SE UNA VIA ANCORA RESTA
Sommario
A chi già lo sa p. 1
I
Le tre streghe sorelle p. 2
Di battaglie vinte – e perse p. 3
Un altro rating: DD – doppia D p. 9
II
Vista sui piedi e un po’ all’indietro – e zone cieche p. 13
E scheletri di dinosauri p. 17
III
Il potenziale e il possibile p. 22
Eteronomia e autonomia p. 23
Fuori e contro, contro e fuori p. 26
La democrazia p. 27
La via emersa – benché immersa p. 29
Esplicazioni e approfondimenti
[1] Intima essenza p. 33
[2] Piena sconfitta nella completa vittoria p. 35
[3] Populismo p. 38
[4] Fallimento della specie umana p. 38
[5] Universalismo, “religionismo”, “occidentalismo” p. 40
[6] In Italia p. 43
[7] Perché la democrazia «in senso proprio» … sarebbe impossibile p. 47
[8] Riporre alle spalle p. 49
Firenze, novembre 2012
A chi già lo sa
Il disastro in cui si affonda è ancora piú profondo di come si presenta nei fatti, evidenti e sempre piú emergenti: investe tutti i campi della realtà e dell’esistenza, azzerando il passato, devastando il presente, ipotecando il futuro – e accelera. E nel “panorama” esistente non se ne scorge nessuna effettiva via di uscita, al di là dell’individuazione di questa o quella “questione” da “risolvere” – che, se è davvero “centrale”, non è solubile nelle condizioni date (di consapevolezza, oltre che di contesto); se è “laterale”, non cambia la sostanza delle “cose” -, e dell’estensione di proteste e rivendicazioni, lotte e manifestazioni, che, tuttavia, ripercorrono quanto già fatto, e non hanno esiti rilevanti.
Disastro che si può vedere bene da, e in, un paese come l’Italia, ancora “intermedio” fra, da un lato, le aree disastrate, sconvolte e insanguinate (come gran parte dell’Africa e il non lontano Vicino oriente) o in piú avanzata devastazione (come la Grecia), e, dall’altro, quelle in cui sono situate le centrali (statuali e capitalistiche) delle potenze – ancora “intermedio” (2012), ma il nostro paese non sarà tale a lungo, continuando nell’ulteriore caduta.
Disastro che non si può accettare, né criticare invano – a parole e nei fatti: rimanervi dentro è suicida, le contraddizioni al suo interno sono insolubili. Vi può essere solo la «lotta a morte» (in altro senso di quella hegeliana «delle coscienze). L’alternativa … non c’è, se non quella di accogliere, rassegnandosi o protestando, la condizione di sudditi, avviati ora, o preparati per domani, come vitelli al macello – e chi ritenga questa un’esagerazione, è già “precotto” nella sudditanza.
Il testo che segue, in cui si è cercato di sintetizzare, e raffigurare, la situazione complessiva, non è breve, con apparato di note – per non appesantire lo scritto, a cui sono però organiche – e di glosse in appendice. Il che già urta con l’attitudine sempre piú diffusa a non leggere (e a non saper leggere, al di là di “riconoscere” lettere, parole e frasi), a limitarsi a slogans semplificati-semplificanti, a preferire foto, e meglio video (che ormai circolano su tutto) – pubblicità e tv docent et imperant, nonché Internet. Pertanto, non ci si illude sulla ricezione a livello piú vasto, e nemmeno della maggior parte dei vari “sinistri”, pur (detti) «estremi», poiché il gruppo di appartenenza e l’“impianto” di referenza, con i “ganci” che implicano (che vengono prima e vanno oltre quel dato “discorso”, piú o meno “concettoso”), l’ostacolano. Insomma, è scontato il muro delle tante convinzioni che avvincono all’esistente – e «le convinzioni sono peggiori delle menzogne», perché queste ultime possono essere confutate, le convinzioni no (rimando nietzschiano). Chi è convinto, può mutare, sí, ma solo in relazione a un’altra tendenza in sviluppo, a cui non ha dato vita. Quindi, per l’apertura di un possibile processo, servono a poco anche dibattiti e confronti (pur detti «democratici») con quanti sono convintamente comunque immersi, in varie forme, pur “critiche”, in “ciò che c’è”.
Come inizio, per esperire se sia possibile la ricezione del processo che qui si propone di aprire, ci si può solo potenzialmente rivolgere (oltre a quanti hanno seguito e collaborato all’elaborazione che ha condotto al presente testo), a chi … già lo sa, e quindi lo può imparare, perché «si impara solo ciò che si sa» (per dirla con Nietzsche) – il che può apparire paradossale, ma basta guardare le “cose” in divenire per rendersi conto che si impara soltanto ciò che si può sapere: altrimenti, come si potrebbe imparare quanto (per una serie di determinazioni) non ci riesce di sapere?
A chi lo sa: chi ha già pensato o intuito in merito, o almeno avvertito, sentito “qualcosa” in proposito – e, di conseguenza, ne può trarre qualche elemento, e considerare l’apertura che si indica.
In questi termini, il presente testo è affidato alle linee di comunicazione possibili ed eventuali. Per il resto, habent sua fata libellis: proprio cosí, tutti gli scritti hanno una loro sorte, e questo non fa eccezione – sorte che è segnata dalla ricezione che incontrano[1]. E dunque, sono del tutto da vederne gli esiti – e da prenderne atto, quali che siano.
I
Le tre streghe sorelle
Quando ci ritroviamo sorelle?
Quando la battaglia sarà vinta e persa.
Il bello è brutto e il brutto è bello.
- Shakespeare, Macbeth, Atto I, Scena I
Dai e ridai, rimesta e attizza,
bolle il brodo e il fuoco guizza.
- Shakespeare, Macbeth, Atto IV, Scena I
Cosí le tre streghe shakespeariane: reminiscenza – trasfigurata sul solo versante malefico, distruttivo, dissolvente, sempre all’opera nel far avanzare tutto verso l’annientamento – delle tre moire greche, delle tre parche latine, delle tre norne germaniche? Personificazioni dell’ineludibile fondo tragico del fato, dove anche il káiros, l’opportunità favorevole, il successo specifico, l’esito positivo, si compongono e si traducono nella rovina seguente e finale?
Comunque sia, le tre «sorelle» si adattano perfettamente a visualizzare l’essenza comune che informa tutto il “sistema”[2] in cui ci troviamo – il modo di produzione dell’economia politica[3] – nei suoi tre assi portanti, ossia si attagliano a raffigurarne le tre forze alienate e alienanti, che mutano nel tempo panni, maschere e camuffamenti, ma permangono nella loro sostanza:
- lo Stato (il politico-statuale), violenza organizzata al di sopra della società, in cui si strutturano e stabiliscono i rapporti di comando, per cui una minoranza di strati sociali si rende dominante sul resto della società, e che si formalizza – forma astratta che opera nel concreto, “incarnandosi” nei suoi gestori e “attori”, “addetti” e “facenti funzioni”, trasmettendosi, perpetuandosi e ampliandosi – in quanto potenza estraniata, che vuole accrescere la potenza stessa, come imposizione (per via diretta e indiretta), comando e controllo[4];
- il capitale (l’economico-capitalistico), violenza parimenti organizzata, in cui si strutturano e stabiliscono i rapporti di comando sul piano della produzione[5] e della società, e potenza parimenti estraniata, che si formalizza nelle “leggi e regole economiche”, e che si “incarna” nei gestori e “attori”, “addetti” e “facenti funzioni” dei comparti del capitale stesso, il quale è centrato sulla produzione, estrazione e accumulazione di profitto, né quello conseguito basta mai, donde altro profitto, ancora profitto, sempre piú profitto – Stato e capitale, senza l’uno dei quali l’altro non sussiste, né le classi dominanti dell’economico-capitalistico potrebbero essere tali senza la loro componente dominante del politico-statuale[6];
- la tecnologia (la ricerca scientifica-applicazione tecnica)[7], forza sempre piú possente, in cui si strutturano e stabiliscono i rapporti di comando sul piano del sapere e del suo uso, che si formalizza negli apparati di sistematizzazione, ricerca, applicazione, e che si “incarna” a sua volta nei gestori e “attori”, “addetti” e “facenti funzioni” di tali apparati – i cui strati superiori vanno a comporre anch’essi settori delle classi dominanti -, a sua volta violenza organizzata mirante a manipolare tutto l’«essere», sussumendolo a sé, sempre piú interconnessa alle altre due potenze e a esse sempre piú funzionale, anzi sempre piú necessaria (per la loro mantenimento e proseguimento) – e sempre piú scatenata da vincoli e remore[8].
Questi i tre assi (con i media, sempre piú “tecnoscientificizzati”, al servizio di tutti e tre, e dei loro diversi comparti), ciascuno dei quali è tanto relativamente autonomo, e opera reclamando le proprie esigenze e priorità, quanto, nel contempo, è connesso agli altri due e ne è dipendente: tre assi portanti, le cui rispettive “competenze” e campi d’azione si combinano e si fondono senza confondersi nei rispettivi ruoli e funzioni – e implicano e comportano anche il parallelo della violazione (organizzata o contingente) delle regole formalizzate che questi si danno e su cui procedono[9]. E ogni analisi del “sistema” [10], e ogni prassi nel “sistema”, che non assumano la presenza e interrelazione di, e con, tali tre potenze – o, se si vuole, tale potenza tripartita[11] – sono, nei casi migliori, parziali e limitate, nei peggiori, integrate e integranti.
Tre assi combinati, il che non esclude che ogni asse non entri anche in frizione, in date situazioni, con gli altri due, per poi combinarsi ancora (le tre «sorelle» di occasione in occasione litigano fra di loro, stizzite, prima di accordarsi), e si traduce anche, tramite i gestori, “agenti” e “attori” in cui le potenze si “incarnano”, nell’esistenza di lobbies, circoli «d’interesse», centri di potere, trasversali – che stabiliscono e mettono in moto direttrici e azioni, o «complotti» -, ma questi esistono precisamente perché sono implicati e sussunti dai tre assi portanti, con la loro essenza comune[12].
E questa loro essenza comune è l’organica hýbris[13] – mai adeguatamente compresa e tantomeno dichiarata, anzi occultata – o Wille zur Macht[14] – tanto sfrenata quanto incosciente, anzi negata.
Tracotante «volontà di potenza»: l’oscuro volere che si vuole volendo la potenza – come imperio, come profitto, come manipolazione -, e mai la sua fame e sete sono, né possono essere, sazie, per cui si proietta su tutto per impadronirsene, inghiottirlo e fagocitalo – e cosí infine distruggerlo.
Le tre «sorelle» sono antiche, hanno mosso i primi passi millenni fa[15], ancora incerte e non appieno definite, si sono venute formando e sviluppando nel tempo, assumendo via via diversi panni, maschere e camuffamenti, e fortificandosi; hanno promosso e seguito la genesi, e assistito la gestazione, del presente “sistema”, e ne hanno presieduto alla nascita[16], si sono consolidate e strutturate, secondo la loro essenza (dispiegandosi «secondo il loro concetto», per dirla à la Hegel), e sono andate via via espandendo il “sistema” al mondo, mirando ad assorbirlo tutt’intero, riassorbendo di volta in volta anche quanto prima già assorbito, e a renderlo il loro “mondo” – dove «il bello è brutto e il brutto è bello», e «bello» e «brutto» si scambiano via via di posto.
Tale immagine non aggrada, non persuade, fa “storcere il naso”? “È favolistica, poco seria, non scientifica – irrazionale …”. Si possono levare obiezioni del genere, da varie parti: “analisti” (“preposti” o “dilettanti”) di politica, economia, società, etc., “addetti” al politico (i professionisti o «uomini politici», nonché «donne politiche»), e anche “gente comune”, che le adduce in maniere piú o meno “spontanee” – cosiddette, vale a dire indotte. Ma non è, piuttosto, che precisamente già con tali obiezioni si rimane ancora sempre nel “mondo” delle tre «sorelle»? Questo “mondo” che si presenta e si vuole fondato su necessità e civiltà, centrato su logica e razionalità, basato su «progresso» e scienza – e sempre nega, o maschera, o relega in “limiti” da superare, o “problemi” da risolvere, o “difetti” da “riformare”, la propria intima essenza [1], negativa e devastante – dissolvente. Si insisterà, perciò, nell’immagine.
No, non si tratta della scivolata in una qualche para-, o pata-, metafisica, ma dell’uso di un’immagine-concetto[17] (quindi metaforica, fino a certo punto), pur approssimativa[18], ma piú illuminante, perché piú adatta a evidenziare l’assurdità erratica dell’alienazione costitutiva del “sistema”, alienazione[19] ormai appieno congelata, ossificata, cristallizzata, mentre la convinzione della sua “sostanza razionale” (che è, dunque, da accettare e/o sviluppare, oppure da criticare e/o da attaccare, ma comunque razionale) – che appare una sorta di assunzione dell’asserzione (ancora di Hegel, pur ripresa in modalità ridotta e in genere senza saperlo) per cui «il reale è razionale e il razionale è reale»[20] – è una credenza “accomodante” e subalterna, integrata e integrante, in quanto il fondo oscuro del “sistema” non ha niente di razionale (ragionevole e ragionabile, perciò comprensibile e in qualche misura pur sempre giustificabile, anche se criticabile)[21] – e tale è il «brodo» delle tre «sorelle», che «bolle», da cui trabocca il filtro che imbeve il mondo[22].
Di battaglie vinte – e perse
Le tre streghe, «dai e ridai», con la loro opera combinata, e sviluppandosi ulteriormente, hanno preparato e generato, impregnato e messo in forma il mondo – con disastri senza fine: conflitti globali e seguito di conflitti locali, imperialismo, colonialismo e neocolonialismo, oppressione e repressione, miseria e sangue, e ancora distruzione e svuotamento del senso dell’esistenza … -, si sono ritrovate dopo ogni battaglia vinta e persa, affrontando e battendo i “blocchi” sia dovuti alle situazioni precedenti, sia, poi, determinati dalla loro stessa azione, per giungere cosí alla prima grande catastrofe (Prima guerra mondiale) e, passando attraverso la preservazione globale del “sistema” tramite l’azione esplicita e diretta dello Stato a supporto del capitale, e nel galoppo della tecnologia, a partire dalla «Grande crisi» apertasi nel ’29 – ed è questo il «capitalismo di Stato»[23] -, e sboccare nella seconda grande catastrofe (Seconda guerra mondiale), per continuare tale linea dal dopoguerra (costellato di altre guerre, continue) agli anni sessanta e settanta del Novecento (nei paesi detti «avanzati») – e avendo già improntato di sé, fin dall’inizio, anche il pendant dell’apparente «alternativa», invece, a tutti gli effetti, effettiva complementarità, del «socialismo (detto) reale», ossia del «socialismo di Stato»[24], dove al primo posto stavano ruolo e azione di una delle tre «sorelle», la statualità, che organizzava e determinava ruolo e azione delle altre due.
E via con altri panni, maschere e camuffamenti ancora, nello sviluppo dei sottoprodotti e ricadute, secondari rispetto alla finalità primaria della perpetuazione del “sistema”, ma funzionali alla sua permanenza e dispiegamento, in quanto volti all’assorbimento di istanze, tensioni e pressioni, di frizioni, contrasti e conflitti con le classi subalterne: e si è avuto (nei paesi detti «avanzati», ma seguiti, pur zoppicando e con affanno, sulla stessa linea anche dai restanti paesi) il Welfare State, ossia il cosiddetto «Stato del benessere»[25], o quello che è stato denominato «Stato sociale»[26].
