentari e delle forze politiche, in specie di minoranza.

Ci può essere un «dubbio sull’oggetto della deliberazione», cioè un dubbio interpretativo se una fattispecie rientri o meno nelle materie per cui il voto è segreto o palese. Ma, sciolto il dubbio da parte della presidenza dell’assemblea, eventualmente con il parere della Giunta per il regolamento, il voto è obbligatoriamente determinato dalla norma regolamentare. Quindi, la modalità di votazione è sempre «prescritta».

Nel caso, non c’era alcuna possibilità di dubbio interpretativo, poiché la legge elettorale è esplicitamente inclusa nell’elenco delle materie per cui il voto è segreto a richiesta. E pertanto la questione di fiducia rimane preclusa ai sensi dell’art. ll6, laddove richiesta di voto segreto vi sia. Spetterà alla Presidenza dell’Assemblea impedire ogni prevaricazione a danno dei diritti dei singoli deputati e delle forze politiche. Essendo chiaro che la Presidenza non si oppone a una scelta politica del governo, ma solo applica – come deve – una inequivoca norma regolamentare.

Non si può dunque condividere la scelta della Presidente Boldrini, di ammettere la questione di fiducia sia sulla pregiudiziale, che sugli articoli del testo in discussione. Anche i precedenti suggerivano che lo strumento della fiducia non andava utilizzato. Per la pregiudiziale di costituzionalità, nel gennaio 2014 la Camera discuteva la legge elettorale. Partivano la scalata di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, ancora occupato da Enrico Letta, e la stagione del Nazareno. Sulla pregiudiziale a prima firma Migliore (allora capogruppo di Sei, ora Pd) si votò a scrutinio segreto, su richiesta dello stesso Migliore[31]. Nessuno parlò di fiducia. Un precedente si trova nel 1980, con la fiducia posta da Francesco Cossiga sulla reiezione della pregiudiziale di costituzionalità a un decreto legge[32]. In ogni caso, la vicenda del 1980 non sarebbe un buon precedente, essendo il voto segreto per il regolamento di allora previsione di ordine generale, e non mirata a ipotesi tassative come è oggi. Proprio dalla tassatività dovrebbe venire un favor per la segretezza laddove richiesta. Del diverso contesto la

presidenza dell’Assemblea, il cui primo dovere è garantire la libertà dell’istituzione parlamentare e non il successo del governo, avrebbe dovuto tener conto.

Quanto alla fiducia posta sugli articoli, un precedente si trova con De Gasperi e la legge c.d. truffa. Lo stesso de Gasperi, intervenendo alla Camera il 17 gennaio 1953, difendeva la richiesta di fiducia argomentando che l’iniziativa del governo sulla legge elettorale era giustificata dall’intento di rafforzare il centro politico contro il rischio per la democrazia posto da una possibile saldatura tra le ali estreme e anti-sistema. Ma sottolineava che il premio sarebbe scattato solo se voluto dalla maggioranza assoluta degli elettori[33]. Ribadiva poi questa caratteristica nel porre la fiducia in Senato nella seduta dell’8 marzo[34]: una situazione ben diversa da quella prefigurata dalla proposta oggi in discussione. Ciononostante, il presidente dell’assemblea teneva a precisare che la richiesta di fiducia non costituiva precedente[35]. E la questione di fiducia fu definita una “mostruosità”[36] dall’allora senatore Pertini, futuro Presidente della Repubblica.

Più in generale, nei casi qui riportati si è fatto riferimento a precedenti veri o presunti. Ma la validità di un richiamo al precedente non è data soltanto dalla mera ripetizione di un comportamento tenuto in passato. Il precedente va visto anche nel contesto in cui il comportamento si colloca. Quindi, una prima considerazione di ordine generale ci dice che dopo la sentenza 1/2014 qualsiasi precedente doveva essere valutato con estrema cautela. La sentenza poteva anche – secondo l’opinione prevalente e il suggerimento della stessa Corte – non inficiare la legittimità formale del parlamento in carica. Ma certo determinava una situazione eccezionale e priva di riscontro nel passato. Ne veniva ineluttabilmente che il rapporto tra le forze politiche non era quello che avrebbe dovuto essere, per l’indebito vantaggio nei numeri parlamentari concesso ad alcune di esse dal premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Questo avrebbe dovuto togliere peso e significato ai precedenti volti a garantire un dominio maggioritario dei lavori in Commissione e in Aula. Il fulmine che colpisce la maggioranza nel suo momento genetico colpisce fatalmente al tempo stesso il suo diritto a governare. Le Presidenze delle Assemblee avrebbero dovuto interpretare regolamenti, prassi e precedenti con intelligenza istituzionale volta a tenere conto di tale eccezionalità. Al contrario, hanno consentito un uso mai visto prima di strumenti volti a comprimere la dialettica parlamentare, senza affatto considerare che nelle condizioni date bisognava invece garantire in special modo ogni spazio di opposizione e dissenso. Proprio nel momento in cui ne veniva colpito il fondamento con la sentenza 1/2014, alla maggioranza numerica in parlamento sono stati consentiti strumenti di ampiezza inusitata rispetto al passato. Se quanto è accaduto diventa a sua volta precedente[37], è chiaro il rischio che per l’istituzione parlamento si profili una dittatura di maggioranza, per di più drogata dal sistema elettorale e asservita al leader.

