La crisi pandemica del Covid-19 ha imposto all’ordine del giorno un dibattito sul rapporto tra scienza e politica. Si chiedono in molti che cosa abbiano fatto mai gli «esperti» per prevedere e evitare questa crisi: sembra che i virologi, gli epidemiologi, i biologi (la competenza specifica viene spesso e volentieri confusa) si siano fatti trovare completamente impreparati da questa crisi, un po’ come gli economisti con la crisi del 2008 o i geologi con i vari terremoti che sono recentemente avvenuti. L’opinione pubblica, guidata da media confusionari quando non semplicemente non all’altezza, assiste sempre più confusa a questa incapacità della scienza di fornire risposte precise e affidabili; i riflettori che si sono accesi sulla ricerca stanno mettendo luce su una situazione che sembra vieppù imbarazzante.
Mauro Dorato, Hykel Hosni e Angelo Vulpiani, in un articolo su Il Manifesto (ripreso anche su Roars), ricordano il ruolo dell’incertezza nell’indagine scientifica e della difficoltà di comunicare questo concetto al grande pubblico, concludendo che “Purtroppo, le decisioni politicamente rilevanti sono spesso permeate di incertezza…. In queste condizioni, soprattutto quando non c’è molto tempo per decidere, i politici hanno l’obbligo di informarsi raccogliendo le migliori ipotesi scientifiche disponibili le quali, quando le corrispondenti teorie scientifiche non sono ancora ben corroborate, saranno necessariamente incomplete, divergenti, e provvisorie. Si tratta allora di elaborarle e valutarle con la massima prudenza alla luce del loro mandato. E prendersi la responsabilità delle scelte fatte, e non sostenere che la decisione non sia di natura politica, ma meramente dettata dalla scienza.”
Per comprendere il problema delle previsioni bisogna iniziare facendo un passo indietro: ne ho discusso nel mio libro “Rischio e previsioni” al quale rimando per una analisi più completa. Qui vorrei prima riassumere il problema delle previsioni “ad uso sociale” e poi commentare il problema connesso all’epidemia del Covid. Dunque, il lettore mi perdoni la lunga autocitazione ma ho riportato un passo rilevante per l’argomento che vorrei affrontare in questo post per spiegare le connessioni tra scienza e politica e tra scienza e media che sono ora all’attenzione generale. Soprattutto cercherò di mettere in luce l’origine della criticità della gestione della crisi epidemica attuale.
Le previsioni hanno dunque un ruolo fondante per la scienza e per lo stesso metodo scientifico. Ad esempio, la previsione della posizione dei pianeti, è stata una verifica dell’interpretazione della natura della forza di gravità; le previsioni del tempo domani, per fare un altro esempio noto a tutti, non hanno lo stesso ruolo. Le previsioni della tradizione scientifica si distinguono dalle previsioni mirate a guidare decisioni, e quindi intese come servizio alla collettività: la confusione tra questi due piani può minare la corretta comunicazione tra scienza, politica e società e rendere difficile la comprensione dell’attendibilità e dei limiti delle previsioni. Negli ultimi anni è sorto così un nuovo tipo di scienza delle previsioni, motivato in parte dalle esigenze dei responsabili politici e in parte dalla disponibilità di nuove tecnologie e dei big data. Le moderne tecnologie consentono, infatti, il monitoraggio costante di fenomeni atmosferici, geologici o sociali, con la speranza di prevedere catastrofi naturali e limitarne gli effetti con piani di prevenzione. Analogamente, si sorveglia la diffusione di malattie ed epidemie per decidere l’opportunità di vaccinazioni di massa o di altre forme di prevenzione.
Assistiamo dunque a un investimento crescente, stimato nell’ordine di miliardi di dollari l’anno, per sviluppare strumenti e tecnologie in grado di prevedere, al meglio possibile, eventi naturali e sociali. La nuova disciplina delle previsioni, con implicazioni a carattere sociale, tenta di prevedere il comportamento sia di fenomeni ordinari sia di complessi fenomeni ambientali, come i cambiamenti climatici, i terremoti e gli eventi meteorologici estremi, ma anche di alcuni fenomeni sociali ed economici, come la diffusione di malattie, lo sviluppo delle popolazioni, la sostenibilità dei sistemi pensionistici, ecc. Tuttavia, utilizzare queste previsioni, per quanto tecnicamente solide, allo scopo di sviluppare delle politiche non è affatto semplice.