«Stato della crescita, crescita dello Stato», cosí Henri Lefebvre sintetizzava il carattere del modo di produzione[27], cosí come si era determinato dall’ante-Secondo conflitto mondiale agli anni settanta del Novecento – e lo stesso termine «crescita», che ora viene ripetuto come indicazione di un direttrice sana, necessaria, risolutiva, «crescita» intercambiabile con «sviluppo», «crescita» pensata e voluta come infinita e indefinita, è una maschera: perché con «crescita» va inteso ancora sempre solo il triplice versante della potenza, ossia estensione di azione e campi, controllo e dominio dello Stato; accumulazione del capitale; proliferazione della tecnologia.
E già Lefebvre rilevava che, in tale maniera, il modo di produzione dell’economia politica globale si inoltrava, sul piano planetario, nello «stato critico permanente».
Certo, le tre streghe «sorelle» hanno vinto le battaglie che hanno posto e imposto, e dispiegato, questo loro “mondo”, e sicuramente a prezzi mostruosi, e ancora di piú: stabilendo, ogni volta, le basi, le premesse e le condizioni di altre battaglie ancora.
Certo, la battaglia del Novecento, volta alla perpetuazione del “sistema”, è stata «vinta» – ma anche «persa»: quanto determinato per vincerla si è tradotto a sua volta in una massa di ostacoli all’ulteriore avanzata illimitata della cieca hýbris od ottusa Wille zur Macht – sempre l’«ordine», da mantenere o restaurare; sempre la «crescita», costantemente da “rilanciare”; sempre il «progresso», da perseguire -, massa di ostacoli contro cui tale avanzata è venuta a cozzare, dalla seconda metà degli anni settanta in poi. Donde ancora «rimesta e attizza», e «il fuoco guizza»: avanti in un’altra battaglia, per eliminare ogni ostacolo ed espandere ancora – e ancora, e ancora, dismettendo via via i precedenti panni, maschere e camuffamenti, per assumere appieno quelli, pur variegati e sdoppiati, ma coerenti, del liberalismo-liberismo[28] -, questo loro “mondo”, su scala sempre piú globale e inglobante, totale.
E il rilancio del “sistema” dell’economia politica sul piano mondiale è avvenuto, con il supporto dai vari Stati che coprono la faccia del pianeta, intrecciandosi alla ricerca di mantenere ed estendere il proprio ruolo predominante da parte della «superpotenza» (lo Stato Usa), con i suoi piú stretti alleati, ruolo contrastato da altri Stati resistenti e/o emergenti, che vogliono affermarsi – con implosione della pseudo-alternativa, altra via accelerata della «crescita», cioè alla, e della, potenza[29].
Sí, anche quest’altra battaglia è stata vinta. In hoc signo vinces[30] – sub Stato-capitale-tecnologia: avanzata omogeneizzazione dell’umanità e del suo spazio sul pianeta, denominata «globalizzazione»; colpiti i sottoprodotti delle ricadute di «benessere» nei paesi «avanzati», via via smantellate e/o comunque ridotte, e/o in via di ulteriore smantellamento, mentre in altri paesi si cerca di ottenerne qualcuna; messa in utilizzo e sfruttamento di tutto il globo (esseri umani e natura)[31]; contrasti planetari rimessi a mero oggetto di rapporti di forza, donde rafforzamento bellico della superpotenza e degli Stati maggiori, nonché degli Stati resistenti e/o emergenti – mentre le applicazioni militari o para-militari, o comunque volte alla potenza e al controllo, sono il vasto campo, quello maggiore, per la tecnologia.
Battaglia vinta – e, nel contempo, anche persa: ma precisamente vincere-perdere ogni battaglia è “consustanziale” al dispiegamento del “mondo” delle tre «sorelle».
Le spinte che imponevano dinamiche interne sono ridotte a qualcosa di residuale, non incidente, pur raggiungendo ancora, di tanto in tanto, dimensioni di massa[32]; con lo «stato critico permanente» si è fuso lo «stato di guerra permanente», esteso a livello planetario, nell’onnipresente uso della forza, latente o scatenata, con subordinazione e/o dissoluzione senza prospettive per Stati minori, mentre lo «stato critico» si è tradotto in crisi successive, fino alla presente, di vasta, lunga e distruttiva durata; la devastazione avanza su tutti i piani, da quelli materiali a quelli “immateriali” – dall’esclusione di miliardi di esseri umani (peraltro in proliferazione tanto esponenziale quanto incontrollabile[33]) da condizioni di vita minimali, alla vita miseranda di altri miliardi, alla distruzione bellica o desertificazione produttiva di intere aree e regioni, alla distruzione della natura – derisoriamente affrontata con la devastazione sofisticata, di “secondo grado”, implicante un ancor maggiore intervento della tecnologia e mascherata da “soluzione”, dello «sviluppo compatibile» e della green economy, con ecologismi e ambientalismi vari di supporto[34] – e alla distruzione della natura umana – sul piano psichico e fisico; ogni alternativa, anche fittizia, è venuta evaporando, rimessa nella vaghezza per chi ancora la vorrebbe o la sogna (che ricade nell’istanza a “impegnarsi” su questioni frammentarie, caricandole di una portata immaginata dirompente), perché lo stesso pensare è negato dalla distruzione del pensiero, tramite l’«insegnamento dell’ignoranza»[35] che concorre alla decerebrazione organizzata (dai media) di massa; questo “mondo” è affermato come l’unico possibile (e al massimo si possono pensare “correzioni” di questo o quel “male” del “sistema”, ma nel “sistema” stesso, ossia con il ricorso a uno dei suoi assi, in primo luogo quello statuale, contro gli altri – e magari anche, nella testa dei piú “critici”, credendo cosí di attuare o comunque preparare “rivoluzioni”).
Gli esseri umani, che devono pur avere un’esistenza, sono coatti nella necessità di “performarsi” alle tre «sorelle» e, ottundendo la consapevolezza della coazione – tanto imperiosa, quanto non solo assunta intenzionalmente, ma anche, e soprattutto, esito oggettivo delle stesse modalità di funzionamento del “sistema” stesso[36] -, interiorizzano tale “performazione”, la richiedono, anzi vi aspirano, e di piú, la reclamano: collocarsi nella subalternità al politico-statuale, mettersi a servizio dell’economico-capitalistico, porsi a disposizione della tecnologia (compresa la tecno-medicina[37]).
Ma ciò comporta che il “sistema” ha perduto ampia parte della dinamica su cui è proceduto, senza dover piú contrastare-vincere-assorbire-utilizzare spinte”critiche” (piú o meno vere o fittizie, ma comunque piú “dure”) che lo neghino[38], quindi volendosi e dovendosi circoscrivere alle contraddizioni interstatuali, capitalistiche, urbane e interurbane, ambientali, tecnoscientifiche, tutte organiche, connaturate, inerenti, al suo “modo d’essere”, per gestirle alla sua maniera, e, di conseguenza, con “intensità” piú ridotta, con attenzione piú generica, con intimo dinamismo contratto – e gli esiti presenti dovrebbero essere palesi, se non si ha “il prosciutto sugli occhi”, o “il cerume nelle orecchie”, o “i tappi al naso” (cioè che non si sia sufficientemente decerebrati).
Fallimento a tutti gli effetti, piena sconfitta nella completa vittoria [2] – ma cosí deve essere, secondo la stessa intima essenza dell’hýbris o Wille zur Macht costitutive: la potenza perseguita si è tradotta nella caduta dell’estensione dello Stato, che ristruttura, contraendoli, i suoi campi di intervento “benevoli” (quando non li dismette), per mantenere soprattutto quelli del suo comando; l’accumulazione del capitale si è tradotta nella caduta della «crescita», cioè di quella che era la “spedita”, poco intralciata, accumulazione del capitale stesso, il quale deve ricorrere a vie piú forzose e devastanti; la manipolazione dell’«essere» da parte della tecnologia si è tradotta nella caduta delle «magnifiche sorti e progressive» sbandierata dalla tecnologia stessa, con i misfatti sulla natura e sulla natura umana che ne sono conseguiti, tecnologia ormai autoreferenziale[39] e impegnata in altri ritrovati ancora, di cui poi affrontare le ulteriori conseguenze.
È un tourniquet, un circolo vizioso, un avvitamento senza uscita? Sí, e tuttavia ciò non implica affatto – in nessun modo, anzi è il contrario – che le potenze portanti del modo di produzione muteranno la sostanza di un qualche “indirizzo”: perché proprio questo è il loro “modo d’essere”.
Un altro rating: DD – doppia D
Infatti, come ognuno può (o piuttosto, potrebbe) constatare, tutti i provvedimenti, decisioni, misure, vanno sulla stessa e consueta strada. Per capi sintetici:
- la ricerca di mantenere il proprio ruolo centrale (ossia la preservazione del monocentrismo) da parte della superpotenza, con i suoi alleati piú stretti, si scontra con l’ascesa di altri Stati (ossia con la spinta al multipolarismo)?
Allora … conflitti latenti o aperti, per via sia diretta, sia interposta, di «area», di «teatro», locali, sulla faccia del pianeta[40], in un seguito senza fine – con tanto delle “etichette”, pur sempre piú sbiadite, come quelle di «operazioni» condotte in nome della «democrazia», o dei «diritti umani», oppure di «interventi di pace», od «operazioni di polizia», od «operazioni umanitarie», o comunque come situazioni “deplorevoli”, che si sono determinate, e su cui “intervenire”, etc., quindi proseguendo nelle guerre.
- La «crescita» ha condotto a crisi ripetute, sboccando nella crisi globale da essa generata e portando al disastro in atto?
Allora … si persegue il rilancio della «crescita», con i “crismi” della fase attuale[41], assumendo la crisi come “un qualcosa che … be’, succede” – sí, come quando piove – e va solo “affrontata” e/o se ne attribuisce la “colpa” a questo o a quel “versante” del “sistema” – quindi, la crisi è comunque assunta come causata dal “sistema” stesso che persegue la «crescita», per cui la si “affronta” sempre puntando sulla «crescita», e dunque la crisi si continuerà (andando ben oltre il 2013) e/o comunque poi si riproporrà.
- Si parla della crisi in atto come «crisi finanziaria e bancaria», o «crisi della finanza speculativa», cioè causata dalla finanza e dalle banche?[42] E/o dovuta al «debito sovrano», cioè all’eccesso di debito (detto) «pubblico»? – Ossia contratto dallo Stato, per il vasto e composito insieme dei costi per supportare il “sistema” e se stesso, e contratto in massima parte sempre con il grande capitale, finanziario e bancario[43].
Allora … si rifinanzia ancora, spremendo paesi e popolazioni, e colpendo la stessa «crescita» che si proclama di perseguire, il capitale finanziario e bancario – già “intasato” per mancanza di sbocchi di investimento «remunerativo» (che dia profitto adeguato) nella condizione di crisi, alimentando ulteriormente la condizione della cosiddetta «crisi finanziaria», «bancaria», «speculativa»[44].
- La cosiddetta «globalizzazione» (ricerca di profitto sempre maggiore, su tutto il pianeta) ha portato alla distruzione di intere aree di tessuto produttivo (dislocazione e desertificazione) e all’esclusione (con lo sviluppo del macchinismo a base informatica), anche da dipendenza e sfruttamento, di una massa enorme di esseri umani?
Allora … si perseguono ulteriormente gli imperativi della «globalizzazione», il cui pieno e non ostacolato dispiegamento, si continua a sostenere, risolverà … ogni problema – perseguendo cioè lo stesso processo che ha portato alla situazione attuale.
- La tecnologia scatenata ha condotto a ricadute, incontrollate e incontrollabili, a cascata (dalla produzione in tutti i campi, alla condizione umana e allo spazio antropico, e all’ambiente naturale), colpendo la natura e la natura umana?
Allora … ancora avanti nella (sempre cosiddetta) «ricerca», e via ad applicazioni tecnologiche su altre applicazioni, con il ritornello della “scienza salvifica” – in un processo macinante, che si pone come infinito e che si avvolge, devastante, su se stesso.
E cosí via, l’esemplificazione può ben procedere ed estendersi. Il tutto impastato e accompagnato dal coro cacofonico delle “voci”, “ufficiali” e correnti, composto dagli “agenti della gestione” (statuale, ossia dei governi, o capitalistica, ossia delle centrali del grande capitale, o tecnoscientifica, ossia degli apparati preposti) e politici di professione vari, “intellettuali” ed “esperti”, analisti e opinionisti, “addetti” ai media (tv e stampa, ossia giornalai e televisionai[45], funzionari servili delle potenze), tutti lí a recitare, con una serie di prefissate “varianti sul tema”, gli stessi slogans e credo e litanie: dal “rilancio della crescita” nella “coesione e sforzo comuni” di “tutti”, ma nell’esigenza della «governabilità», nel contenimento del «debito (detto) pubblico», ma con le «riforme» “necessarie e inderogabili”[46]; dalle necessità della «modernizzazione», coincidente con la «globalizzazione», alle esigenze dei «mercati», ma con la ricerca della «competitività» per la «libera concorrenza» sul «libero mercato non distorto»; dalla salvaguardia “della pace e della democrazia”, ma nei sacri «vincoli internazionali», al «progresso», e quindi alla “fiducia nella scienza” che risolverà problemi e “catastrofismi” in agguato – con tanto di rimando continuo al “capiamo i problemi, pur inevitabili” e perciò, con il richiamo solenne al “anche proteste, sí, legittime, ma no alla violenza”[47], e con tanto di attacco alle posizioni piú critiche verso la cosiddetta «politica», designate come «antipolitica»[48], etichettando le pur vaghe, o parziali, o frammentarie, istanze “altre”, come «populismo»[49] [3] e via salmodiando, spappagallando, blaterando – anche in proposito si può fare un vasto florilegio.
Di fronte all’uso invalso dello strumento del rating – i media hanno rimbombato sui rating di tripla A, o poi doppia A, altrimenti sul passaggio alla B, etc., come valutazione (da positiva a meno positiva, a negativa) della solvenza delle obbligazioni dette (camuffate come) «pubbliche» (cioè statali) -, rating attuato dalle apposite «agenzie», le quali non sono altro che apparati e funzioni del grande capitale, nonché delle potenze che lo supportano, ebbene, si ha il pieno buon diritto di avanzare una tutt’altra “scala di valutazione”. Ed ecco il rating adeguato, secondo l’uso dei “voti” dati con lettere. Va assegnata a tutta la “situazione” e ai suoi apologeti, sostenitori e “commentatori”, una valutazione DD – doppia D: insolvenza totale (rispetto a promesse e proclami, dichiarazioni e decisioni) per delinquenza[50] e demenza[51], a cui la permanente menzogna è connaturata – delinquenza e demenza che vanno insieme, in diversi mix a seconda dei vari “aderenti” e “cacofonisti”.
Ma non è del tutto evidente? O lo dovrebbe essere, se non imperasse la continua e mirata obnubilazione: non appare (o non dovrebbe apparire) immediatamente come delinquenza e demenza il permanente seguito di conflitti, che getta il pianeta in un caos di miseria e di sangue? E non sono delinquenza e demenza le inarrestabili operazioni del grande capitale transnazionale, che causano o concorrono al, e confluiscono nel, caos di miseria e di sangue? E come definire altrimenti i lambicchi su lambicchi, senza sosta, della tecnologia? E, per toccare anche il tamburo mediatico di questi tempi (2011-2012), agitare lo spauracchio del «baratro» (per il «debito pubblico») e far risaltare salvifica la spremitura di massa – vale a dire imporre come necessità ineluttabile sottoporre le sorti di intere popolazioni e paesi dall’andamento dei «mercati», delle borse, dello spread (differenziale) fra titoli di obbligazioni statali[52] – che cos’altro è? E anche questo elenco può continuare a lungo.