3. Profili di incostituzionalità della legge 52/2015

Nella sent. 1/2014 la Corte non prescrive – né avrebbe dovuto o potuto prescrivere – alcuna specifica soluzione cui attenersi. Dunque, un arco di scelte rimane consentito al legislatore in materia elettorale anche dopo la pronuncia. Ma è certo che non ogni legge elettorale è consentita, e che in specie molte scelte fatte con la legge 52/2015 si mostrano dubbie o precluse. La sent. 1/2014 rimane il riferimento primario. Le ambiguità rilevate nella sent. 275/2014 si possono superare proprio per il distinguishing operato dalla Corte e riferito alla natura locale e amministrativa della competizione elettorale considerata. In questa prospettiva i profili di incostituzionalità sono molteplici. Ciò non meraviglia, dal momento che è dal primo momento chiaro che della sentenza 1/2014 non si tiene conto[38]. Il patto Berlusconi-Renzi segue di pochi giorni il deposito in cancelleria della pronuncia, avvenuto il 13 gennaio, ma l’orientamento della Corte era già pienamente desumibile dal comunicato del 4 dicembre 2013.

3.1. Una legge elettorale per una sola Camera.

La legge espressamente si riferisce alla sola Camera dei deputati. La scelta si motiva con la parallela iniziativa di una riforma costituzionale volta ad introdurre un senato non eletto direttamente, e privato del potere di esprimere la fiducia al governo. Ciononostante, una legge elettorale limitata a una sola camera è di per sé segnata – allo stato – da un vizio di incostituzionalità.

La legge 52/2015 rinvia l’entrata in vigore del nuovo sistema elettorale al 1 luglio 2016. Prima di quella data eventuali elezioni si svolgerebbero per entrambe le Camere secondo la normativa di risulta derivante dalla sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale (proporzionale puro con lista e preferenza). Ma se la riforma costituzionale non fosse operante entro quella stessa data, per ritardi nell’approvazione, per i tempi di svolgimento di un referendum ex art. 138, o per l’eventuale bocciatura nel voto referendario medesimo, le elezioni politiche successive a quella data potrebbero doversi svolgere per la Camera dei deputati secondo la nuova legge, e per il Senato secondo la normativa di risulta anzidetta, radicalmente diversa. Un esito tale da mantenere equilibri politici ragionevolmente simili in entrambe le camere sarebbe del tutto improbabile, con ovvie conseguenze negative sul piano del rapporto fiduciario con il governo, e quindi della governabilità.

La previsione di sistemi elettorali diversi in un sistema bicamerale paritario non è in sé incostituzionale. Ma il dubbio di costituzionalità emerge se uno dei due sistemi comprime rappresentatività e voto eguale per l’obiettivo – costituzionalmente rilevante – della governabilità. Venendo meno l’obiettivo, viene meno anche ogni bilanciamento fatto in quella chiave. La compressione del voto eguale e della rappresentanza astrattamente giustificabili per la governabilità perderebbero ogni ragione di essere e rimarrebbero sine causa. Diventerebbero per questo inaccettabile lesione di beni costituzionalmente protetti. Un approccio corretto avrebbe richiesto di procedere prima alla riforma

del Senato cancellandone l’elezione diretta, e solo dopo alla approvazione di una legge elettorale per la sola Camera dei deputati[39].

3.2. Il principio di proporzionalità

La sent. 1/2015 assume la governabilità e l’efficienza decisionale come beni costituzionalmente protetti da bilanciare con la compressione del voto libero e uguale e della rappresentanza. Anche accettando tale impostazione, ne viene comunque il corollario che, una volta assicurata la governabilità, qualsiasi compressione ulteriore sia costituzionalmente illegittima, perché in violazione dei principi di necessità e proporzionalità. Se ne può dedurre la incostituzionalità della contemporanea previsione nel sistema elettorale di soglie di accesso, premio di maggioranza e ballottaggio.

Nella legge 52/2015 la governabilità è assicurata dal premio nel caso di lista che supera il 40%, e dal ballottaggio nel caso tale soglia non sia raggiunta da alcuno. Quindi, l’obiettivo di avere un vincitore certo, sostenuto da una altrettanto certa maggioranza parlamentare, risulta pienamente soddisfatto, senza margini residui. Ma allora, perché porre anche soglie di sbarramento verso il basso, quale che sia la percentuale prevista? Perché azzerare il diritto al voto di centinaia di migliaia di cittadini senza alcun beneficio per la governabilità, comunque assicurata aliunde? Colpisce che nella Camera dei comuni della Gran Bretagna siedano tradizionalmente parlamentari eletti con poche migliaia di voti, che nessuno accusa di essere un attentato alla stabilità del sistema o alla governabilità.

Il punto è che con la legge 52/2015 vediamo sovrapporsi alla governabilità il fine di una ristrutturazione del sistema politico in chiave bipolare ed anzi bipartitica. Già nelle prime fasi del confronto viene dichiarato il proposito di favorire i due partiti maggiori, a danno di tutti gli altri soggetti politici[40], solo parzialmente corretto con il conclusivo abbassamento delle soglie imposto dalle richieste dei partners minori della maggioranza di governo. Ma se la governabilità è assicurata, la riduzione artificiosa delle soggettività politiche non è un obiettivo costituzionalmente protetto, e dunque bilanciabile con il diritto fondamentale di suffragio. Al contrario, una norma come l’art. 49 della Costituzione garantisce per tutti il diritto di partecipare. E non è dubbio che strumento di tale diritto sia la possibilità di accedere alle assemblee elettive.

3.3. La rappresentanza politica.

La sent. 1/2014 dichiara l’illegittimità costituzionale del Porcellum per l’attribuzione del premio di maggioranza senza previsione di alcuna soglia. La legge 52/2015 prevede una soglia al 40%, e in caso di mancato raggiungimento, un secondo turno di ballottaggio. Possiamo chiederci se sia in tal modo superata la censura rivolta al Porcellum. La risposta è: solo in apparenza.