Questa situazione richiede che si chiariscano il concetto di previsione e la sua declinazione in ambiti completamente diversi. Per fare un esempio, a differenza dei casi che abbiamo considerato finora, le previsioni del tempo non sono ritenute essere una verifica delle equazioni della fluidodinamica e le previsioni dei terremoti non sono un test per le leggi dell’elasticità, al contrario della previsione della posizione dei pianeti, che è stata una verifica dell’interpretazione della natura della forza di gravità.
Questo tipo di previsioni ha infatti un ruolo differente: quello di garantire una base razionale alle decisioni in ambito di politiche globali o locali, protezione civile, ecc. In pratica si dà per scontato, data l’evidenza accumulata a loro supporto, che, ad esempio, le leggi della fluidodinamica che regolano l’atmosfera, o quelle dell’elasticità per i terremoti, siano corrette, e dunque se ne calcolano gli effetti sui sistemi reali. Come vedremo più avanti, però, questo passaggio non è per nulla scontato, a causa di complicazioni tecniche e di effetti caotici nel primo caso, e principalmente per l’impossibilità di eseguire osservazioni dirette del sistema nel secondo caso. D’altra parte, è chiaro che se i modelli usati per eseguire, ad esempio, le previsioni meteo sbagliassero continuativamente in maniera clamorosa, prevedendo tempo splendido quando invece arriva un uragano, o una tempesta di neve al posto di una calda giornata di sole estivo, sorgerebbe qualche serio dubbio sui fondamentali del campo. Ovviamente questo non accade e le previsioni meteo a volte sbagliano, sì, ma senza confondere il bianco col nero. Lo stesso avviene per i terremoti: i sismologi identificano le zone sismiche, anche se, come vedremo più avanti, non sono in grado di prevedere il momento e il luogo esatti dell’accadimento del prossimo terremoto; ma le fondamenta della geofisica sarebbero seriamente in crisi se un terremoto di enorme intensità si verificasse in una zona ben lontana dai confini delle placche tettoniche, che sono le zone critiche rispetto alla sismicità. Anche in questo caso, un evento del genere non si è mai verificato.
Una seria politica di prevenzione, mirata a limitare i danni materiali e sociali di eventi catastrofici, comporta disagi e costi per la collettività: di qui l’importanza di previsioni attendibili. Ad esempio, si deve decidere se evacuare o no una città per l’arrivo di un uragano: entrambe le scelte sono costose e rischiose e la decisione deve essere supportata da previsioni che siano il più possibile affidabili. La difficoltà principale di questo tipo di previsioni risiede nel doversi confrontare con sistemi e fenomeni complessi, fortemente interconnessi e in interazione con l’ambiente circostante. Inoltre, nella maggior parte dei casi, si è interessati alla previsione di eventi localizzati nel tempo e nello spazio che non sono riproducibili a piacimento (temporali, uragani, terremoti, ecc.)
A differenza degli esperimenti scientifici di laboratorio, in cui si cerca di isolare un sistema in modo da poter identificare le relazioni di causa-effetto, i sistemi reali sono complessi e aperti e pertanto risentono, anche nella situazione più favorevole, delle incertezze collegate all’approssimazione del modello e agli errori sulla conoscenza delle condizioni iniziali. Nel caso in cui il fenomeno studiato è regolato da leggi deterministiche conosciute, è possibile tenere conto di tutte le fonti d’errore ripetendo la previsione più volte con un’opportuna variazione delle condizioni iniziali e/o del tipo di approssimazioni usate nel modello numerico. In tal modo è possibile stimare anche la probabilità, nell’ambito di un particolare modello teorico, che un determinato evento accada. Come vedremo, questa tecnica è utilizzata per le previsioni meteorologiche.
Tuttavia, in molti casi la stima della probabilità della localizzazione nello spazio e nel tempo di un evento è poco affidabile, sia per l’elevato livello di approssimazione con cui conosciamo le leggi specifiche che regolano un certo fenomeno, sia per l’impossibilità pratica di conoscere le condizioni iniziali. È questo il caso dei terremoti, che dipendono da condizioni di stress che accadono a chilometri e chilometri sotto la crosta terrestre, e pertanto sono inaccessibili a misurazioni sistematiche. Un insieme ben consolidato di conoscenze scientifiche, dunque, non si traduce, inevitabilmente, in previsioni prive d’incertezza a causa – nella migliore delle ipotesi – dei limiti intrinseci ai fenomeni d’interesse. Questi limiti non sempre sono compresi o correttamente trasmessi a chi deve trasformare le previsioni in decisioni o protocolli di sicurezza per le popolazioni. Il valore delle previsioni scientifiche per quel che riguarda il loro utilizzo nelle politiche pubbliche è perciò un complicato miscuglio di fattori scientifici, politici e sociali. In particolare, ogni previsione contiene un elemento irriducibile d’incertezza, le cui implicazioni spesso non sono prese in considerazione quando la previsione riguarda fenomeni d’interesse pubblico e implica una scelta piuttosto che un’altra per i decisori politici. In genere, vi possono essere due errori: un evento che è previsto non avviene (falso allarme), oppure un evento avviene ma non era stato previsto (sorpresa). Il problema è che cercando di ridurre il primo errore si aumenta il secondo, e viceversa: il punto chiave è cercare di definire l’incertezza della previsione e di conseguenza la soglia d’incertezza tollerabile per la decisione politica. La quantificazione dell’incertezza di una previsione è molto difficile per eventi eccezionali, come un uragano, mentre è più semplice per le previsioni meteorologiche in condizioni ordinarie.