Il filtro delle tre «sorelle» che impregna il loro “mondo” e i suoi “attori” e “agenti” primari, con seguiti di “facenti funzioni”, induce e produce, genera e fa proliferare delinquenza e demenza – dato il suo fondo di assurdità alienata, e dato che la potenza raggiunta, assodata e assestata, produce una stolida stupidità (come ha rilevato Nietzsche): ma anche ciò è organico all’essenza di fondo di tale “mondo”. E cosí si continuerà sulla stessa via, assorbendo, schiacciando, macinando ancora tutto nel «brodo» che impregna il mondo, sul piano materiale e mentale: perché – va ancora detto e ridetto, e ripetuto – è questa l’essenza dell’«oscuro volere» che anima le tre forze «sorelle» combinate, che hanno fatto e permeano il mondo come loro “mondo”, e che mirano, in primo e ultimo luogo, alla propria preservazione, perpetuazione ed espansione. Che comportano la distruzione: la via che segnano e su cui spingono è quella della tanto possibile, quanto piú vera ed effettiva catastrofe (che va oltre i vari “catastrofismi” circolanti, i quali si situano pur sempre nelle presunte possibili capacità di “autocorrezione” del “sistema”[53]): il fallimento della specie umana[54]. [4]
E cosí tutto il divenire tormentato degli esseri umani, con i loro successi e sconfitte, la loro creazione di senso e i loro scacchi, i loro sogni, desideri, speranze e i loro disincanti, delusioni, disastri, la loro tanta infelicità e la loro, talvolta, grandezza, svanirà – al pari di una storia raccontata da un idiota, piena di rumori e di furori, che non significa nulla[55].
E l’antica area di civiltà, dove si è dispiegata la massima creazione di quel poco che ancora “conta” e che ancora rimane, e che ancora ha valore? Anche questa è affogata ormai, e da tempo, nel guazzabuglio di occultamenti, incomprensioni e falsificazioni, e nella combinazione del razionalismo, anzi dell’iperrazionalismo, di cui si ammanta il “sistema”, con il suo opposto del “religionismo” e misticismo, e il codazzo di “orientalismo”, esotismo, pseudonaturismo, esoterismo, etc. (opposto del tutto complementare, in quanto ambedue hanno base nell’assurdità erratica di fondo e nella stupidità del “sistema” stesso), che sono propri del variegato mantello, l’universalismo mondialistico, di cui si ammanta il liberal-liberismo della cosiddetta «globalizzazione».
Si ripropone una sorta di “occidentalismo”? [5] Una chiusura rispetto agli apporti mondiali, specie “dell’Oriente”? Si tratta di rimettere a posto la visione delle “cose”, di capire che l’equivalenza di tutti gli apporti, peraltro riciclati, è omogeneizzante e affogante, ingannevole e disarmante – e che l’“universalismo” attuale è mistificato e mistificante: è l’affermazione del liberalismo sullo stesso piano culturale, e coincide con il magma dissolvente della cosiddetta «globalizzazione».
Con antica area di civiltà bisogna intendere l’Europa occidentale e, andando indietro nel tempo, l’Europa mediterranea, l’Italia, il Mondo antico, fino a quel centro di valenza totale che è stata l’Ellade[56]. Ebbene, questo sta “semplicemente” diventando una distesa di rovine, di cui infine si perderà, continuando cosí, ogni cognizione, ogni interesse (o questo resterà, magari, confinato a quello per luoghi da Disneyland turistica) – e ogni senso. Per la Grecia, peraltro ridotta e confinata da tempo in un ridotto territorio e un asfittico Stato-nazione – la cui storia è un aborto continuativo, in questo, peraltro, non dissimile da quella che è stata, ed è, la storia dello Stato-nazione in Italia -, ciò è in pieno atto. La Spagna, sgretolatasi la fase del regime franchista e gettata a vele spiegate negli imperativi “moderni” del “sistema”, vi è immersa appieno. In Italia il processo è in corso accelerato [6], ma il magma investe e corrode anche la Francia, e gli altri i paesi europei, e la stessa Germania (e va sottolineato come tale processo afferri tutta l’umanità sul globo, sgretolando via via quanto resta di ogni altra civiltà, e via via anche ogni suo residuo, su tutta la superficie del pianeta).
È da notare come tale processo di “macinazione” e “schiacciamento” stritoli e tenda ad azzerare proprio i paesi che sono stati il fulcro della creazione della civiltà – come la Grecia prima, poi l’Italia, con, in seguito, altre aree dell’Europa occidentale -, tanto da poter apparire intenzionale. Ma che l’intento vi sia stato e vi sia, oppure no, è secondario: comunque lo si fa.
II
Vista sui piedi e un po’ all’indietro – e zone cieche
e vidi gente per lo vallon tondo […]
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso ché da le reni era tornato ’l volto […].
Dante, Inferno, C. XX, vv. 7-15
Cosí i dannati danteschi della quarta bolgia dell’VIII cerchio infernale, che hanno la testa distorta sulla schiena e si muovono sui passi già fatti, vedendo solo intorno ai piedi e un po’ all’indietro – il resto è zona cieca. Ma non si stia a prendere l’immagine nel senso della pena imposta dal dio cristiano[57], bensí come visualizzazione della distorsione organica a un “mondo” posto e imposto come l’unico possibile, permeato dall’incombenza presenza, e azione delle tre forze combinate e «sorelle», e impregnato dal filtro del loro «brodo».
Altra immagine[58], che ben si attaglia a quanto oggi si dice, si propone e si fa, non tanto né soltanto da parte degli “addetti” alle funzioni delle tre forze o assi del “sistema” (Stato, capitale, tecnologia) e dei loro corteggi e seguiti, politici e mediatici – che neanche si guardano sui piedi e sono coloro da contrassegnare semplicemente con il rating DD, la doppia D -, e che viene ripetuto da parte della tanta “gente comune” che è “messa in forma”, quanto e soprattutto – il che è particolarmente rilevante, ed è questo che va messo in evidenza – da parte dei molti scontenti, dei vari oppositori, diversi “attivisti critici”, e cosí via.
Ciò vale dovunque e l’esemplificazione potrebbe essere molto vasta, ma basti sintetizzarla, mostrandola bene in quanto avviene nel nostro paese, dove tale “fenomeno” si manifesta appieno: in Italia, lo sbocco dell’azione volta a mantenere e stringere la subalternità dello Stato italiano e della formazione economica e sociale italiana, e quindi del paese (agli Usa, nonché agli «organismi internazionali» connessi, uno dei quali è la stessa Unione europea[59]), e portare avanti la sua riduzione a “pontone” dissestato a disposizione degli Stati Uniti e potenze a essi legate, e del connesso grande capitale transnazionale, è stato (dal 2011) il «golpe bianco» con cui Napolitano ha istituito la giunta (detta «governo tecnico») di Monti & Co. – travalicando ogni regola e prassi elettivo-rappresentative liberali, ma trovando l’assenso di «classe politica», partiti e sindacati “ufficiali”, e comparti, ceti, strati, economicamente e socialmente dominanti -, portando il “sistema”, nella specifica realtà della formazione italiana, in pieno dissesto, sul piano del politico-statuale e dell’economico-capitalistico, nonché del tecnoscientifico (ormai mera appendice di comparti altrui), e sui piani del tessuto sociale e culturale, urbano e interurbano, ambientale ed esistenziale, situandolo sotto un potere di subdominanti (Stato e classi dominanti a livello interno, ma al servizio di imperativi altrui), mentre tutto il paese e la grande maggioranza della popolazione vengono spremuti, sia per supportare gli interessi esteri, sia per mantenere il “sistema” interno in dissesto – e affondano in questo stesso dissesto, in avvitamento[60].
Ebbene, in questa situazione che cosa si indica e si propone? – Ci si riferisce a politici ed economisti “critici”, con i loro diversi seguiti, a esponenti di partito minoritari, a «movimenti» e “iniziative di base” varie, con tanto di gruppi, gruppetti, comitati, diversi “attivisti”, etc., insomma tutti coloro che si caratterizzano per lo piú come «sinistra» (che è, peraltro, una denominazione poco significante, o anche “pudica”, o addirittura ipocrita[61]), in contrapposizione alla «destra»[62].
In buona sostanza, pur con diverse varianti e sfumature – che si vogliano piú o meno «moderate», o piú o meno «riformiste», o piú o meno “realistiche”, o piú o meno “dirompenti” -, si dice e si propone: “rivitalizziamo” la democrazia e la dinamica politica democratica, ora “appannate”, e ri-assumiamo le politiche economiche dette «keynesiane», o “aggiornate” come «neo-keynesiane» (ossia di intervento attivo dello Stato per sostenere imprese e occupazione, «ammortizzare» le “difficoltà”, sostenere i «servizi sociali», etc.), o almeno “pezzi” di tali politiche. Tutto è visto, appunto, sui piedi e all’indietro – e distorto. Ancora per capi sintetici:
- non si vede (zona cieca), né si dice, che lo Stato italiano è subalterno (da prima della fine del Secondo conflitto mondiale a tutt’oggi, e adesso ancora di piú), terreno di presenza estera (militare: basi Usa e Nato) e di ingerenza permanente (Usa in primo luogo), e inserito in vincoli annichilenti («organismi internazionali», Nato, Ue), «a sovranità limitata», molto limitata, mentre ogni sua autonomia, pur del tutto parziale e del tutto residuale, è stata di recente annullata[63], e che i suoi dominanti sono subdominanti – ciò non fa parte del “discorso” corrente, né di alcun “discorso” in genere, concependo la dipendenza solo come occupazione armata altrui (che, peraltro, c’è anche, con le basi militari), per cui si parla come se ciò non fosse e come se, senza spezzare questa condizione, si potessero assumere disposizioni significativamente “altre” e prendere iniziative fattivamente decisive.
- Non si vede (zona cieca), né si dice, che il golpe c’è stato (nel quadro di cui sopra, di annullamento di ogni residua autonomia) e non lo si evidenzia e denuncia come tale, perché si scorgono e quindi si concepiscono solo i «golpe» passati, con arresti in massa e carri armati per le strade, non recependone questa forma “moderna” (il che vale in generale, al di là di questo 2011-2012: si possono sforzare fino a violare, tranquillamente e senza uso diretto delle armi, e lo si fa sempre piú spesso, in forme minori o maggiori, le stesse regole formali del liberal-liberismo[64], a supporto delle potenze, che pur sempre si ammantano di liberal-liberismo), per cui si tratta della giunta del «golpe bianco» come se fosse un governo, di cui considerare, pur criticamente, finanche aspramente, le politiche, e con cui comunque rapportarsi politicamente, anche se in modo piú o meno critico, perfino di piena negazione.
- Non si vede (zona cieca), né si dice – non recependo l’accentramento autoritario a cui tende lo Stato liberal-liberista in date situazioni, ossia, in generale, di fronte a contraddizioni non gestibili “normalmente”, e, in particolare, come nella situazione italiana, di attuazione della piena subordinazione -, che tutti i partiti sono stati, e sono, collaborazionisti[65] del «golpe bianco» avvenuto (anche quelli minoritari, piú o meno critici, perché rimasti in un parlamento asservito, quindi posti anch’essi “al servizio” della giunta), e che ciò ha le sue ampie implicazioni, mentre si continua a discettare su che cosa fa o non fa, farà o non farà, possa fare o meno, etc., questo o quel partito, o coalizione, e/o come contrastare o combattere questo o quel partito, o coalizione di partiti, appoggiandone un altro o un’altra coalizione, o inserendovisi, o mettendo in piedi qualche altro partito (che si denomini o no come tale), in attesa e preparazione del “ritorno alla normalità”, con le elezioni all’usuale (o anticipata) «scadenza della legislatura»; ma nemmeno tale “normalità” vi sarà piú, perché la sussunzione del paese è giunta all’approdo, e la subordinazione delle stesse forme e procedure liberali agli imperativi esterni o permarrà in maniera palese (con la continuazione diretta o indiretta della giunta imposta), o rimarrà sempre incombente, sullo sfondo, aperta a ulteriori interventi diretti (al di là dei forsennati occultamenti mediatici), nel caso che non venisse auto-assunta (il che, se pur possibile, è però improbabile[66]), con coscienziosità e autocensura, dalle successivi gestioni statuali (governi), «classe politica» e partiti al seguito, mentre recitano la parte di “decisori”, che attuano la “ripresa della politica”, etc.; e invece si ritiene di poter condurre (ovviamente, si crede, o almeno si dice, meglio) lo stesso processo, che peraltro ha già avuto lo sbocco indicato.
- Non si vede (zona cieca), né si dice, parlando e straparlando di democrazia – termine ormai tanto usato e abusato, tanto inflazionato, da renderne il senso vago e vacuo -, di quale democrazia si tratti, sia in questa condizione di subalternità e di Stato e classi dominanti-subdominanti, di cui fa parte appieno la «classe politica» (precisamente anche attraverso le successive cooptazioni a sé di homines novi, e feminae novae), sia nel contesto della “struttura” di dominio che sempre è lo Stato, compreso lo Stato italiano (pur subdominante). Si concepisce come democrazia il precedente funzionamento della procedura elettivo-rappresentativa liberale in Italia, e si pensa che basti riaffermarla, restaurarla e utilizzarla[67], nella permanenza dell’occultamento di che cos’è lo Stato e, quindi, di che cos’è la democrazia.
- Non si vede (zona cieca), né si dice, prospettando e proponendo politiche keynesiane (o «neokeynesiane») – peraltro, rimanendo sempre, in tale maniera, nel contesto del “sistema”, nel capitalismo[68] (Stato, capitale, tecnologia[69]), il quale non per caso è pervenuto alla situazione attuale, ma di cui non si scorge neanche un barlume di alternativa -, che proprio tali politiche, dopo essere state funzionali, hanno precisamente formato la massa di ostacoli (per il “sistema”) da abbattere per il, nel, e tramite il, lancio della «globalizzazione» – si guarda solo all’indietro, intendendo questa come opzione possibile (se venisse fatta intendere o se lo si imponesse, con varie forme di iniziativa e pressione), mentre non si scorge e non si mette in rilievo, da un lato, che tali politiche già continuano nella forma di intervento dello Stato a supporto diretto del capitale[70], e, dall’altro, che, a ogni modo, per assumerle e vararle occorrerebbe uno Stato autonomo e indipendente, e la connessa messa “fuori gioco” dell’assetto attuale dei dominanti-subdominanti[71], nonché il pieno “regolamento di conti” – ossia dei «vincoli» – con gli «organismi internazionali», Ue compresa appieno.
- Non si vede (zona cieca), né si dice, guardando sempre all’indietro e scorgendo solo le fantomatiche rappresentazioni persistenti, come sul piano “ufficiale” la «sinistra» sia diventata solo un’altra “etichetta”, insieme alla «destra» (con il «centro» fra le due), avendo da tempo “perso l’anima” insieme alle denominazioni «socialista» o «comunista»; avendo perso ogni “anima” (la spinta, piú o meno vera o fittizia, ma almeno dichiarata, indicata, agitata, al superamento del “sistema”) e convergendo con la «destra» su tutti i provvedimenti e misure sostanziali (la continuità totale di politiche interne fra governi di centrosinistra e centrodestra, dal livello centrale ai livelli locali, è un dato di fatto incontrovertibile), riducendo le differenze a “sfumature” secondarie, a uso del proprio elettorato e delle proprie “catene” di interessi e interessati – come, da parte loro, fanno anche la «destra» e il centro» -, e accettando appieno la condizione subordinata del paese (anzi, proprio il centrosinistra ne è stato il maggiore agente e supporto[72]) – quindi, vacuità di collocazione e prospettive.