È già opinabile che una soglia al 40% superi il test di necessaria rappresentatività che si desume dalla sentenza 1/2014. Un premio di maggioranza del 15% comporta comunque una distorsione molto forte della rappresentanza, in specie se attribuito necessariamente alla singola lista e non alla coalizione, come la legge prevede. Ma in realtà, in un sistema ormai stabilmente orientato verso un modello tripolare, è il ballottaggio l’ipotesi che dobbiamo oggi considerare come primaria. E il ballottaggio come è configurato non supera il test della proporzionalità.

Accedono infatti al ballottaggio le due liste più votate qualora nessuna raggiunga la soglia del 40%. Ma al di sotto di tale soglia non è prevista alcun altro sbarramento se non quello del 3% per l’accesso alla distribuzione dei seggi. Sono preclusi collegamenti o apparentamenti. Quindi, accedono al ballottaggio le due liste più votate, senza previsione di soglia specifica e qualunque sia il numero di voti conseguito, purché superiore al 3%. A quella vincente nel confronto a due andrebbero comunque il premio e i 340 seggi.

Ricordiamo che alla base della dichiarazione del Porcellum è la possibilità – non la certezza – che una lista con pochi voti abbia il premio di maggioranza e dunque molti seggi. Ma è esattamente quel che può accadere con il ballottaggio cui si accede senza soglia. Se tutti gli elettori nel secondo turno confermassero il voto – o non-voto – espresso nel primo, tale esattamente sarebbe l’esito. L’esperienza dei sindaci dimostra che l’ipotesi fatta può non essere lontana dal vero, essendo anzi la partecipazione al secondo turno generalmente più bassa che al primo. Le maggiori percentuali espresse nel ballottaggio occultano in un risultato virtuale una pochezza di consensi che rimane. E dunque la vera domanda è: potrebbe con la legge 52/2015 verificarsi un esito assimilabile a quello censurato dalla Corte costituzionale per il Porcellum, con una forte distorsione della rappresentanza? La risposta è: certamente sì, ancor peggio che nel Porcellum per l’attribuzione del premio di maggioranza alla singola lista, senza collegamenti o apparentamenti.

La distanza dalla sent. 1/2014 viene dal fatto che il punto della rappresentatività dell’assemblea è del tutto pretermesso, per inseguire il dichiarato obiettivo di avere un vincitore certo sostenuto da una altrettanto certa maggioranza nel giorno stesso del voto (o, nel caso, in quello del ballottaggio). A questo fine si aggiunge ancora quello di ristrutturare il sistema, di cui si è già detto, con l’attribuzione del premio di maggioranza alla singola lista. Che questo sia utile alla governabilità è del tutto opinabile, vista la spinta alla creazione di listoni eterogenei che riprenderebbero con ogni probabilità la propria libertà di azione appena chiuse le urne. E comunque nessun sistema elettorale potrà mai garantire di per sé il vincitore immediato e certo. Che tale esito si abbia dipende dalla configurazione del sistema politico. Ed è del tutto ovvio che in un sistema ormai tripolare è ben difficile raggiungere tale obiettivo rimanendo negli ambito disegnati dalla Corte nella sent. 1/2014. Sarebbe infatti inevitabile o molto probabile una forte compressione di due dei poli a favore di un terzo, con la forzosa compressione di una maggioranza anche larga di voti in una comparativamente piccola minoranza di seggi.

3.4. Il voto libero e uguale.

Quanto alla libertà degli elettori di scegliere i rappresentanti, sin dalle prime proposte messe in campo in attuazione del patto del Nazareno è stato evidente l’intento di non tenere conto della sentenza 1/2014. La prima ipotesi è stata quella di liste bloccate brevi, sostenuta dall’argomento che in tal modo si rendeva possibile la conoscenza dei candidati. Ma si risponde agevolmente che conoscere i candidati non basta, perché conoscere non è sinonimo di scegliere. Il sommarsi delle liste brevi su tutta la rappresentanza avrebbe riprodotto esattamente il parlamento di “nominati” dato dal Porcellum, che si voleva cancellare. Comunque avrebbero sottratto — sommandosi — l’intera rappresentanza politica alla scelta dell’elettore. Che, non volendo sostenere una presenza sgradita tra i componenti di una lista, avrebbe dovuto cambiare il voto, o non votare affatto. Effetti negativi per niente corretti dalla previsione di eventuali primarie. Non essendoci identità di platea tra votanti nelle primarie ed elettori, il problema della preclusione di ogni scelta per l’elettore sarebbe rimasto tal quale. Per l’elettore nulla cambia se i nomi sulla scheda sono scritti da un organo di partito, o con procedimenti plebiscitari. Il punto è che l’elettore è comunque costretto a votare a scatola chiusa l’offerta politica proposta, piaccia o non piaccia, nella sua interezza. È ben vero che nessun sistema elettorale potrà mai garantire la piena corrispondenza del voto di ognuno ai personali orientamenti. Ma anche qui la domanda è: esistono alternative che meno comprimono il bene costituzionalmente protetto della libertà di voto? La risposta è: certamente sì. Di certo un sistema di collegio o di lista e preferenza avrebbero m eglio è più soddisfatto l’esigenza di consentire la libera determinazione dell’elettore quanto al suo rappresentante.