Una parte di questa incertezza può essere ridotta attraverso la comprensione dei processi fisici che sono alla base dei fenomeni in questione, o attraverso una raccolta di dati più precisa. In ogni caso, la valutazione della quantità d’incertezza rimane un compito cruciale, di tipo discrezionale, che può essere svolto solo da scienziati esperti. Questi ultimi dovranno avere anche l’onestà intellettuale di ammettere la loro parziale ignoranza – insita nella natura incompleta delle conoscenze scientifiche. Ciò dovrà però essere ben compreso dal decisore politico, dai mezzi d’informazione e dall’opinione pubblica, e per questo è necessaria una discussione interdisciplinare che coinvolga non solo gli specialisti. Illustreremo più oltre la difficile relazione tra scienza, politica e opinione pubblica, così com’è filtrata dai mezzi di comunicazione di massa, in rapporto al problema delle previsioni.
Per quanto concerne la crisi epidemica il problema non va posto nei termini di “cosa abbiano fatto gli esperti per prevedere questa crisi”. L’outbreak dell’epidemia ha delle similitudini con l’avvenimento di un terremoto, dove non abbiamo accesso allo stato del sistema e per questo non è possibile fare una previsione puntuale, ma dove è possibile monitorare cosa succede e adottare delle politiche di prevenzione adeguate. Ad esempio, il servizio di monitoraggio dei terremoti dell’Istituto Nazionale di Geofisica, che qualche deputato buontempone ha anche proposto di smantellare per non aver previsto il terremoto dell’Aquila, è preposto proprio a fare questo lavoro: e lo fa in maniera egregia.
In altre parole, che si potesse scatenare una epidemia a livello globale del tipo Covid-19 e che questo evento avesse una probabilità non trascurabile era noto da alcuni lustri. Questo per una serie di fattori, dall’aumento della promiscuità tra uomo e specie selvatiche allo sviluppo di un mondo interconnesso globale cui abbiamo assistito nell’ultimo ventennio. Tuttavia, la “previsione” di quando e dove una epidemia del genere sarebbe scoppiata non era (né sarà mai) possibile perché non si avevano, non si hanno e non si avranno a disposizione dati rilevanti per prevedere un avvenimento del genere. Un uragano si fotografa con i satelliti, la trasmissione di un virus dall’ animale all’uomo no, come non si osserva il movimento delle faglie tettoniche.
Quello che invece è possibile fare è intervenire in maniera pronta quando l’epidemia ha iniziato la sua diffusione perché è solo in quel momento che è possibile avere dei dati sul suo sviluppo. Ed è questo il campo dell’epidemiologia computazionale, in cui si sviluppano modelli di diffusione su reti complessi e si riescono a fare delle previsioni se si hanno a disposizione i big data che riguardano il numero dei malati, la mobilità delle persone, ecc. In questo senso le previsioni hanno un carattere simile a quelle della meteorologia in cui si osserva il sistema ad un certo tempo e si integrano le equazioni della fluido-dinamica e della termodinamica appropriatamente semplificate per calcolare il tempo domani. Il connubio tra potenza di calcolo (supercomputers) e big data gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi.
Il problema tecnico nel calcolo della diffusione del virus riguarda la dipendenza sensibile a condizioni microscopiche e l’estrema eterogeneità nella sua propagazione: spesso invece si tende a fare una analisi complessiva di un fenomeno che ha modalità completamente diverse nello spazio e nel tempo suscettibili a grandi cambiamenti per effetto di piccole perturbazioni, come ad esempio se giocare o no una partita di calcio, chiudere o meno un ospedale ecc. Questa caoticità intrinseca nel processo di diffusione complica molto le previsioni dell’epidemia, soprattutto quando la diffusione è lungi dall’essere uniforme, anche quando si hanno a disposizione big data, potenza di calcolo e modelli matematici di progazione molto sofisticati.