Per il resto, anche questi critici e oppositori stanno molto attenti a schermirsi dalle accuse di «antipolitica» (“l’antipolitica la fate voi!” – cioè i criticati) e di «populismo» (“non siamo certo populisti, vogliamo risolvere i problemi”) … Sono in «cattiva» o «buona fede»? Non ha molta importanza, anzi, per parte almeno di costoro si può ammettere che parlino e propongano in «buona fede» (anche perché non vedono altro, o poco altro), quindi con “buone intenzioni”, ma, se ciò conserva un qualche valore riguardo ai singoli, non ha rilevanza per la valutazione – del resto, «le buone intenzioni fanno il lastrico della via dell’inferno», come dice l’adagio, di matrice ecclesiastica[73].
Va messo decisamente in luce come le istanze indicate – in estrema, ma sostanziale sintesi – non colgano la realtà e si basino solo sia sulla riproposizione di quanto “c’era”, sia sull’incomprensione della situazione e delle forze in campo, sia sull’illusione che ne consegue, il tutto unito alle fantasmagorie del «realismo», della concretezza, della proposizione di «alternative»[74] – il che è dovuto, appunto, allo sguardo distorto, quindi inadeguato, dunque accecato. Non si presenta, in tal modo, alcuna fuoriuscita, proprio mentre tali “critici” asseriscono e credono, e fanno asserire e credere, che cosí vi sia – e in tal maniera concorrono, comunque e che lo vogliano o no, alla perpetuazione dell’esistente.
“Però, però … se passasse un qualcosa delle proposte delineate, non sarebbe almeno meno peggio?” – si potrebbe sentire questa osservazione, ed è poi quanto si persegue, nella testa dei piú, come nelle varie iniziative, proteste, manifestazioni, attuate, in corso, in preparazione.
Risposta: sic rebus stantibus è impossibile, allo stato delle cose ciò non può accadere. E c’è di piú: in questa maniera si continua a solleticare e promuovere il “menopeggismo”, che pur è in declino (come distacco in negativo, in primo luogo come non-voto), ma che persiste come attitudine e che si riaccende in date condizioni, per cui “il meno peggio è meglio del peggio” – mentre, per come e quanto sta precipitando la situazione, il «meno peggio» fa comunque parte del «peggio» e integra al «peggio»[75].
E scheletri di dinosauri
Tuttavia – si può ancora obiettare -, all’interno della denominazione di «sinistra», e schierati per lo piú nella «sinistra (detta) estrema», non vi sono coloro, pur minoritari, che dicono “le cose come stanno”, e che le perseguono?
No, non è cosí, non le dicono affatto: unicamente credono di dirle e di proporle, e di perseguirle.
- Primo versante: “basta, vogliano il governo dei lavoratori, della classe operaia”, “siamo anticapitalisti”, “siamo comunisti”, “l’obiettivo è il socialismo”, et similia sul tema – insomma, i residui esponenti del «marxismo» (pur frammentati e «l’un contro l’altro armati»)[76].
Di quale «classe operaia» si parla? Certo, siamo sempre di fronte all’esproprio dai mezzi di produzione e alla coazione a lavorare per essi, producendo l’equivalente della retribuzione, riproducendo tutto il resto e producendo il surplus per il capitale, ma le lotte in atto avvengono sul posto di lavoro, per migliorarne le condizioni o, e soprattutto, per difenderlo, e quindi per il modesto reddito conseguente, mentre il mestiere[77] è svanito (permanendo solo come residuale, e in condizioni e «nicchie» particolari), lasciando il posto al mero impiego, in quanto tale intercambiabile[78]; quindi, se si può parlare di un ancora piú esteso proletariato (gli esclusi da proprietà-possesso-controllo dei mezzi di produzione, ivi compresi tanti dei fittizi «autonomi»), pur nella riduzione della funzione produttiva diretta, tuttavia nella frammentazione, segmentazione e polverizzazione sociale, la spinta alla riappropriazione (proprietà-possesso-controllo dei mezzi di produzione, quindi della vita sociale e individuale) non emerge piú, è stata annichilita – per cui il riferimento alla «classe operaia», quale classe distinta, volta a operare la «negazione della negazione», etc., è la mera ripresa retorica e cristallizzata del passato (e non per niente la si affoga, spesso, nel piú generico «lavoratori»), e, peraltro, già allora dogmatica[79].
E l’anticapitalismo che cosa significa e in che cosa si traduce? Il che si connette al “vogliamo il socialismo” e “siamo comunisti”: e questo, a sua volta, che cosa vuol dire? L’apparenza sembra chiara, ma non c’è nessuna evidenza: essere “comunisti”, quindi ricostituire il partito comunista (che si tratti di un qualche gruppetto che si chiama organizzazione di “comunisti” tesa al fine, o di un qualche altro gruppetto che si denomina come tale), rimanda forse al Pci? Basta vederne storia e “sviluppi”, e non appare davvero un granché (e questo è già un eufemismo) come riferimento e risultati e prospettive – e solo nostalgici fissati lo possono negare. Rinvia, invece, a “fare come in Russia”, rimanda all’Urss? Come sopra e peggio – sebbene dei «marxisti-leninisti» (alias stalinisti), qualcuno anche erudito, si aggirino ancora a celebrarne fasti e validità. Oppure alla Cina, all’Est asiatico (Corea, Vietnam)? «Peggio che andar di notte». O rimanda all’America latina, in particolare a Cuba? Ma che modello “altro” sono le pur valide rivendicazioni di maggiore indipendenza (dagli Usa) e l’applicazione tardiva di linee «keynesiane»? E, a maggior ragione, che referenza è lo «stalinismo tropicale» (espressione di Jean-Claude Michea) cubano?
Si ricorre, allora, a correnti minoritarie del «comunismo», in primo luogo (ma non solo) al trockijsmo, nelle sue varianti? Ma il trockijsmo è stato il complementare, anche se duramente critico, del terzinternazionalismo (alias stalinismo), portando con sé affini “erranze” – e la cartina di tornasole è che sull’Urss non è mai andato molto oltre la critica di «degenerazione» per «burocrazia» – e, in sostanza, tale referenza equivale ad affermare o sottintendere: “eh, se ci fossero stati Trockij e quelli come lui … le cose sarebbero andate diversamente; ma ora ci siamo, continuiamo e ci pensiamo noi”; oppure, se non ci si basa principalmente su tale o tale altro rimando, si intende dire “vediamo di rifare per bene ciò che è stato fatto male, per cause oggettive o soggettive”, e magari il discorso prosegue, con esempi creduti dirimenti, e invece di secondaria importanza. E, davvero, ogni commento in merito è superfluo.
C’è, tuttavia, un “nodo” comune in tali rimandi, pur a tutti gli effetti inconcludenti: il «socialismo» concepito come proprietà-possesso-controllo dei mezzi di produzione da parte dello Stato (piú o meno trasformato, la cui gestione sia assunta solo dal partito, o che lasci una certa dialettica interna, con assemblee elettive, etc.), ossia si ha sempre la riproposizione del «socialismo di Stato», ovviamente in nome (e si badi bene: in nome, assumendosi come delegati plenipotenziari) della «classe operaia», dei lavoratori, etc[80].
Ma – a parte che il «socialismo di Stato» sia imploso, svolta la sua funzione, o sia diventato fautore e gestore del capitalismo “puro” (come in Cina, ma ponendosi sulla stessa via anche altrove) – il fatto è che lo Stato è uno degli assi portanti del modo di produzione dell’economia politica e che il partito (comunista e/o socialista: il partito storico a cui ci si vuole riconnettere), in quanto tale, mira a prendere il potere statuale (o, secondo l’“impianto” passato, abbattendo lo Stato esistente e ricostruendone un altro, con cui fondersi, oppure, secondo l’“impianto” piú comune, accrescendo le proprie forse e partecipando allo Stato esistente, fino ad assumerne la gestione), quindi mira a partecipare al modo di produzione stesso, perché non lo si oltrepassa, non lo si può oltrepassare, in base a uno dei suoi assi portanti e organici a esso – dunque l’asserito anticapitalismo (se inteso come si deve, ossia come superamento del modo di produzione[81], quindi del “sistema”) è inconsistente.
- Secondo versante: i filoni – sempre minoritari – che si possono ricondurre, pur con vari “aggiornamenti”, maggiori o minori che siano, e con denominazioni che vanno da «libertari» ad «autonomi», «antagonisti», etc., sostanzialmente all’«anarchismo».
Premessa necessaria: va lasciata perdere l’“impronta negativa” diffusa nei confronti della denominazione stessa di «anarchico», “impronta” che è dovuta, oltre che alla duratura opera ostile del “sistema”, all’astio storico fra marxisti e anarchici – peraltro motivato solo dal contrasto con la, e da parte della, socialdemocrazia, prima, e ancor piú con il, e da parte del, terzinternazionalismo stalinista, poi[82] -, perché è noto (o lo dovrebbe essere, benché non sia cosí) che lo stesso Marx dichiarava che i fini, suoi e dei “suoi”, e degli anarchici, erano identici, differendo solo su mezzi, vie e tempi[83].
Il fatto è un altro: costoro pensano a un mondo di autoproduttori autonomi – magari con le, e nelle, proprie “comunità –, che “si trovano insieme” per alcuni accordi e impegni comuni, e finita lí: proposta che “non regge” di fronte allo «stato di cose presente», per cui si devono limitare a “coltivare” i propri óikoi (ristretti gruppi) e intervenire su versanti critici, ricorrendo anche ad azioni “dure”, in base all’antica attitudine di “dare l’esempio” e “svegliare la gente” – ma in tal modo non “si sveglia” nessuno o quasi, mentre “l’esempio” è facile preda della propaganda negativa e del condizionamento demonizzante dei media.
Anche qui, si ripresenta solo un passato, pur applicato in parte anche a campi nuovi – ma l’azione voluta e asserita non ha incidenza portante e fattiva.
Però, comunque, “si tiene alta la bandiera … Si mantiene la prospettiva … Ci di inserisce nelle contraddizioni aperte … L’impegno militante è indiscutibile …” – e cosí via: questo o qualcosa di simile si potrebbe sentir dire da tutta la pletora, anzi la “galassia”, di questi “sinistri” (estesi come “varietà”, pur nel minoritarismo). Ritengono (e giustificano-autogiustificano cosí l’esistenza dei loro gruppi e gruppetti) che occorra aderire, sostenere, partecipare alle proteste, lotte, manifestazioni, – o, se possibile, promuoverle –, che si generano nel contesto del “sistema” (iniziative sul/dal posto di lavoro, o relative a un comparto, o “di territorio”, sostanzialmente rivendicative, quindi di tipo sindacale, da intendere in senso sia specifico che lato[84]), pensando – per tattica, esplicita o sottesa (cioè astutamente) – che, con la presenza e il “discorso” deciso, “appiccicato” sopra a istanze e manifestazioni, o anche con scontri con le forze repressive, oppure perfino con piú dure “azioni éclatantes”, dall’iniziativa specifica “si acuisce la lotta”, “si acquisisce coscienza” e “si passa a …”.
Ma no, non “si passa” proprio a niente e non “si acquisisce” niente, in base alla procedura di “incollaggio” che viene attuata: quanto “incollato” rimane tale, astratto, mentre le iniziative continuano a non fuoriuscire dal “sistema”[85] e, o hanno qualche successo completo (il che è raro), oppure parziale (non molto frequente), rispetto all’istanza specifica, e qui si concludono, mentre l’esito viene riassorbito nel “sistema” stesso, o infine perdono (il che è piú comune, sempre rispetto all’istanza specifica), e allora la “mobilitazione” si scoraggia e “smobilita”[86]. È solo illusione, e soprattutto auto-illusione, credere che in tale maniera avvenga un qualche “passaggio”, e tanto piú “di massa” (al di là del “reclutamento” di qualcuno a questo o quel gruppetto, ovviamente visto come “successo”), innalzando il livello di “scontro” e di “coscienza” – e basta (anzi basterebbe, ma non è cosí) aver fatto esperienza (per via diretta e indiretta) di tale “pratica” per rendersene conto.
Di almeno diversi “attivisti” della congerie di “sinistri” – che si dichiarino “ufficialmente” «comunisti», o «socialisti», o «rivoluzionari», o «autonomi», o «antagonisti», o «anarchici», etc., oppure no, assumendo altre denominazioni, o limitandosi a quelle del raggruppamento o comitato specifico – non è da porre in dubbio l’«impegno» di «militanti»[87], ma, nel contempo, va messo in luce come anche fra loro sia attiva la cieca hýbris o Wille zur Macht che intride il “sistema” e che ben si manifesta nella protervia ottusa e settaria di capi e capetti, perfino del piú piccolo gruppetto o comitato, con tanto del pur piccolo seguito di ognuno (il che ha portato alla “galassia” di cui sopra), e che si maschera (a volte come vernice di “coscienza di sé”) precisamente nell’«impegno», nel (presunto) «rigore teorico», nel «servizio» o “alla classe”, o “alla causa”, o “all’idea”, oppure nel lavoro indefesso per il gruppo o comitato, etc.
In realtà, tutti costoro sostengono “ciò che c’è” da sé – le istanze e spinte, le proteste e iniziative che si determinano in base alle contraddizioni organiche al “sistema” e che, di per sé, non ne fuoriescono -, riproponendo – cioè giustapponendovi – questo o quel “pezzo” di un passato già sconfitto e fallito, quando non già fallimentare, con le connesse modalità di “impianto” e di azione, di attitudini e di linguaggio. A questi «militanti» va detto chiaramente che, pur non obiettando certo sulla loro presenza in lotte e manifestazioni (né, in particolare sulla prontezza di mobilitazione contro presenze e insorgenze degli inaccettabili fascisti e nazisti, o «neo-» tali che siano[88]), per il resto svolgono un’opera per lo piú accessoria, sovente inutile, quando non dannosa (rispetto alle premesse e promesse di “anti-sistema”). E se continuano – come pare si debba constatare – a non riflettere sulla suite di fallimenti, non-incidenze e inconsistenze (riflettere sul serio, non rimestando nel mortaio la stessa acqua dei loro “impianti”), e a dire e fare ancora e ancora quanto hanno detto e dicono, hanno fatto e fanno – ebbene, si aggirano nelle “cose” quali nemmeno dinosauri, ma scheletri di dinosauri, rianimati anche loro dal filtro delle tre «sorelle» che imbeve il “mondo” (e che fa persistere tutti i passatismi e arcaismi, purché funzionali, in quanto innocuità di fondo[89], al mantenimento dell’esistente).
Anche costoro concorrono, che lo vogliano o meno, ad amministrare il dissenso – come, peraltro, fa tutto il complesso di “critici”, “oppositori, “sinistri” sopra delineati, che cercano di “coprire”, con la loro presenza e insistenza, tensioni e frizioni, contrasti e conflitti sociali, ingombrando ogni “campo” con una congerie di sigle diverse, slogans stereotipi, proposte semplificanti, prospettive inconsistenti e attitudini impossibili -, ostacolando (ossia assorbendo e nel contempo bloccando: “mettendo in forma”) l’affioramento delle basi di una consapevolezza “altra”[90].