Il problema non è risolto nemmeno con la scelta conclusivamente fatta dalla legge 52/2015 di limitare il blocco ai capilista, consentendo l’espressione della preferenza sulla restante parte della lista. Già rileva – come è ampiamente emerso nel dibattito parlamentare – che i capilista bloccati sarebbero di fatto un’ampia maggioranza degli eletti, e praticamente la totalità per le liste minori escluse dal premio di maggioranza. Ma ancor più conta che ogni elettore vota necessariamente insieme lista e capolista. Ne segue che il voto di tutti è inevitabilmente condizionato ex lege, e quindi per definizione non è libero. È ovvia la contraddizione intrinseca e inevitabile che sorgerebbe qualora il capolista non fosse gradito. L’elettore non potrebbe volere la lista, e disvolere il capolista. Con argomenti analoghi la Corte costituzionale decide sull’ammissibilità del quesito per il referendum abrogativo ex art. 75 della Costituzione. Il quesito deve essere univoco, omogeneo e ispirato a una matrice razionalmente unitaria perché diversamente ne verrebbe lesa la libertà di voto, per l’impossibilità di volere contemporaneamente il sì e il no su un medesimo quesito.

Il blocco riferito ai soli capilista è dubbio anche sotto il profilo del voto uguale, introducendo una differenziazione non giustificabile razionalmente tra gli

elettori e tra i candidati. Tra i primi, perché chi esprime una preferenza non potrà per definizione avere uguali probabilità di avere un proprio rappresentante nell’assemblea elettiva, e dunque di pesare in modo uguale sull’esito rispetto a chi vota solo la lista, e con essa il capolista. Tra i candidati, perché al capolista si conferisce un vantaggio ex lege nell’accesso alla carica pubblica. È ben vero che per l’art. 51 Cost. si accede alla carica pubblica secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Ma deve trattarsi di requisiti stabiliti in via generale per tutti, e non di un favor che la legge consente sia attribuito a singoli nella definizione delle candidature. È corretto ritenere che il voto eguale è rispettato se una lista è tutta bloccata o tutta suscettibile di scelta. Certo, in una lista tutta bloccata il capolista avrà comunque migliori chances di successo. Ma è sempre possibile in principio che la lista veda eletti tutti, o nessuno. In ogni caso, che il capolista di una lista tutta bloccata consegua il seggio o meno sarà dovuto al voto, e non a un privilegio accordato per legge.

Ancora , si pu ò ritenere lesiv o del v oto libero e u g u a le la possibilità di candidature plurime dei capilista (fino a un massimo di dieci). È del tutto irrazionale il meccanismo che blocca il capolista, e contestualmente determina l’inevitabilità di un’opzione dopo il voto. In tal modo l’elettore è dapprima costretto a votare il capolista insieme alla lista, ed è successivamente privato del rappresentante che è stato chiamato a votare necessariamente. Anche il premio alla sola lista più votata colpisce il voto uguale. Nel caso di una coalizione vincente, l’elettore – pur avendo scelto lo stesso schieramento — si troverà sotto o sovra rappresentato a seconda che abbia votato per il partito maggiore o quello minore.

Infine, si può esprimere un dubbio in radice sulla compatibilità costituzionale del meccanismo premiale. Ad esempio, facciamo l’ipotesi che un sistema maggioritario di collegio come il Mattarellum e un sistema proporzionale di lista con premio di maggioranza come la legge 52/2015 diano – come tecnicamente è possibile – un identico esito in seggi. Quanto all’eguale peso del voto si potrebbe considerare conforme a Costituzione, il primo e non il secondo. Per quale motivo? Perché il primo non correggerebbe in alcun modo la traduzione dei voti in seggi: chi vince nei voti conquista il seggio. Ciascun elettore può incidere sull’esito in pari misura, e ne possiamo trarre che ciascun voto pesa in misura eguale. Il secondo invece introduce una distorsione, aumentando artificiosamente il peso del voto espresso per la lista più votata e corrispondentemente diminuendo il peso del voto espresso per tutti gli altri. Questo effetto è plasticamente descritto laddove la legge 52/2015 definisce un quoziente elettorale di maggioranza e uno di minoranza. Pertanto, un sistema proporzionale con premio di maggioranza è intrinsecamente più sospetto quanto al principio del voto eguale di un maggioritario di collegio, che pure tendenzialmente esprime un favor per la formazione politica vincente.

3.5. La partecipazione democratica.

E si può anche rilevare un dubbio di costituzionalità nella coazione ex lege ad una configurazione non più bipolare ma bipartitica del sistema politico, come elemento difficilmente compatibile con l’art. 49 della Costituzione nella sua interazione con il principio del voto libero e uguale. Coazione che si realizza attribuendo il premio di maggioranza alla singola lista e non più alla coalizione.

Non è infatti possibile negare che le due norme – art. 48 e art. 49 – debbano essere oggetto di una lettura sistematica e sinergica. Il diritto a partecipare è costruito come un diritto dei cittadini ad associarsi in partiti al fine specifico di partecipare con metodo democratico alla politica nazionale. L’art. 49 è dunque in qu esta prospettiv a u na specifica z ione dell’a rt. 1 8 C ost. su lla libertà di associazione, e non può non condividerne la natura di libertà fondamentale, anche per la parte concernente la partecipazione alla politica nazionale. Al tempo stesso, tale partecipazione può aversi in modi diversi, non tutti predeterminati e codificabili. Ma di certo si effettuerà nelle sedi in cui quella politica si determina, attraverso la formulazione, la discussione e l’attuazione degli indirizzi di governo. Quindi, il luogo primario della partecipazione di cui si discute si trova nella assemblea, o nelle assemblee, verso cui il governo è legato da un rapporto fiduciario. I n sintesi, il diritto ad associarsi in partiti è emanazione diretta della libertà di associazione, e l’accesso alle assemblee elettive ne è diretto e necessario strumento. Quindi l’accesso non è più comprimibile di quanto sia il diritto ad associarsi in partiti in sé considerato.