Ovviamente la funzione delle previsioni nel caso della propagazione di una epidemia è quello di aiutare il decisore politico ad effettuare le scelte più appropriate. Non si può evitare la crisi pandemica ma si può evitare che abbia effetti disastrosi con interventi, a priori e a posteriori, adeguati dato che trattandosi di un fenomeno anche sociale e non solo naturale è possibile cambiarne le traiettorie con politiche opportune.
Dunque si tratta di sviluppare invece un sistema di prevenzione e di supporto che aiuti al momento opportuno a fronteggiare una epidemia. Se nel nostro paese non esiste un centro di epidemiologia computazionale come quello che dirigono Alessandro Vespignani a Boston e Vittoria Coluzza a Parigi (due italiani laureati in fisica a Roma, curiosa coincidenza, chissà perchè, forse bisogna chiederlo agli stessi economisti che per un ventennio hanno lavorato allo smantellamento del nostro sistema universitario) fino a qualche anno fa esisteva il Centro nazionale di epidemiologia e sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità, che però è stato smantellato nel 2016 (perché? da chi? motivi di spending review? chissà….) lasciando il paese scoperto e senza mezzi adeguati a fronteggiare la diffusione di un virus così virulento (ma anche di qualsiasi altro virus!).
Inoltre, è bene sottolineare (di nuovo!) che la mancata previsione della crisi economica nulla ha a che fare con la mancata previsione della pandemia attuale o con quella di un terremoto. Ad un certo tipo di economisti piace molto nascondersi dietro questa scusa, ma la situazione è molto diversa: in economia le “variabili” che si possono osservare sono tante, i big data enormi e soprattutto a livello macroeconomico, quello che avviene è anche sotto gli occhi di tutti; basta saper guardare quello che succede senza il filtro deformante dell’ideologia (o dell’interesse…).
Piuttosto prendiamo tristemente atto di alcuni “tra gli economisti italiani più influenti nel mondo” dell’ovviamente prestigiosissimo Einaudi Institute for Economics and Finance (è noto che l’eccellenza parli solo inglese) che, sfidando vette inesplorate di senso del ridicolo, hanno pubblicato una ricerca, strombazzata dalle prime pagine di tutti i quotidiani, proprio in concomitanza del DPCM “Cura Italia” del 30 marzo, in cui c’è una esilarante tabellina sulla “fine della pandemia nelle aree regionali“. Le “previsioni attendibili” di “fine pandemia” per le regioni (“Dates when the Covid-19 pandemic is predicted to end”) sono tutte sbagliate, dalla prima all’ultima. Pare che la famosa task force sulle fake news, che tanto preoccupano la politica (e gli editori) nostrani, stia facendo una inflessibile indagine: noi rimaniamo in attesa dei risultati.
Tuttavia, e qui veniamo al tema conclusivo di questo lungo intervento, non si può non notare che il rapporto tra scienza e media, cioè la comunicazione della scienza da parte degli stessi scienziati, al di là di poche e meritevoli eccezioni, è stato piuttosto catastrofico. Se da una parte i riflettori dell’attenzione dell’opinione pubblica si sono finalmente focalizzati sull’importanza della ricerca scientifica, e questo è un bene perché ha dato di nuovo prestigio ad un settore che è stato più che bistrattato negli ultimi anni, dall’altra parte abbiamo visto davvero troppi colleghi che per avere cinque minuti di visibilità hanno dimenticato la regola d’oro di uno scienziato: quando non si sa qualcosa, ad una domanda che esce fuori dal proprio ambito tecnico di conoscenza si risponde con un bel “non lo so” invece di improvvisare risposte, a seconda dei casi, posticce, arroganti, superficiali, stupide e sbagliate che hanno confuso e disorientato non poco l’opinione pubblica e che, purtroppo, hanno dato una impressione molto negativa di tutto il processo scientifico e soprattutto una idea completamente errata di come procede il dibattito tra punti di vista diversi all’interno della dialettica scientifica. Però bisogna anche sottolineare che la responsabilità è anche del fatto che il grande pubblico non conosce la dialettica scientifica, non essendone mai stato esposto e non avendola imparata a scuola, e non è abituato ad osservare un ragionamento analitico sui media tradizionali e per questo tende a identificare il guru di turno per prendere poi per oro colato qualsiasi cosa egli dica: soluzione tanto semplice quanto sbagliata.