III
Il potenziale e il possibile
Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste nella vita. Inesaurito e non scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra dell’uomo.
- Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra
Assunzione questa, ex abrupto, in contrasto improvviso a quanto è stato fin qui esposto, di una sorta di momento “ottimismistico” nietzschiano?[91] Ma considerare Nietzsche nei termini triti di «pessimismo» e «ottimismo» non è affatto appropriato. Questa apertura al possibile ha il suo presupposto e il suo fondamento.
- Presupposto: tutte le “cose” che possono “camminare” non vanno isolate, ma almeno “a braccetto” – e a volte non sono solo in coppia, ma in piú –, sia accordandosi, sia discutendo, sia leticando, sia combattendosi … In altri termini, ogni “cosa”, ogni realtà, ogni situazione, implica il suo opposto. E lo implica anche – almeno in maniera potenziale – il “mondo” fatto dalle tre streghe «sorelle», e lo implica nonostante che tutto quello che si è finora levato contro sia stato battuto, o si sia mostrato inadeguato, o sia stato riassorbito e integrato – evaporato, oppure rimasto nella subalternità funzionale.
- Fondamento: gli esseri umani sono pur sempre ancora esseri della natura, della biosfera, perciò hanno la loro biologicità (natura), che non può essere eliminata e che pone necessità da soddisfare e reattività comunque esistenti; hanno una base antropica di mores communes (necessari costumi di relazioni), che non appaiono ancora sostituibili né sostituiti, o comunque non del tutto; hanno comunque società in cui vivono, e ancora non possono farlo senza[92]; hanno una storia, piú storie, di cui rimangono comunque le impronte (anche per linee sotterranee); si trovano di fronte a contraddizioni che si aggravano – e, se è pur vero che tutto ciò è minacciato, e che la minaccia si fa sempre piú pressante[93], tuttavia questi fattori fondamentali ancora persistono.
Le potenzialità presenti degli esseri umani non sono già del tutto esaurite. Il che vuol dire che l’opposto e contrapposto allo «stato di cose presente» (riprendendo l’espressione marxiana del Manifesto) affiora, qua e là, perlomeno in modalità di intuizione, di appercezione, di istanza – certo, in forma debole (dato il tanto, il troppo, che vi si oppone e lo schiaccia), ma affiora, pur non riuscendo, di per sé e lasciato a sé stante, a tradurre la potenzialità in possibilità, e cominciare a concretizzarla, o comunque non riuscendoci ancora e/o comunque non appieno, e lasciando la possibilità agli utilizzi altrui (che lo “mettono in forma” e lo assorbono, fuorviandolo).
È perciò che tale affioramento – allo stato attuale delle “cose” – finisce per tradursi o nel “tirarsi fuori” – cercando, e credendo, di vedere di vivere “alla meglio possibile”, o comunque di sopravvivere per “come si può”[94] -, o nell’alimentare il ricordato “menopeggismo” – “sosteniamo questo o quello, che almeno è meno peggio di quell’altro”, illudendosi di “contare” se accorrono a delegare “qualcuno” -, o a indirizzarsi a qualcuna delle varie «amministrazioni del dissenso», maggiori, minori o minime che queste siano.
Ed è perciò che occorre contribuire – o perlomeno tentarlo – a far emergere e “svolgere” l’opposto, indicando e promovendo la possibile apertura.
Eteronomia e autonomia
Innanzitutto, va ridetto e ribadito che è errato pensare di trovare “qualcosa”, e agganciarvisi, nella cacofonia presente su tutti i piani, vecchi, riciclati e nuovi[95], cacofonia che copre il silenzio assordante di fondo: con ciò si continua soltanto a porsi nell’eteronomia[96], vale a dire a cercare una normativa altrui – leggi, disposizioni e comportamenti, “modi d’essere”, di fare e agire, attitudini, linguaggi e fini -, a cui aderire e in cui situarsi, in cui subordinarsi e a cui conformarsi.
Ma è precisamente questa la tendenza iper-dominante: già ogni chiesa-religione, e in primo luogo la “pianta” giudeo-cristiano-islamica (ma anche altri culti “orientalistici” o di vario genere, per lo piú passati attraverso il crogiolo “amerikano”), ne rappresenta lo “stampo”, richiedendo l’adesione ai propri «comandamenti» e imponendola agli “adepti”; ma è precisamente questo che fa lo Stato (leggi, norme, disposizioni e dispositivi, modalità di tutti i suoi apparati, imposizione e repressione, effettiva o incombente, delle non-adesioni e delle violazioni), e lo fa parimenti il capitale (in tutte le fasi del suo ciclo – produzione, circolazione, denaro, e via di seguito – con tanto di specifici mentori e apologeti[97]), e ciò vale ugualmente per la tecnologia (che impone i suoi dogmi e “impianti”, modalità e finalità, dalla trasmissione dei suoi “saperi” alla «ricerca» e alle applicazioni); ed è questo che fanno tutti i partiti (maggiori, minori, minimi) in quanto tali, e, sulla stessa linea, gruppi e gruppetti vari (senza dimenticare i sindacati), e lo fa tutto il “sistema”, nelle sue mille e una articolazioni – donde questa attitudine di matrice ecclesiastica, che si estende anche sul piano (detto) «laico» (dagli elogi al «senso dello Stato» e ai «servitori dello Stato», allo «spirito aziendale», alla “fede” di partito, che si esprime nella «militanza», oppure del sindacato, con altra relativa «militanza», fino al settarismo di gruppi e gruppetti, etc.) e arriva a manifestarsi nella ricerca ed esaltazione, ormai corrente e posta come necessità di fatto, del leader (peraltro, lo si ritrova, come “leaderino”, in quasi ogni raggruppamento, anche il piú piccolo) – il che, sul piano della “politica ufficiale”, giunge fino all’“incoronazione” leaderistica tramite la brutta e servile copia delle «primarie» statunitensi[98], nella strumentalizzazione della spinta ad avere uno pseudo-diritto di parola da parte degli “accorrenti al voto” (almeno di quelli non legati alle catene di interessi e interessati), il che viene ovviamente ciarlato come “alta espressione di democrazia”, “riaffermazione della politica”, e via mistificando.
Ed è una kermesse dell’eteronomia quello scatenamento della truffa, imbroglio, raggiro, che si determina nelle scadenze delle procedure elettorali – le quali, va ribadito, non sono altro che organizzazione del consenso, nonché, almeno in parte, a loro volta amministrazione del dissenso. E altro non è, del resto, tutto il conformarsi alle mode (in senso specifico e lato), proposte e imposte dai media (in maniera ampia, dalla pubblicità all’«intrattenimento», oltre che con i «notiziari»), ed è, nel complesso, eteronomia tutto il “modo d’essere” del, e nel, “sistema”: dal lavoro al consumo, fino al «tempo (detto) libero».
E l’eteronomia – comunque si esprima e venga motivata, nonché auto-motivata – è tipica dei sudditi e confina nella posizione di sudditi (o, se vogliamo, neosudditi[99]), i quali devono accettare quanto viene deciso da altrui, e ne possono anche accogliere con il “mal di pancia”date decisioni e mugugnare contro certe disposizioni, fino a manifestare per le loro proteste e richiesta, o perfino arrivare a sommosse, ma sempre sudditi restano, rivendicando che “chi può” faccia o non faccia tale o tale altra “cosa”[100] – il che fa dubitare della denominazione che gli esseri umani si sono dati (forse in maniera avventata e senz’altro tracotante) di homo sapiens. Ma è questa la collocazione nel “sistema” delle tre potenze combinate, avvolto nel liberalismo-liberismo: collocazione indecente per tutti coloro che vogliano salvaguardare la propria «dignità comune» e «decenza ordinaria»[101], la propria integrità (mentale, oltre che esistenziale).
Va, tuttavia, assunto che questa “performazione” all’eteronomia è tanto strabordante e schiacciante – occultata addirittura negli spazi delle presunte “scelte individuali” degli altrettanto presunti «individui», ossia delle masse di atomizzati-“messi in forma” -, da essere recepita e vissuta come ovvia, scontata, “normale”, anzi, per la piú ampia maggioranza, da non essere addirittura nemmeno colta, recepita, avvertita.
Qui sta la difficoltà, che ostacola l’avvio del passaggio dalla potenzialità alla possibilità. La differenza fra la coazione nell’esistente, da un lato (con le varie forme di “discorso”, sia di adesione, totale o parziale, sia di maggiore o minore “critica”, di individuazione come primari questi o quei “nodi” da risolvere, di impulso a seguire questo o quello o quell’altro, etc.), e, dall’altro, il passaggio a un’opposizione piena e alla sua costruzione – ebbene, tale differenza si presenta (se si presenta) offuscata: non appare come il baratro che invece è, il quale non viene visto o sembra solo una linea sfumata. A tutti gli effetti, è una divaricazione netta e profonda: è un abisso, ma sottile, molto sottile – e proprio «l’abisso sottile è quello piú difficile da oltrepassare» (per dirla con Nietzsche).
Sí, è difficile, molto difficile, tuttavia non impossibile (proprio in base a presupposto e fondamento indicati): lo si può superare. Per valicarlo occorre, certo partendo dall’istinto e dal conseguente intuito – che stanno prima e a monte rispetto a elucubrazioni sui e nei “discorsi” senza fine correnti[102] –, il rifiuto dell’induzione e coazione all’eteronomia, dell’indegnità della sudditanza, marcando la diversità, fondamentale e fondante, fra esseri umani che si vogliono liberi, e quelli che sono sudditi, e, quindi, pervenendo motivati alla comprensione della realtà. È questo il primo, ma essenziale passo, con cui l’affioramento dell’opposto (di cui si è detto) può davvero concretizzarsi, avanzare e farsi strada. Per dove? Verso l’assunzione della necessità di situarsi nella posizione di autodeterminazione, dunque di autonomia[103], ossia di affermare la propria decenza e dignità, costruendo, e seguendo, la propria normativa, come esseri umani liberi. E che vuol dire? Capire e respingere la generale e capillare “messa in forma”, e – senza cadere nella mistificazione dell’«ognun per sé e dio per tutti» del liberalismo corrente[104] – associarsi ai simili che hanno parimenti capito e respinto. Come fare? È appunto decisiva la comprensione: non si tratta di dover passare tramite lunghi e ardui studi[105], bensí, assodati gli strumenti culturali fondamentali[106], va capito bene che cos’è il “sistema” e perché i suoi assi costitutivi, Stato, capitale, tecnologia, comunque (per usare termini semplici) non vanno bene – sono, a ogni modo, alienazione erratica e devastante. E perciò non va bene niente – anche se, a rendere ancora sensata l’esistenza, continuano a esistere tante piccole cose buone perfette […]. Mature, d’oro: la loro vista risana il cuore. La perfezione invita a sperare[107].
«Piccole cose perfette», che a loro volta attestano il non esaurimento dell’«uomo e la terra dell’uomo» – «piccole cose perfette» per gli esseri umani liberi, per chi vuole e può affermare, non con tracotanza, ma con giusto orgoglio:
mai in vita mia sono strisciato davanti ai potenti; e, se mai ho mentito, l’ho fatto per amore[108].
«Piccole cose perfette», non derivate dalle potenze in atto, ma dalle tracce della storia e dal tenace “modo d’essere” degli esseri umani che vogliono essere e rimanere tali, riposte in anfratti della vita quotidiana e «nicchie» della residua socialità, e che tuttavia sono, appunto, «piccole», ossia residuali e marginali, e anch’esse sempre piú minacciate nella loro esistenza e persistenza.
Infatti, non può “andare” niente, nel complesso, finché le potenze del “sistema” non siano negate, poi colpite, infine superate. E l’associazione con i simili, che hanno “capito e respinto”, ha questo senso e fine: concretizzare, sviluppare e affermare la posizione di autonomia dalle potenze e operare fuori e contro di esse per la loro abolizione, per costruire il proprio mondo – il mondo degli esseri umani, che infine ritrovano se stessi, ritrovano la loro natura nella riconciliazione con la natura, che costruiscono una vita degna, il loro spazio, la loro civiltà.
Fuori e contro, contro e fuori
Domanda possibile, o sottesa obiezione, che si presenta come “naturale”, però proviene sempre dallo sguardo passatista (e già ossificato a suo tempo): “ma a quale soggetto sociale (o agente, o attore) si pensa di rivolgersi?”.
Di fronte al monopolio (diretto e indiretto) della proprietà, possesso e controllo dei mezzi di produzione e della distribuzione delle risorse da parte della statualità, del grande capitalismo, degli apparati tecnologici, nella riduzione della massima parte delle occupazioni a mero impiego, e nella stratificazione, segmentazione, polverizzazione sociale prodotta, conseguente ed esistente, si ha di fronte una massa di espropriati-assoggettati, non referenti “classisti” netti – e proprio qui si mostra la dannosità dell’assunzione del termine «populismo» come qualcosa di negativo da evitare e respingere: perché ci si può solo rivolgere a membri delle classi popolari subalterne nel loro complesso e l’associazione può avvenire solo da parte di coloro che ne comprendono la necessità, pur non costituendo con ciò una «classe» nettamente definita.
La domanda, od obiezione, sono fuorvianti. E c’è un’altra domanda, o sottesa obiezione, che ha gli stessi caratteri di cui sopra: “ma quali sono il progetto, il programma, gli obiettivi, etc.?”.
Qui si possono solo indicare accenni generali su quanto occorre pensare e fare, in tutti i campi – premettendo e precisando che è necessario servirsi non solo del «mantenimento elevante» (l’Aufhebung hegelo-marxiano) e non solo dello «sprofondamento» (l’Überwindung nietzschiano), ma di ambedue, sussunti nella metamorfosi di “ciò che c’è” e nella creazione del nuovo –, dalla costruzione da condurre nella sterminata massa di “pezzi” di “sapere”, sia quelli relativi alla produzione-riproduzione, sia quelli relativi alla comprensione della realtà, e all’attività in tale realtà[109], dalla diffusione della necessità di indipendenza effettiva, quindi di autonomia – dalle città, con il loro territorio, al paese nel complesso -, alla priorità della produzione-distribuzione locale e comunque interna al paese, dalla costruzione di linee di sussistenza fuori dai circuiti assunti o dominati dalle potenze, alla prospettiva per cui il tessuto di piccole “entità” di produzione-distribuzione va raccolto e sostenuto, e inglobato in un controllo sociale, perché deve permanere, mentre le grandi “entità” (se vanno mantenute come tali) vanno sottoposte alla socializzazione (proprietà-possesso-controllo pubblica in quanto sociale della società organizzata, e non dello Stato, il che vale anche per tutti i cosiddetti «servizi» e «funzioni sociali», ora espropriati dal politico-statuale e diventati apparati statali e/o rimessi all’economico-capitalistico, o a un funzionamento privatistico), ma nella ricostruzione del lavoro (in senso lato) come mestiere e non come mero impiego[110] – unita all’affermazione della concezione per cui la produzione per la necessità e l’utilità già “va bene” quando riproduce le proprie condizioni (ivi comprese le risorse degli addetti) e che date funzioni necessarie o utili vanno sostenute con risorse provenienti da altri settori, se le loro modalità non coprono la riproduzione delle proprie condizioni – fino alla riduzione del denaro a mera forma del circolante, e non di forma di accumulazione del valore, e nella negazione della cosiddetta «globalizzazione», e nell’attacco da condurre contro tutto ciò che devasta «l’uomo e la terra dell’uomo» (dallo spazio urbano e interurbano alla manipolazione-degrado della natura e della natura umana)[111], per la sua salvaguardia e ripristino …
Questi accenni, che, com’è palese, sono piú che limitati e del tutto parziali, si potrebbero ben estendere e articolare, sviluppare e approfondire, però ciò non solo richiederebbe una trattazione a sé stante (che esorbita dalle finalità di questo testo), ma, anche e soprattutto, tale esposizione, come risposta alla domanda od obiezione, sarebbe, di nuovo, fuorviante.