Se questa premessa è vera, anche a tale accesso vanno applicati i principi di necessità e proporzionalità. Il più rigoroso test di costituzionalità non deve dunque essere limitato al diritto di voto in quanto tale, ma anche a quel che segue alla libertà di associarsi in partiti al fine specifico di concorrere a determinare la politica nazionale. A tal fine, consideriamo ora l’obiettivo – costituzionalmente rilevante – della governabilità e dell’efficienza decisionale. Si può anche ammettere che sia in specie perseguito attraverso una semplificazione del sistema politico ed in specie a mezzo di una riduzione del numero delle formazioni politiche in parlamento. Tale è la ragion d’essere della previsione di soglie per l’accesso. L’attribuzione di un premio di maggioranza alla sola lista e non a coalizioni si può intendere come volta nel medesimo senso. Ma si applicano parimenti i principi di necessità e proporzionalità. A prescindere da questi, l’obiettivo di raggiungere una maggiore efficienza decisionale non può essere perseguito con una semplificazione estrema e forzosa del sistema politico, per legge condotto a un sistema bipartitico anziché bipolare. Se l’efficienza decisionale e una misura razionalmente definita di semplificazione si perseguono in altro modo, ed in specie con la individuazione di una soglia, o con un premio di maggioranza, imporre ex lege una evoluzione in chiave bipartitica riferendo il premio alla singola lista si mostra come ulteriore aggravio, non necessario, non proporzionato e quindi incostituzionale.

È ben vero che ad una configurazione semplificata e tendenzialmente bipartitica del sistema politico si potrebbe giungere senza alcuna previsione legislativa, per le scelte delle forze politica. È quel che è accaduto nelle elezioni politiche del 2008, con le scelte fatte dal PD e da Veltroni[41]. Ma una

evoluzione spontanea del sistema politico non può definirsi incostituzionale, dal momento che nessun sistema politico si può ritenere costituzionalmente congelato nel tempo. È proprio la menzione del “metodo democratico” che suggerisce come costituzionalmente compatibili il cambiamento che viene dalle libere scelte del popolo sovrano. Mentre è la costrizione entro rigidi limiti di volontà legislativa maggioritaria, al di là di quanto strettamente richiesto per la governabilità e l’efficienza decisionale, che pone l’antitesi con i principi costituzionali.

4. Effetti collaterali: governi a vocazione minoritaria e Costituzioni cedevoli.

La legge 52/2015 è la traduzione in norma cogente di posizioni da tempo presenti nel dibattito politico e istituzionale. È il popolo che sceglie chi governa, ed anzi elegge il leader di un partito con una sua maggioranza garantita in parlamento, per la durata della legislatura. È una versione rigida della democrazia di mandato, e una sostanziale riscrittura della forma di governo secondo una linea implicita di elezione diretta del premier. L’architettura dei poteri ne viene pesantemente condizionata, soprattutto considerando la sinergia della legge con la riforma costituzionale ancora in discussione[42]. In ogni caso, a questa legge non sopravvive il modello di democrazia parlamentare e rappresentativa posto dalla Costituzione.

Già di per sé questo suggerirebbe il contrasto con i principi posti dalla sentenza 1/2014. Ma ancor più il contrasto si evidenzia considerando che il sistema politico si è allontanato dalla ipotesi bipolare che a lungo è stata assunta come linea evolutiva fisiologica e necessaria. Invece, è emersa una struttura tripolare[43], e non si può oggi escludere una ulteriore evoluzione in senso quadripolare.

Se in un contesto bipolare la disproporzionalità determinata dalla legge è possibile, ma non certa quanto alla eccessiva misura che ne comporta la incostituzionalità, in un contesto multipolare la estrema disproporzionalità è certa e inevitabile. Il premio di maggioranza alla singola lista con ballottaggio senza soglia e la forzatura ex lege verso un bipartitismo ormai lontano dalla realtà del sistema politico comportano inevitabilmente che sia fortemente sovra-rappresentata una minoranza – anche relativamente piccola – che l’artificio legislativo rende invece maggioritaria nei numeri parlamentari. Parallelamente, viene gravemente sotto-rappresentata una maggioranza, che può essere anche molto ampia, degli elettori. Si è scritta una legge che si può senza eccesso definire come fondamento di governi a vocazione sostanzialmente minoritaria.

La sovra-rappresentazione di una minoranza e la garanzia alla stessa di una maggioranza superiore alla metà più uno dei componenti indebolisce poi la rigidità della Costituzione. Viene così colpito uno dei connotati unanimemente ritenuti essenziali dell’assetto costituzionale vigente.

Già con il passaggio al maggioritario del Mattarellum era stata rilevata la opportunità di “mettere in sicurezza” la Costituzione, elevando i quorum necessari per l’approvazione definitiva in misura sufficiente a riassorbire o temperare l’eventuale – non sicura e predeterminata – sovra-rappresentazione derivante dal sistema elettorale. Con la legge 52/2014, invece, il fine di garantire comunque a un singolo partito una maggioranza con certezza superiore a quella assoluta dei componenti è voluto e dichiarato. Il premio di maggioranza di misura variabile serve appunto a questo. Anche considerando la riforma costituzionale in discussione, non si ritrova un equilibrio nella attribuzione anche al Senato non elettivo del potere di revisione. Infatti, l’elezione di secondo grado rende del tutto casuale la effettiva rappresentatività di quella assemblea, soprattutto considerando che essa deriva da sistemi elettorali regionali che sono a loro volta tutti volti a garantire tramite premi le maggioranze di governo, con risultati fortemente disproporzionali per quanto concerne l’aderenza agli equilibri politici reali in ciascuna regione.

Mettere in sicurezza la rigidità della Costituzione sembra non sia stato affatto un punto all’attenzione dei riformatori di oggi. Il fatto che l’art. 138 non sia in alcun modo toccato non deve ingannare. È lo stravolgimento del sistema politico e istituzionale nell’ambito del quale la norma opera che ne dissolve il senso e la funzione. L’intento originario del costituente del 1948 di stabilire in principio la necessità di un ampio consenso sulle regole fondamentali, è in ogni caso svanito. Le conseguenze non sono da poco. Ad esempio, il partito vincitore nella competizione elettorale e blindato nei numeri parlamentari potrà affrontare le questioni più controverse non cercando mediazioni difficili e consensi tra i perdenti, ma più semplicemente apportando alla norma costituzionale qualche utile ritocco mirato. È il crepuscolo per le libertà e i diritti.

[1] Questo lavoro è destinato agli Scritti in onore di Gaetano Silvestri, in corso di pubblicazione. Riflette le analisi da me svolte in numerosi articoli su Il Manifesto dalla presentazione delle prime proposte alla definitiva approvazione della legge 52/2015, e già in parte tradotte nel mio Il tempo della Costituzione, V ed., Aracne, Roma, 2014, part. Cap. IV. Riprende altresì le posizioni da me esposte nelle Indagini conoscitive svolte presso la I Commissione del Senato della Repubblica nei giorni 18-25 novembre 2014, e la I Commissione della Camera dei deputati nei giorni 14-15 aprile 2015.

[2] Per commenti e analisi sulla legge 52/2015 e sulle più recenti vicende che hanno preceduto l’approvazione v. tra gli altri, oltre agli Autori citati infra e agli esperti che hanno preso parte alle Indagini conoscitive richiamate supra, Balduzzi P., Chi guadagna e chi perde con l’Italicum, ibidem (7 maggio 2015);; Id., Come sarà la Camera eletta con l’Italicum, in Lavoce.info (12 maggio 2015);; Canale G., “Italicum”: in viaggio verso Itaca, sognando la California (una prima lettura critica della legge 52/2015) in Consulta online (27 maggio 2015);; Ceccanti S., Italicum: 16 risposte alle 16 domande de il Sole 24 ore, in

Huffington Post (3 maggio 2015);; Chiaramonte A., The unfinished story of electoral reforms in Italy, in Contemporary Italian Politics, 1/ 2015;; Ciriaco T, Intervista a Augusto Barbera, La riforma è il contrario del presidenzialismo, in La Repubblica, 28 aprile 2015;; D’Alimonte R., La strada lunga del maggioritario, in Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2015;; De Fiores C., La riforma della legge elettorale, in costituzionalismo.it (18 maggio 2015);; Franco M., Un vero spartiacque politico, in Corriere della Sera, 5 maggio 2015;; Frosini T.E., Rappresentanza + Governabilità = Italicum, in www.confronticostituzionali.eu (12 maggio 2015);; Galli C., Metamorfosi. Sulla nuova legge elettorale, in centroriformastato.it (18 maggio 2015);; Ignazi P., Tre questioni sull’Italicum, in La Repubblica, 14 maggio 2015;; Onida V., Renzi viola le regole del gioco. Democrazia a rischio, Intervista in linkiesta.it (28 aprile 2015);; Id., Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza, Lettera al Corriere della Sera, 10 marzo 2015;; Pasquino G., Quel premier debordante, in Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2015;; Rauti A., L’italicum fra “liturgia” elettorale e prove di bipartitismo, in Rivista AIC, n. 2/ 2015 (12 giugno 2015);; Saitta A., La forma di governo in Italia tra revisione costituzionale e nuova legge elettorale, in Rivista AIC, 2/2015;; Scalfari E., Senza appoggio popolare la sinistra diventa un inutile club, in La Repubblica, 12 aprile 2015;; Schmit H., Eppur è incostituzionale, in Consulta online (27 maggio 2015);; Tito C., Una certezza dalle urne, in La Repubblica, 5 maggio 2015;; Tondi della Mura V., Del Porcellum “camuffato”, in www.confronticostituzionali.eu (12 maggio 2015);; Tondi della Mura V., La fiducia e l’Italicum: dal “primato della politica” al “primato dei meccanismi elettorali”, in Osservatorio AIC, maggio 2015;; Trucco L., Il sistema elettorale “italicum.bis” alla prova della sentenza della corte costituzionale n. 1 del 2014 (atto secondo), in Consulta online (27 aprile 2015);; Volpi M., Italicum: un sistema anomalo e antidemocratico, in Costituzionalismo.it (5 giugno 2015);; Id., Le riforme e la forma di governo, Relazione al III Seminario dell’Associazione Italiana Costituzionalisti “I Costituzionalisti e le Riforme”, Bologna, 11 giugno 2015.

[3] I. Civ., ord. 17 maggio 2013, n. 12060.

[4] Con la sent. 32/1993, che dichiarò ammissibile il quesito referendario proposto avverso la legge elettorale del Senato. Il referendum vide poi una ampia partecipazione e la larga vittoria dei sì, e la legge elettorale fu modellata per entrambe le Camere sulla normativa di risulta. V. sul punto il discorso programmatico del Presidente del consiglio Ciampi alla Camera dei deputati il 6 maggio 1993: Camera dei deputati, XI leg., 6 mag. 1993, p. 13158 La Corte aveva in precedenza dichiarato inammissibile un analogo quesito con la sent. 47/1991.