Perché? Perché in tal modo si finirebbe per presentare una sorta di “programma” già pronto, che si sottopone all’attenzione, su cui si richiede di pronunciarsi, a cui si chiede eventualmente di aderire, e cosí via: ancora una forma di eteronomia (e ancora sulla scia di quanto hanno fatto e fanno partiti e partitini, gruppi e gruppetti, delineati).
Il programma e il piano di azione vanno precisamente definiti dall’autonomia associata – che prende cosí a svolgersi come «intelligenza critica collettiva»[112], ma certo, per essere molto chiari, senza con questo voler puntare a collettivismi tanto ciechi quanto ingannevoli, né ancora meno proporli e nemmeno suggerirli: differenze di esperienze ed elaborazioni sono inevitabili, restano e resteranno, incidono e incideranno, ma l’importante è dato dalla presenza effettiva e dal contributo attivo di tutti. E l’autonoma associazione ha già in sé – anzi, è già in sé – la sostanza del progetto, perché, per concretizzarsi e svilupparsi, si deve situare, come presa di posizione e prospettiva degli associati, fuori dallo «stato di cose presente» e contro di esso, e per essere contro deve essere fuori.
La democrazia
L’associazione di coloro che si vogliono liberi e dunque autonomi, e vogliono l’autonomia della società – e, quindi, in ciò sono polítes homóioi, ossia liberi cittadini simili e uguali -, è la base sostanziale della democrazia, ed è questa l’obiettivo primario: è un progetto – per conferire a esso una denominazione che, tuttavia, va considerata per quello che è, cioè soltanto provvisoria – di nuova-rinnovata pólis, fondata conseguentemente sulla democrazia e costituita dalla democrazia, anzi di rinnovate póleis, connesse fra sé in collegamento permanente e organico, organizzato e strutturato: progetto nea-pólis.
“Tutto qui, la democrazia?”. “Ma cosa si va trovare: o non sono tutti per la democrazia e non sono tutti democratici?”. “E in Italia, e in Europa, negli Usa, nei paesi civili, non c’è già la democrazia?”. “O non si fanno addirittura «operazioni di pace» per portare la democrazia? È giusto essere contrari a questa esportazione della democrazia, però si abbattono dittature”. “La democrazia si estenderà via via in tutti i paesi del mondo”. “E la democrazia, si sa, è quella dell’elezione di nostri rappresentanti”. “Semmai, puntiamo al rilancio della democrazia, all’attuazione di sue regole corrette e al suo funzionamento corretto”. “Puntiamo a eleggere dei rappresentati onesti, per operare negli interessi di tutti, per rispettare e attuare i diritti”, etc. Queste, o di questo genere, o affini, possono essere le considerazioni od obiezioni, sia del “politichese”, sia della “spontaneità” – magari con le aggiunte, da parte di “critici” e oppositori, e “sinistri” vari, quali “vogliamo il rispetto della legalità democratica”, “lo sviluppo della coscienza democratica”, “piuttosto richiediamo la democrazia partecipata”, “forme di democrazia diretta, o piú diretta”, e cosí via.
La visione della realtà effettiva è del tutto obnubilata, la concezione è distorta dall’abitudine a quanto viene dato per scontato, la mistificazione è andata a fondo: né in Italia, né altrove, c’è la democrazia – perché questa è la verità: non esiste nessuna democrazia.
Si prendono per democrazia i diritti politici e civili del liberalismo-liberismo (quelli di fondo e quelli ampliati nel tempo e con le battaglie condotte dalle classi subalterne, ma funzionalizzati al “sistema”, e che pur restano sempre in discussione rispetto alla loro attuazione concreta), e la cosiddetta ««democrazia rappresentativa», cioè le procedure elettive liberali di «rappresentanti», insieme al (presunto e asserito) funzionamento in reciproco bilanciamento e controllo dei poteri dello Stato, (intendendo l’esecutivo, il legislativo, il giudiziario)[113].
Si scambia, in tal modo, per democrazia quanto deve essere invece definito, a buon diritto e a piena ragione, come regime oligarchico: il potere delle tre potenze si “incarna” nell’oligarchia – i pochi che gestiscono il potere politico-statuale (dal centro alle sue articolazioni e apparati), il potere economico-capitalistico (con i suoi diversi centri), il potere tecnoscientifico (anche qui con diversi apparati, sempre inclusa la sanità-tecnomedicina) –, oligarchia che si arricchisce con la cooptazione (voluta o imposta) e proprio cosí si mantiene, mentre organizza il consenso e amministra il dissenso, oltre che con il complesso dei media, appunto tramite le procedure elettive, con cui, come viene detto e ridetto, ripetuto e martellato, e interiorizzato, “il popolo esprime la propria sovranità” … delegata a, quindi appropriata da, altrui, ossia l’oligarchia stessa, che, appunto, ne espropria sistematicamente la popolazione, con tanto di approvazione da parte della popolazione stessa.
Infatti, che cos’è la democrazia? È quanto ne dice lo stesso termine, «potere del popolo», e con popolo va inteso l’insieme dei cittadini che si vogliono liberi – ed è cittadino chi «è capace di governare e di essere governato» (come dice Aristotele) dai suoi pari –, popolo ben distinto e da ben distinguere dalle plebi di sudditi, i quali subiscono inerti o protestano irati, chinano la testa o tifano per questo o per quello o per quell’altro, restano assenti o “partecipano” a qualcosa … in qualità di masse di manovra per altrui.
La democrazia è il potere del popolo, per il popolo, esercitato dal popolo. E quindi si esprime nel governo del popolo in quanto autogoverno del popolo stesso. Questa è la democrazia – che non ha bisogno di aggettivazioni. E che non è un modello istituzionale, non è neanche un «regime» nel senso tradizionale del termine. La democrazia è l’autoistituzione della collettività da parte della collettività, e questa autoistituzione come movimento[114].
È la democrazia che già può vivere nelle associazioni di democrazia, che si può formare ed espandere, che può essere portata come rinnovata “linfa” (e come “antidoto” al filtro delle tre «sorelle») nel tessuto di proteste, iniziative e lotte – partendo, di nuovo, dal “sottile”, cioè dalla metamorfosi, dalla trasformazione della“visione delle cose”, tanto indotta quanto corrente e comune, e dalla sua estensione -, puntando a imporsi[115]. Ed è la democrazia che costituisce il “nodo”, il centro, il fulcro degli accenni di progetto.
E democrazia significa non-Stato (e non «Stato-nazione», o «Stato democratico», o «Stato del Welfare», o «Stato del popolo», o il passato «Stato socialista»), però non significa non-potere, perché occorre un potere per l’«organizzazione delle cose»: ma le istituzioni preposte sono formate dai polítes, dai liberi cittadini stessi in quanto homóioi, simili e uguali (a rotazione e per sorteggio), e solo quelle preposte a fini specifici o che richiedono adatte capacità (e non i lacchezzi dei politicanti) sono elettive, però a termine ridotto, anch’esse con rotazione, nonché con possibilità di revoca immediata e sostituzione dei delegati – cosí tutti i cittadini possono rompere l’attuale, coatta, riduttiva e riducente, separazione fra circoscritta vita personale, familiare, amicale, e, per tutto il resto, la sussunzione alle potenze (sussunzione che comprende, nella “macinazione” in atto, la minaccia saliente e strabordante sulla residua quotidianità, socialità, individualità – sulla vita), e rendere concreta la loro emancipazione, occupandosi di … tutto: di tutta la gestione sociale degli interessi comuni, su tutti i piani, con le tante aperture alla creazione del nuovo, che su tale nuova base si determinano.
Precisamente ciò significa andare all’abolizione delle potenze che dominano e fanno il “mondo” (quello delle tre «sorelle»): la democrazia rivendica e afferma la propria sovranità come la sola legittima e respinge come oppressiva, intollerabile, abusiva – illegittima – quella posta e imposta dalle presenti potenze del modo di produzione, e dalle loro “incarnazioni” – il cui imperio si è costretti a subire, finché non se ne sia dispiegata e attuata l’abolizione, ma fin dall’inizio, da subito, non lo si accetta, e tantomeno lo si interiorizza, e lo si combatte.
Va, tuttavia, lucidamente rilevato che la democrazia – intesa nel «senso proprio» delineato – incontra ben pochi sostenitori, non solo a livello di “dotti”, “eruditi”, “specialisti”, ma anche in genere. Volendo fare una panoramica, di fronte all’indicazione della democrazia «in senso proprio» si trova (e si troverà) chi, immediatamente in disaccordo, tossicchia per lasciar perdere e parlare d’altro; chi, perplesso, scuote il capo per indicare che si parla di qualcosa di stravagante; chi conclude dicendo “eh, sarebbe bello, ma …”; chi taglia corto e (sintetizzando cosí tutto lo sfavore) sentenzia drasticamente “è impossibile” – il tutto con l’eventuale accompagnamento degli slogans sulla «complessità del mondo moderno»[116], sull’estensione della popolazione, sulla «globalizzazione», sulla quantità di impegni necessari, etc., e senza far mancare l’affermazione “a parte casi particolari, nella storia non è mai successo” (il che è falso, ma tant’è, negli stessi residui di cultura esistente) – e questo anche nella «sinistra» piú «estrema», dove, se il problema vi si sia posto, non si va oltre la democrazia aggettivata, «diretta-partecipata», quale momento “per andare” … etc.
Ma perché, poi, la democrazia «in senso proprio», se non addirittura negativa, sarebbe irrealizzabile, impossibile, “utopistica”? [7]
Nessuno ne ha mai dato, né ne dà, una qualche spiegazione sensata, e nemmeno una qualche argomentazione significativa: lo si dimostra … affermandolo e basta, come un dogma – in realtà, si tratta solo dell’adesione interiorizzata a “ciò che c’è”.
E come si spezza tale convinzione nel dogma? Non c’è altro modo se non quello di farlo: operando per rendersi autonomi e costruire la democrazia.
La via emersa – benché immersa
Se si vuole procedere, la congerie di gruppi e gruppetti vari, dei diversi “sinistri”, con i loro “impianti” e attitudini e linguaggi, è da riporre alle spalle [8] – sempre seguendo l’operazione di metamorfosi prima indicata, che vale per tutti i campi, ma è senz’altro relativa anche all’esperienza ed elaborazione di quanto si denomina «marxismo» e «anarchismo»[117] (o meglio e piuttosto, i diversi «marxismi» e «marxisti», e i vari «anarchismi»).
Ci si situa, forse – penultima obiezione -, nel “discorso”, diventato anch’esso corrente, «né di destra né di sinistra»? Rispetto alle “etichette” delle frazioni e fazioni di quel pezzo dell’oligarchia che è la «classe politica», con partiti “ufficiali” al seguito, si tratta soltanto di definire queste stesse “etichette” («sinistra», «centro», «destra») come tali, per quello che sono, in funzione, come si è detto, di catene di interessi e consensi elettorali; per il resto, nessuna definizione collegata a tali “etichette”, ma no all’indeterminazione: si riprende, certamente puntando a superare la suite di errori e omissioni, fallimenti e anche tradimenti, ma si riprende, mirando a portarlo “oltre”, il movimento storico di emancipazione, sociale e individuale, dei lavoratori e classi subalterne, riassorbendo cosí anche quanto è stato detto «socialismo» e «comunismo» e «anarchismo»[118] – il che non ha a che fare con reazionarismi e retrivismi, destrismi e confusionarismi[119].
Il fatto è che, abbacinati dal treno della modernità, con il suo carico di tecnologia, lanciato sui binari dello Stato e del capitale, è stato perso di vista, e da molto, troppo tempo, il “nodo”. La forma di soluzione – il possibile – non viene, né è venuta, dal “prima la rivoluzione sul piano nazionale ma a contenuto internazionale” (che infatti non c’è stata[120], né si profila all’orizzonte, e che peraltro postula il partito), né dal “mettersi insieme” da parte dei «libertari» per battaglie specifiche e azioni éclatantes, onde portare “all’insurrezione” il popolo (che infatti non è insorto[121], né pare insorgere, mentre tale “linea” lascia tutto nella fluidità, subito riassorbibile e riassorbita).
Tutto si è mosso, e si muove, per quanto rimane di tali “impianti”, sempre nel contesto dato: Stato-nazione e rapporti extra Stato-nazione («internazionalismo», tanto piú ricercato adesso sul piano della cosiddetta «globalizzazione»), propaganda e agitazione, riunioni e assemblee, iniziative e manifestazioni, etc. – sempre le impostazioni e modalità, attitudini e linguaggi precedenti, ossia quanto ha composto la suite perdente indicata, e che continua a riproporla.
La forma di soluzione, va ancora ripetuto e ribadito, sta in quel salto deciso e decisivo che è l’assunzione dell’autonomia – la quale già costituisce, in quanto autodeterminazione, una posizione eversiva e sovversiva rispetto allo «stato di cose presente», come si è argomentato – e nel conseguente associarsi per, e come, democrazia in atto, e nel diffondere ed espandere tale processo. E precisamente è questo ciò che viene prima: le associazioni di democrazia sono già la creazione ed estensione della democrazia possibile – anche se, per forza di cose, inizialmente in numeri ridotti: ma è solo in tal modo che si può avviare una prassi innovativa[122] -, e costituiscono la base e il tessuto connettivo della parte (e non del partito) da aggregare e organizzare.
Allora – ultima obiezione – “piú nessuna rivoluzione come obiettivo?”. Benché anche questo termine sia inflazionato, tanto da essere diventato frusto e trito[123], va invece detto di no, intendendo rivoluzione nel senso di abolizione: è la democrazia «il movimento che abolisce lo stato di cose presente» (sempre riprendendo l’espressione marxiana), perché, mirando a estendersi, luogo per luogo, per arrivare a imporsi in quanto sola sovranità, popolare – quindi pubblica: sociale e individuale -, comprende già in sé, in nuce, già tale abolizione. Dunque, ciò che occorre è lo sviluppo di associazioni di democrazia dovunque possibile (sul territorio: città e paesi),
- che già “funzionino” al loro interno secondo la democrazia «in senso proprio», fondandosi sulla presenza effettiva degli associati;
- che concorrano a promuovere e fornire una formazione adeguata – escludendo il confusionismo semplificatore, ma escludendo anche la «democrazia elettronica»[124];
- che procedano a compiere un’opera di metamorfosi nelle contraddizioni esistenti, nelle istanze crescenti e nelle iniziative, lotte, rivendicazioni diffuse, e nella loro promozione a livello superiore (dalla rivendicazione di quanto “in oggetto” come non contrattabile, che si vinca o si perda, a nessuna conciliazione con potenze e loro gestori, fino allo sviluppo delle associazioni come permanenza ed estensione della democrazia);
- che procedano alla loro interconnessione, interazione e coordinamento, quali germi di anfizonia (usando questo termine antico per distinguersi da moderne «leghe» et similia, solo altri nomi di partiti), ossia di raccordo, collegamento e concertazione permanenti.
È tale parte – come si è detto, ma va sottolineato – che si deve assumere il compito di esaminare ed elaborare il “da farsi”, e individuare e decidere le vie e tempi da seguire, e i modi e mezzi da adottare. Ed è lo sviluppo di questo processo che può superare i confini dello Stato-nazione, almeno laddove restano le impronte di socialità e di una storia tanto antica da presentarsi come del tutto nuova, e che potrebbe potenzialmente estendersi almeno nell’Europa mediterranea e occidentale, e che è l’alternativa vera a ogni “discorso” sull’Europa (oltre che ovviamente sull’Ue, la quale è solo da negare e far saltare) – mentre, per il resto, l’«universalismo» come “altro” rispetto a quello della «globalizzazione» non può essere posto ex ante, non può “venire prima”, ma si pone come ex post: è da venire.
Per finire, non si può, però, tralasciare un triplice ordine di avvertenze, da tenere sempre presenti, proprio se il progetto possibile cominciasse a concretizzarsi. Secondo una gradazione di importanza crescente:
- non confondere il possibile avvio di questo processo di aggregazione con un semplice “riciclaggio di panni” rispetto a “ciò che si fa”, perché è necessario che vada – innanzitutto sul piano mentale – in profondità, altrimenti è la riproposizione di un altro aggregato ancora, di cui non si sente alcun bisogno.
- Questa possibile aggregazione non preserva, di per sé, dal ripresentarsi, in modalità piú o meno occultate e auto-occultate, della cieca hýbris od ottusa Wille zur Macht che intessono il “sistema”, per cui occorre sviluppare le capacità di una sottile attenzione, per distinguere la fattiva e valida tensione a pensare e a fare (a creare o partecipare alla creazione, ad «andare anche al di là e al di sopra di se stessi»[125]), che va sollecitata e promossa, dalla sua confusione e commistione con l’«oscuro volere»[126].
- La forma di soluzione apre e pone nella linea da seguire, ma, di per sé, non dà garanzie sulla validità della soluzione, nel senso che si può continuare a errare, o errare ex novo – dipende dalle capacità di analisi, elaborazione, iniziativa –, sia ripercorrendo gli andamenti passati, sia percorrendo un nuovo andamento, ma sempre del fallimento.
Concludendo, si può soltanto dire che, se resta ancora una via, questa è la via, infine emersa dall’inaccettabilità dell’esistente e delle prospettive incombenti, e dal seguito di errori, omissioni e fallimenti degli “impianti critici” (passati e riproposti come tali).
È questa la via, nonostante che rimanga immersa nel tanto, troppo, che vi si oppone – mettendo in conto le difficoltà presenti e future (non foss’altro già soltanto di farsi sentire ed essere ascoltati), il peso strabordante di quanto la nega e occulta (dall’insieme del “sistema”, con i suoi media, e aderenti e apologeti, al gravame delle varie convinzioni e credenze, passate e presenti, fino alle “urgenze” nello stile “ci vuol la pratica, non la grammatica”[127]) e il derivante senso di schiacciamento, che spande una tetra luce di impraticabilità.
Ma la via è comunque questa, e solo e unicamente questa: la via delle associazioni di democrazia, della loro aggregazione e organizzazione, dell’avvio della loro elaborazione e azione – quanto indicato (provvisoriamente) come progetto neo-pólis.
E dunque? Dunque se ne può solo rimettere la verifica della possibilità – o, per non cadere in auto-illusioni e velleitarismi, anche della sua impossibilità: se si debba prendere atto che la situazione è ormai troppo deteriorata – a chi intenda comprenderla, e voglia procedere, o almeno cercare di procedere, di conseguenza.
Esplicazioni e approfondimenti
[1] Intima essenza. Per definire l’essenza di fondo, tripartita e combinata, del “sistema” – raffigurata con l’immagine delle tre streghe «sorelle» -, l’alienazione strutturata e ossificata di forze e produzioni umane, si è fatto ricorso al termine antico di hýbris e a quello piú recente di Wille zur Macht, termini che richiedono una piú ampia esposizione, data la valenza che hanno e mantengono per afferrare e comprendere la realtà, e agire in essa.
L’hýbris, la «tracotanza» che porta ad andare al di là dei limiti, a volere di piú, sempre di piú, a oltrepassare ogni misura, su tutti i piani, l’«eccesso oltraggioso» rispetto alle “cose” umane, rispetto alla collocazione dell’uomo nel mondo, rispetto alla natura; l’hýbris non sempre nemmeno consapevole, almeno a livello di chiara intenzionalità, da parte dei singoli o dei gruppi che si situano nella posizione di hybristés, ma esistente come «oscuro volere»; l’hýbris che conduce infine a crolli rovinosi, o comunque a profondi danni – era ben nota agli antichi greci, tanto che rimandi a esempi e richiami a rendersene conto e non perseguirla sono un tema ricorrente in quanto ci è pervenuto[128], in particolare (ma non soltanto) rispetto alla pólis, alla stessa democrazia, alle vicende di Atene[129].
L’avevano ben presente, benché ciò non sia bastato, forse anche per l’inadeguata “presa” sulle condizioni di fondo in cui si traduceva e da cui si generava (vedi [6]) – tuttavia non solo per questo: gli antichi greci sanno che gli esseri umani hanno in sé la spinta ad “andare oltre”, spinta ancipite, che può essere fattiva o distruttiva. E lo sbocco finale è stato quello dei regni ellenistici, prima, e del dominio romano, poi, con il declino della civiltà delle póleis.
Anche nel mondo romano si mette in luce l’ambitio, studium, libido senza misura, ma piú circoscritta al piano politico, «ambizione», «desiderio», «libidine» di comandare, dominare, regnare – e il rex è assimilato al tiranno, inteso come despota -, che va contrastata. Anche a Roma, dove ha dominato da sempre l’oligarchia (nobilitas, optimates), pur con la presenza di forti movimenti dei democratici, denominati populares, si va infine proprio a quanto si voleva evitare, all’imperator e all’impero – e l’Imperium romanorum diviene, inoltrandosi nel suo declino e in quello, connesso, di tutto il Mondo antico, uno Stato assoluto (ante litteram, rispetto ai piú tardi Stati assoluti in Europa) burocratico-militare (del tipo dei regni e imperi orientali), assimilando-assimilandosi alla Chiesa come Imperium romanum christianum. E nel tramonto di questo impero ritorna, con Agostino di Ippona («santo» della Chiesa), l’individuazione dell’«oscuro volere», tripartito in libido dominandi, libido sciendi, libido sentiendi – volontà di dominio, di piacere, di sapere.
L’assimilazione dell’hýbris degli antichi greci alla «volontà di potenza» è evidente – e la definizione Wille zur Macht è opera di Friedrich Nietzsche[130].
Il tema si situa nell’intreccio di “fili” che si compongono il suo pensiero, e in particolare a quello dell’Übermensch, diventato poi noto come superuomo[131] – fuorviante deriva[132] –, per trattare del quale non è questo il luogo. Qui basti dire che, per Nietzsche, il tema dell’Übermensch è quello della riconquista a se stessi del sé, della corporeità: riconquista dell’esistenza concreta – il corpo, questo «saggio ignoto», cosí sempre vicino e presente, che è difficile trovarlo e ascoltarlo[133] -, superando le astrazioni e scissioni storiche e sociali, ritrovando l’intensità vitale dell’animale, ma senza accecamento, e la lucidità della ragione, ma senza veleno. E qui è la connessione: la vita è energia, che si accumula, si effonde, supera le sue forme – trasformando e trasformandosi. Il nulla la minaccia di annientamento – l’energia non è illimitata, ma si riaccumula e riprende, e continua. L’energia è tensione – né esiste altro: non vi sono “entità” statiche e “cose” isolate, ma solo quantità di energia in relazione di tensione con le altre quantità d’energia.
Energia, tensione, forza: potenza. E la volontà è il modo d’essere di questa tensione energetica: ecco der Wille zur Macht – la «volontà di potenza».
L’elaborazione nietzschiana ha la sua storia. L’immagine della «volontà di potenza» compare nelle letture di Nietzsche degli autori greci e latini, e rinascimentali (per esempio, la virtú in Machiavelli), nelle sue conoscenze letterarie e filosofiche. Ma emerge e si chiarisce con l’imporsi del Reich bismarckiano (dal 1871), la nuova grande potenza germanica nel centro dell’Europa. In questo senso è una scoperta, che Nietzsche applica retrospettivamente ai campi dell’umano, della natura, della vita. È un’immagine-concetto, che apporta un grande contributo alla comprensione del mondo, assumendo valenze differenziate, perché coglie un’energetica fondamentale, ma complessa. Schematizzando, der Wille zur Macht,
- al primo grado, è l’energia vitale, esistente nella natura, negli esseri viventi, nel corpo, che connota il “modo d’essere” dei viventi, della natura: energia che si accumula e si scarica, in varie forme, come processo piano, come estensione intermittente, come lotta feroce.
- Al secondo grado, nel corpo-mente che è l’animale uomo, è l’energia vitale che mantiene la propria tensione, che si afferma e raggiunge i livelli di concentrazione in cui trova la pienezza, come nell’impresa riuscita (di vario genere), nella creazione poietica[134] (poetica, artistica, scientifica, tecnica, sociale, pratica), nel godimento (dove percorre gradini successivi e ritmi misurati, dall’inizio alla conclusione), ma è anche l’energia che si manifesta nel dispendio di forza, come affrontamento, sopraffazione e assoggettamento[135], come violenza, nelle guerre aperte, nonché nell’economia (dove lo stesso profitto non è altro che uno strumento di ricerca e conseguimento della potenza), e perfino nella “rarefatta” logica, dove l’identità[136] e l’identitario[137], voluti e imposti, nonché la stessa “forza dei ragionamenti” che si pongono come “oggettivi”, servono alla potenza – e l’elenco può continuare[138].
- A un terzo grado diventa lotta per il potere stabile, per conquistarlo, per instaurarlo, per mantenerlo, organizzandolo, perpetuandolo, riproducendolo: qui la «volontà di potenza» si stabilizza e si cristallizza, piú o meno dissimulata, rifiutando quasi sempre di esporsi alla luce come tale, ma servendosi di tutti i mezzi – violenza organizzata, economia, sapere (quest’ultimo controllato dall’esterno e intriso dall’interno dalla «volontà di potenza» stessa), e la stessa morale (come «dover essere») – per affermarsi e riaffermarsi, e dominare.
In che modo è possibile la liberazione? Sormontando la volontà di potenza – superandone le forme del «terzo grado» e oltrepassando quel “versante” del «secondo grado» che spinge al «terzo» e confluisce in esso.
Come? Non contrapponendo alla volontà di potenza la sua falsa negazione, come quella dell’«altruismo» (o, per Nietzsche, «piccolo egoismo»), dello “spirito di branco” o del collettivismo, oppure della «bontà» contro la «malvagità»[139]: anche tutto questo è «volontà di potenza», ma distorta in risentimento[140], che trasforma gli oppressi in risentiti, inchiodati al loro ri-sentire (ossia all’oppressione, all’umiliazione, allo sfruttamento subiti), rendendoli incapaci di andare e creare oltre, ma solo di combattere ogni possibilità di effettivo oltrepassamento – è anche questa volontà di potenza, che spinge nell’omogeneizzazione e massificazione, servendo alla potenza cristallizzata che crede di combattere.
Nietzsche fa appello alla «volontà di potenza» stessa, si richiama all’energia vitale, per un oltrepassamento che può e deve avvenire senza farla suicidare – in quanto energia vitale –, puntando, invece, a farle sormontare la potenza cristallizzata e il versante “oscuro” (già presente nel «secondo grado» indicato) che spinge in tale direzione.
In che modo è possibile? Non con il rimando a una superante volontà astratta, assolutamente «libera», che riuscirebbe a superarsi in base alla propria totale forza e libera capacità di decisione. Tale volontà non solo è inesistente, ma porta anche al contrario dell’oltrepassamento liberatorio. Il rimando è alla volontà concreta – che è volontà possibile, perché fondata sul reale “modo d’essere” corporeo, quindi concreto di ogni individuo concreto -, al versante “chiaro” del Wille zur Macht (esistente anch’esso nel «secondo grado»), che si esprime in affettività, amore di sé e degli altri, che si oppone a ciò frena e opprime se stessi e gli altri, e perciò opera e crea in modo fattivo. Si porta cosí la «volontà di potenza» ad affermarsi in un’altra, superiore, sfera, quella della capacità di poiesia, la piú ampia attività di metamorfosi e di creazione, vedendo e capendo il mondo e le “cose” senza accecamento e senza veleno, e sviluppando un processo di denuncia e rinuncia, di superamento e abolizione della potenza, sormontandola non per un “di piú”, ma per il “meglio” – per l’emancipazione, per la grande liberazione.
* * *
[2] Piena sconfitta nella completa vittoria. Era evidente fin dall’inizio – ossia dal lancio della fase attuale del modo di produzione, detta «globalizzazione.
Evidente che cosa? Che si andava nella presente direzione[141]: il modo di produzione si era fino ad allora dispiegato tramite il procedimento estensivo di integrazione-disintegrazione – integrazione di comparti pre- o proto-capitalistici (come campi produttivi, tipo di mezzi di produzione e livello di tecniche, maniere di organizzazione del lavoro, etc.), o anche del precedente assetto produttivo capitalistico, e lo disintegrazione nell’assorbimento nel muovo assetto –, proceduto nel successivo contesto del contrasto fra Urss-«blocco orientale» e Usa-«blocco occidentale», ossia fra quelli che si erano determinati come «i due generi della stessa specie» del modo di produzione[142], fra «socialismo di Stato», in cui era primaria l’azione dello Stato, e «capitalismo di Stato», esito delle modalità di perpetuazione adottate per fuoriuscire dalla «Grande crisi» e per la conduzione del grande conflitto successivo, la Seconda guerra mondiale, ossia le politiche economiche «keynesiane» (peraltro, assunte anche laddove non si faceva alcun riferimento a Keynes[143]).
Ma, successivamente ancora, nel capitalismo “in senso pieno”[144] si è determinata una spinta combinata: quella da parte del politico-statuale, volta sul piano strategico globale al dispiegamento del primato monocentrico Usa, affermando il predominio del «blocco occidentale» a dominanza statunitense rispetto all’altro «genere», quello «orientale» a dominanza sovietica; quella da parte dell’economico-capitalistico, volta all’ulteriore dispiegamento del modo di produzione; quella proveniente anche dalla tecnologia, volta al dispiegamento pienamente libero dei propri sviluppi e applicazioni. Gli ostacoli erano, sul piano mondiale, lo statalismo del «blocco orientale» connesso alla potenza dell’Urss e, sul piano dei paesi «avanzati» del «blocco occidentale», i «dispositivi» derivati dallo “stadio” politiche economiche «keynesiane», divenuti impacci a tale spinta combinata[145]. Perciò si poneva l’imperativo – dal punto di vista della statualità, del capitale e della tecnologia – di procedere oltre[146], avanzando in un’ulteriore fase della cosiddetta «globalizzazione», supportata dallo sviluppo di appositi «organismi internazionali»[147]: per utilizzare altrimenti il surplus sociale raccolto dallo Stato, cioè ai fini della permanenza e preminenza della potenza; per mettere tutto il globo a disposizione del capitale per il profitto; per porre tutto il pianeta come terreno di intervento della tecnologia.