[5] Ecco il testo del comunicato: ”La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a

ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.”

Per un commento Villone, La Corte sceglie la via maestra, e I paletti della Corte segnano la strada, in il Manifesto, risp. 5 e 13 dicembre 2013;; Salazar, Quel che resta del Porcellum: brevi riflessioni sul comunicato della Corte costituzionale, in Confronti costituzionali, 9 dicembre 2013.

[6] In sede di giudizio di ammissibilità di referendum la stessa Corte aveva già espresso dubbi sul premio di maggioranza (v. in specie, 13/2012, e già 15/2008 e 16/2008).

[7] Camera dei deputati, XVII leg., 11 dicembre 2013.

[8] Corte cost., sent. 1/2014.

[9] Va menzionato, in proposito, l’art. 13 della proposta di riforma costituzionale, attualmente in Senato ancora in prima deliberazione (AS 1429 – B), recante l’aggiunta di un comma all’art. 73 Cost.: “Le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall’approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata». Si tratta dunque di un giudizio di costituzionalità preventivo sulla legge elettorale, in deroga al modello generale adottato nella Costituzione italiana del controllo di costituzionalità ex post. Segue un comma aggiuntivo nell’art. 134: “«La Corte costituzionale giudica altresì della legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell’articolo 73, secondo comma».

[10] Il test utilizzato viene così definito dalla Corte :” Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti,

in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (punto 3.1 del Considerato in diritto).

[11] In particolare la Corte ricorda che “In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare”.

[12] Il dato concreto è inoppugnabile: la lista vincente con il 27% dei voti ha conseguito il 60% dei seggi, e le liste con il 72,80 dei voti il restante 40%.

[13] Va peraltro ricordato che nella sent. 1/2014 la Corte afferma che la rappresentatività assume per le assemblee parlamentari una centralità maggiore che per le assemblee regionali e locali.

[14] In specie, la Corte afferma che «nel dare il proprio voto al sindaco, la manifestazione di volontà dell’elettore è espressamente legata alle liste che lo sostengono e ciò giustifica l’effetto di trascinamento che il voto al sindaco determina sulle liste a lui collegate con l’attribuzione del premio del 60 per cento dei seggi. Il meccanismo di attribuzione del premio e la conseguente alterazione della rappresentanza non sono pertanto irragionevoli, ma sono funzionali alle esigenze di governabilità dell’ente locale, che nel turno di ballottaggio vengono più fortemente in rilievo».

[15] III Civ, ord. 1025/14, 9 maggio 2014.
[16] https://www.bundesverfassungsgericht.de/pressemitteilungen/bvg14-

014en.html;; https://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/es20140226_2bve000213.html

[17] Senato della Repubblica, XVII leg., AS 1360-A, 13 febbraio 2009, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00395692.pdf .

[18] La inadeguatezza del framework elettorale europeo come elemento di
debolezza strutturale dell’Unione è sottolineata in Committee on Constitutional
Affairs, Hübner D.H. and Leinen J. Rapp., Working Document on The Reform
of the Electoral L aw of the European Union, http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2014_2019/documents/afco/dv/dt_1060017_/dt_1060017_en.pdf. In specie, il si argomenta che “the current degree of heterogeneity in national

electoral rules conflicts with the notion of European citizenship and the principle of equality”.

[19] Con l’aggravante che attraverso la riforma in parallelo della legge elettorale

e della Costituzione si vuole simultaneamente ridurre sia la rappresentatività che il peso politico-istituzionale del parlamento: v. il mio Il tempo della Costituzione, cit., Sez. II e III, e le Conclusioni.

[20] Corte cost. sent. 110/2015.
[21] Renzi non arretra su Fassina. E accelera sulla legge elettorale, in Corriere della sera, 6 gen. 2014, pag. 2.

[22] http://www.lastampa.it/2014/01/18/italia/politica/renziberlusconi- incontro-a-casa-del-pd-d1fGe41POpjaGmIB8Mu5TL/pagina.html?exp=1;; Patto del Nazareno Renzi-Berlusconi: legge elettorale e via il Senato. Il segretario: mi gioco il tutto per tutto, in Repubblica.it., 19 gennaio 2014.

[23] Legge elettorale, da direzione Pd ok a Renzi. “Basta subalternità a Berlusconi”, in ilfattoquotidiano.it, 20 gennaio 2014.

[24] La proposta viene illustrata dall’on. Fiano (PD) nella seduta del 21 gennaio
della Commissione affari costituzionali della Camera: http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2014/01/21/leg.17.bol0161.data20140121.pdf. Viene tradotta tal quale in un testo unificato proposto dal relatore on Sisto già
nella seduta del 22 gennaio: http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2014/01/21/leg.17.bol0161.data20140121.pdf

[25] Per l’elenco degli emendamenti preclusi http://www.senato.it/leg/17/BGT/Testi/Allegati/00000184.pdf

[26] Da qui la tipica formula: «sostituire le parole A, B, C con le parole D, E, F».

[27] Un esempio. Primo emendamento: «è rinviato l’inizio del procedimento per…». Secondo: «è rinviato l’inizio dell’anno scolastico…». Terzo: «è rinviato l’inizio della stagione venatoria…». Non sarebbe una corretta applicazione del canguro mettere in votazione per il primo le parole «è rinviato l’inizio», e assumere che il voto negativo travolga anche gli altri due. Ovviamente, non si potrebbe desumere dal rigetto che l’assemblea sia contraria ad ogni rinvio, di qualsiasi oggetto o finalità. Ugualmente scorretto sarebbe mettere in votazione il rinvio come principio unificante, e trarre dal voto negativo il rigetto.

[28] Analoga vicenda si era già svolta in Senato, con la sostituzione nella Commissione affari costituzionali dei senatori Mineo, Mauro e Chiti.

[29] Possibilità espressamente prevista dai regolamenti: v. art. 19.3 reg. Camera, e 31.2 reg. Senato.

[30] Il gruppo PD della Camera dei deputati ha uno “Statuto” approvato per la
XVII legislatura il 25 marzo 2013: http://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/file/documenti/statuto_pd.pdf. Per l’art. 1.4 “4. Il pluralismo è elemento fondante del Gruppo e suo principio
costitutivo. Esso si basa sul rispetto e la valorizzazione del contributo personale
di ogni parlamentare alla vita del Gruppo, nel quadro di una leale

collaborazione e nel rispetto delle norme del presente Statuto”. Per l’art. 2.2 “Ogni aderente al Gruppo nello svolgimento della sua attività parlamentare si attiene agli indirizzi deliberati dagli organi del Gruppo, che sono vincolanti”.

[31] Camera dei deputati, XVII leg., 31.01.2014, p. 9-11.
[32] Camera dei deputati, VIII leg., 26.08.1980, p. 17291. Per un’argomentata

opinione contraria di Rodotà ivi, p. 17293.

[33] Camera dei deputati, I leg. 17 gennaio 1953, p. 45485 e 45488: “Egregi colleghi, qualunque sia il vostro giudizio sulla legge, potete chiamarla come volete voi, ma non potete negare questo: che la decisione viene presa a maggioranza assoluta, ci vuole la maggioranza per lo schieramento, e che solo lo schieramento che raggiunge la maggioranza assoluta avrà una maggiorazione dei propri seggi … abbiamo introdotto una maggioranza ridotta in favore dello schieramento che nella nazione avrà raggiunto la maggioranza assoluta dei voti …”. http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed1074/sed1074.pdf.

[34] Senato della Repubblica, I leg., 8 marzo 1953, p. 3923: “ … la legge, nella sua applicazione, dipende infine dal voto popolare, giacché sarà la maggioranza degli elettori che deciderà se il premio funzionale verrà raggiunto o meno e in qual misura esso risulti …”. http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487882.pdf

[35] Ibidem.
[36] Senato della Repubblica, I leg., 10 marzo 1953, p. 39351,

http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487886.pdf.
[37] Per considerazioni ulteriori v. il mio Italicum. Un danno è per sempre, in

Il Manifesto, 6 maggio 2015, p. 1.

[38] Bilancia F., “Ri-porcellum” e giudicato costituzionale, in questa Rivista, 24 gennaio 2014, in specie par. 5 e 6;; Villone M., La bilancia della Corte;; La Consulta disattesa; Una scommessa pericolosa, risp. in Il Manifesto, 15 gennaio 2014, pag. 1, 21 gennaio 2014, pag. 1, 31 30 gennaio 2014, pag. 1.

[39] L’argomento emerge nell’Indagine conoscitiva svolta presso la I Commissione del senato, 18-25 novembre 2014.

[40] La definisce un colpo di Stato elettorale, sottolineando in specie il rilevo del principio di eguaglianza in materia, Ferrara G., Contro i colpi di Stato elettorali, in Costituzionalismo.it (27 gennaio 2014).

[41] V. il discorso con cui Veltroni nell’Aula della Camera il 14 maggio 2008 ammette la sconfitta subita, ma esalta l’obiettivo, cui nella sua opinione il PD

aveva decisivamente contribuito, di ristrutturare i sistema politico-istituzionale:
“Se oggi questo Parlamento vede sei gruppi, come nel resto d’Europa, e non più
i quattordici dell’ultima legislatura, e non più i trentanove partiti ai quali ha
fatto riferimento ieri l’onorevole Fassino, se sono finite le coalizioni assembleari
messe insieme solo dalla contrapposizione nei confronti dell’avversario, ciò – lo
hanno riconosciuto tutti – è perché il Partito Democratico ha avuto per primo il
coraggio di compiere scelte difficili e innovative…” http://leg16.camera.it/410? idSeduta=0005&tipo=stenografico#sed0005.stenografico.tit00020.sub00020.int00390%20- %20sed0005.stenografico.tit00020.sub00020.int00390. Si potrà anche

ricordare il tentativo referendario del 21 giugno 2009, volto a espungere le coalizioni dall’attribuzione del premio di maggioranza. Referendum rimasto lontanissimo dal quorum, con la partecipazione di meno del 24% degli aventi diritto: Ministero interno, Archivio elezioni, Risultati referendum 21 giugno 2009.

[42] XVII leg., AS 1429-B.

[43] Sostanzialmente confermata anche nell’ultimo turno elettorale del 31 maggio 2015, che vede centrosinistra, centrodestra e M5S come elementi costitutivi di un sistema privo di una forza politica egemone e in grado di tendere a una stabile prevalenza.

Fondatore e Direttore dal 2003 al 2014 Gianni FERRARA

Direzione

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Registrazione presso il Tribunale di Roma
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Redazione

Alessandra ALGOSTINO, Marco BETZU, Gaetano BUCCI, Roberto CHERCHI, Giov anni COINU, Andrea DEFFENU, Carlo FERRAJOLI, Luca GENINATTI, Marco GIAMPIERETTI, Antonio IANNUZZI, Valeria MARCENO’, Paola MARSOCCI, Ilenia MASSA PINTO, Elisa OLIVITO, Luciano PATRUNO, Laura RONCHETTI, Ilenia RUGGIU, Sara SPUNTARELLI, Chiara TRIPODINA

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