Ciò ha avuto successo, e ci siamo dentro – però con ulteriori “problemi”, dovuti alle ricadute (o non previste o, se pur lo sono state, lasciate in “non cale”), che portano, anch’esse globalmente, alla contrazione:
- sul piano del politico-statuale, l’indirizzo del surplus sociale monopolizzato dallo Stato verso altre priorità – in primo luogo i suoi apparati di comando e controllo, e di potenza (forze armate a uso estero e interno), nonché l’afflusso diretto (investimenti e finanziamenti) all’economico-capitalistico – colpisce le condizioni di vita di parti consistenti della popolazione negli stessi paesi detti «avanzati», riduce il consenso alla «rappresentanza» (anche se ciò si esprime nel distacco dalla “sfera” della cosiddetta «politica» ed è oggetto di campagne continuative per mantenere consensi e amministrare i dissensi), entra in contraddizione con la tendenza al maggiore controllo (e manipolazione) – oltre al situarsi della potenza nel contrasto fra volontà di predominio monocentrico degli Usa e tendenza al multipolarismo di altri Stati (in primo luogo la Russia, ma non solo), il che è fonte di quello che si è già definito (nel presente testo) come «stato di guerra permanente».
- Sul piano dell’economico-capitalistico, tramite l’utilizzo dei mezzi di produzione fondati sull’applicazione del nuovo campo tecnoscientifico[148], cioè a base informatica, mentre la produzione cresce in maniera esponenziale, si contrae, in proporzione, il numero degli “addetti” – bilanciato solo provvisoriamente dal coinvolgimento nella fase attuale della «globalizzazione» capitalistica di precedenti o altri settori (con tanto di “strizzatura” degli assetti preesistenti finché possono “rendere”, per poi chiuderli e/o “ristrutturarli”), e di interi nuovi e grandi paesi, ma già contrastato dalla tendenza (per l’accrescimento immediato del profitto) a ridurre la quota di risorse destinate ai lavoratori, riducendone anche le tutele[149]. Di conseguenza, si determina un diverso procedimento, quello intensivo (al posto dell’estensivo precedente), che è di contrazione-esclusione – con l’eliminazione di assetti precedenti (unità e rami produttivi «obsoleti», nonché comparti di consumo locale, autoconsumo, sussistenza), che comporta non solo la deindustrializzazione, ma anche la desertificazione produttiva[150] (compreso il settore fondamentale per l’esistenza, quello agro-alimentare) di intere aree, e con masse crescenti di esseri umani espulsi[151].
- Sul piano tecnoscientifico, l’azione si è concentrata sulle vie della massima produzione con minimo numero di “addetti”, dell’accrescimento del prodotto “in sé” (si pensi al campo alimentare, dai fertilizzanti sintetici agli «organismi geneticamente modificati») – ponendosi in circolo funzionale con le direttrici dell’economico-capitalistico -, sulle forme sempre piú insidiose e (in potenza e anche in atto) capillari di controllo e manipolazione in tutti i campi, connessi anche a “ritrovati” tecnomedici, che vanno verso il corpo-macchina, oltre che sul complesso del campo militare, dove le applicazioni (su una scala che va dai mezzi di distruzione robotizzati e “informaticizzati” al potenziamento cibernetico dei singoli “addetti”, piú che soldati, anche loro in obsolescenza, e tantomeno antichi guerrieri) – ponendosi in circolo funzionale con le direttrici del politico-statuale.
Ma precisamente tale situazione comporta che la «crescita» infinita e indefinita si è bloccata in un incastro contraddittorio e non solubile: nel potenziamento delle sue capacità di imperio, lo Stato contrae la sua espansione; nell’aumento della capacità produttiva, il capitale contrae la sua accumulazione (di risorse come profitto)[152]; nell’accrescimento dei suoi ritrovati, la tecnologia contrae i suoi interventi in applicazioni referenti solo agli imperativi di Stato e capitale, e autoreferenziali.
Il modo di produzione dell’economia politica, precisamente attraverso il successo conseguito – si è espanto globalmente e ha riassorbito le spinte critiche (teoriche e pratiche) o comunque le ha ridotte di intensità e incisività -, fallisce nel conseguimento della piena totalità (a cui aspira, come propria spinta di fondo), ma, invece, si contrae, avvitandosi su se stesso
* * *
[3] Populismo. Basta riportare in proposito il passo seguente di Jean-Claude Michea, volto ad attestare l’intenzionale distorsione e ricercata falsificazione del termine, attuate al fine di screditare quanto implica:
non si dirà mai abbastanza come una delle manipolazioni piú straordinarie, riuscite negli ultimi vent’anni[153], da parte dei professionisti della menzogna giornalistica, sia verosimilmente stata quella di trasformare il concetto di «populismo», “pezzo” conduttore dell’eredità rivoluzionaria dal XIX sec., in un concetto repulsivo, pressappoco sinonimo di nazismo. […] È però sufficiente rileggere la maggior parte dei testi della tradizione rivoluzionaria (senza neanche risalire alle origini russe e americane) per misurare l’ampiezza del fuorviamento e la potenza dei mezzi di falsificazione che sono stati necessari per condurlo a termine. Riprendiamo, per esempio, per quanto riguarda la storia del populismo, al testo classico di Fernando Mires, che fu uno dei principali dirigenti del M.i.r. cileno […[154]]. Certamente, vi si trova un’acerba critica del populismo di Salvator Allende […]. Resta nondimeno che egli conclude cosi la sua analisi: «al di là delle loro diversità, i movimenti populisti presentano numerosi punti comuni. Si caratterizzano innanzitutto per il rifiuto dell’ordine esistente e per un’ideologia e una pratica rivoluzionaria conseguenti». Tali testi, moltiplicabili all’infinito, fanno […] pensare che l’arte di cancellare il passato, e tutte le tracce che vi possono condurre, è divenuto ai nostri giorni l’essenziale del mestiere di giornalista. Cosi [… funziona] il Ministero della Verità[155] […][156].
E la distorsione-falsificazione ha funzionato appieno: tutti o quasi, quando ricorrono all’uso dei termini «populismo», «populista», lo fanno nell’accezione repulsiva messa in luce da Michea; quasi tutti, compresa gran parte dei “sinistri”, rimandando cosí a un classismo tanto astratto quanto vacuo – mentre il solo classismo effettivamente esistente è quello delle classi dominanti –, e degradando in partenza, già a livello delle parole – e le parole sono importanti, perché tramite esse si formula il pensiero -, i processi e movimenti, le proteste e rivendicazioni (al di là della questione se siano di per sé sufficienti) popolari, cioè dei lavoratori e classi subalterne, ossia, appunto, populisti.
Pertanto, è opportuno tener conto del fatto che chi usa i termini «populismo», «populista» nel senso negativo a essi attribuito fornisce, con ciò, già un certo indizio della sua acriticità rispetto alla “messa in forma” ricevuta.
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[4] Fallimento della specie umana. Questa affermazione può apparire come una sorta di profezia iper-catastrofistica, peraltro vaga e vacua, che risulta poco credibile e che lascia scettici, e che, in fondo e infine, sembra retorica. E invece proprio questo è il “nodo” – che va chiarito.
Innanzitutto, il termine «fallimento» non va inteso come non conseguimento di un fine predeterminato – assegnato dalla divinità[157] o secolarizzato in «senso della storia» (dall’hegeliana conclusione del divenire dello spirito nello «spirito assoluto», con tanto di «fine della storia», al «progresso» infinito, grazie alle meraviglie della scienza e della tecnica, del positivismo, fino al “miglioramento” continuativo promesso in nome di una benevola «ragione», il cui «sonno» è pernicioso, etc.).
Non c’è alcun fine predeterminato: l’umanità è l’esito di un caso (un’innovazione) che si è determinata nella serie di ripetizioni (segnate a loro volta, via via, da altre innovazioni) della vita organica (dovuta anch’essa a un’innovazione nella ripetizione dell’esistenza inorganica) sul pianeta Terra, il terzo del sistema solare posto intorno al Sole, una stella di media grandezza e di media età, e situato in un braccio periferico di quella galassia di stelle, che denominiamo «Via lattea» – e la presenza, il divenire, la scomparsa dell’umanità (e anche della stessa biosfera, della natura vivente) sono semplicemente insignificanti per il pianeta stesso, per il Sole e il sistema solare, per la galassia, per l’universo.
Il fine, quello ultimo, conclusivo, sostanziale, … ebbene, non c’è, non vi può essere, né vi deve essere. Ma, nel contempo, un fine, o piuttosto una condizione di fondo da conseguire, c’è: l’autodeterminazione[158], da parte degli esseri umani liberi e coscienti, di quelle che, via via, sono le loro esigenze, prospettive e finalità specifiche. Esseri umani consapevoli di ciò che sono, situati nella biosfera, componenti della natura, abitanti di un pianeta che è l’unico che hanno – e che sono coscienti di non esserne padroni e signori.
Fra gli esseri umani l’autodeterminazione è esistita, ergendosi in civiltà (come quella greca antica – vedi anche [5] e [7]), in momenti storici (come nelle libere repubbliche comunali), in gruppi e individui (come coloro di che hanno dato vita a scoperte e creazioni, nei diversi campi, e i loro entourages di referenza), ed è l’autodeterminazione che ha generato quanto ancora ha valore ed è degno di essere ripreso, mantenuto, sviluppato. Ma è stata battuta, schiacciata, distrutta dalle potenze che si sono levate contro e su di essa, fino al modo di produzione della modernità, in cui l’eteronomia di potenze alienate domina in tutto e su tutto (pur non conseguendo la totalità a cui aspira).
Il fallimento della specie va, dunque, inteso nel senso che venga irrimediabilmente mancato il conseguimento della condizione di fondo indicata. Con ricadute disastrose: in un’umanità che continua a proliferare senza cessa in alcune aree e in altre si blocca e arretra come numero, masse di abbandonati a se stessi e basta, di cui nessuno si occupa; masse di esclusi dal “sistema”, che si arrabattano per essere inclusi[159]; masse di inclusi nel “sistema”, che sgomitano per mantenersi tali e, se possibile, per salire nei gradini della stratificazione; strati di “primi serviti” del “sistema” in cui si “incarna” la dominanza, che si pascono del loro esserlo e della quantità di consumi disponibili – nell’impazzimento del dominio statuale e delle guerre che comporta, del capitale alla ricerca di sempre maggiore profitto, della tecnologia che “tecnoscientificizza” tutto, dal tessuto urbano, interurbano ed “ex naturale”, alle persone, “macchinizzate” e infuse di nanoparticelle, il tutto in una biosfera e in una natura del tutto devastate. E cosí, mentre gli abbandonati gettati nella sciagura resteranno da sollevare dall’abbandono, e gli esclusi continueranno a volersi includere, gli inseriti e i “primi serviti”, che intendono restare tali, esisteranno su una terra che allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce[160].
L’ultimo uomo, quello che non scaglierà piú la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare![161]
Ed ecco l’ultimo uomo,
quegli che non sa disprezzare se stesso. […] «Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?» – cosí si domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio.
«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio.[…]
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente.
Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo […] chi sente diversamente va da sé al manicomio.
«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio[162].
Avanzata verso il degrado, nel degrado di tutta la natura, seguita dall’estinzione della specie? Forse anche no, dato che, di questo tipo umano, la genia è indistruttibile, come la pulce della terra: l’ultimo uomo campa piú a lungo di tutti[163].
O forse, infine, anche sí, nell’imporsi della sua insensatezza nella devastazione. Ma, in fondo, questi «no» o «sí» che effettiva rilevanza hanno? Comunque sia, è questo il fallimento della specie – solo prossimo venturo? O non vi siamo già avviati?
Anche perciò bisogna vedere di contrastare e rovesciare il processo, fondandosi su ciò che vi si oppone (e che necessariamente esiste e si pone – come si è detto: p. 22 ss.). E non si tratta solo di una battaglia politica e nemmeno solo sociale, e nemmeno solo culturale, etc., intese in senso piú circoscritto: riguarda – e non è retorica – il presente di adesso e di domani, e il possibile avvenire, degli esseri umani.
* * *
[5] Universalismo, “religionismo”, “occidentalismo”. Il presente “universalismo” non corrisponde affatto a un’«umanità planetaria», che rimane al di là da venire, ma soltanto alla «globalizzazione» attuata dalle potenze del “sistema”, che tendono a “performare” l’umanità «a propria immagine e somiglianza» (concretizzazione laicizzata della creazione dell’uomo da parte del dio giudeo-cristiano-islamico) – ossia statualità liberal-liberista[164], capitalismo esteso a tutti i campi e a tutto il pianeta, il quale diventa nel suo complesso terreno degli interventi della tecnologia dispiegata. Il che avvolge e travolge, oscura e cancella, in un magma dissolvente, tanto informe, quanto funzionale al “sistema”, la visione del mondo e le capacità di pensare, la storia e le civiltà, e che tende a cancellare quanto di piú importante è stato creato – ed è stato creato qui, nell’Europa mediterranea e occidentale, in Occidente –, e che è quanto di meglio, e pur sempre ostinatamente fattivo, si trova nella storia (anzi, nelle storie) degli esseri umani. Come sottolinea Cornelius Castoriadis, c’è qualcosa che è la specificità, la singolarità e il pesante privilegio dell’Occidente: questa sequenza sociale-storica che comincia con la Grecia e riprende, a partire dall’XI sec., è la sola in cui si vede emergere un progetto di libertà, di autonomia individuale e collettiva, di critica e di autocritica: il discorso di denuncia dell’Occidente ne è la conferma piú éclatante. Perché si è capaci in Occidente, o almeno alcuni di noi lo sono, di denunciare il totalitarismo, il colonialismo, la tratta dei neri o lo sterminio degli indiani di America. Ma non ho visto i discendenti degli atzechi, gli indú o i cinesi fare un’autocritica analoga, e vedo ancora oggi i giapponesi negare le atrocità che hanno commesso durante la Seconda guerra mondiale. Gli arabi denunciano senza cessa la loro colonizzazione da parte degli europei, imputando a loro tutti i mali di cui soffrono – la miseria, la mancanza di democrazia, l’arresto dello sviluppo della cultura araba, etc. Ma la colonizzazione di certi paesi arabi da parte degli europei è durata, nel peggiore dei casi, 130 anni: è il caso dell’Algeria, dal 1830 al 1962. Ma questi stessi arabi sono stati ridotti in schiavitú e colonizzati dai turchi per cinque secoli. La dominazione turca sul Vicino e Medio oriente comincia nel XV sec. e termina nel 1918. Ma capita che i turchi fossero musulmani – dunque gli arabi non ne parlano. Il dispiegamento della cultura araba si è fermato verso l’XI, al massimo il XII sec., otto secoli prima che sia in questione una conquista da parte dell’Occidente. E questa stessa cultura araba si era basata sulla conquista, lo sterminio e/o la conversione piú o meno forzata delle popolazioni conquistate. In Egitto, nel 550 della nostra era, non c’erano arabi – e non Libia, Algeria, Marocco, Iraq. Gli arabi vi sono come discendenti dei conquistatori venuti a colonizzare questi paesi e a convertire, di buon grado o per forza, le popolazioni locali. Ma non vedo alcuna critica di questi fatti nella civiltà musulmana. Parimenti, si parla della tratta dei neri da parte degli europei a partire dal XVI sec., ma non si dice mai che la tratta e la riduzione sistematica dei neri in schiavitù sono state introdotte in Africa da mercanti arabi a partire dall’XI-XII sec. (come sempre, con la partecipazione complice dei re e capi tribú neri), che la schiavitú non è mai stata abolita spontaneamente nei paesi islamici e che sussiste sempre in un certo numero di questi. Non dico che tutto ciò cancelli i crimini commessi dagli occidentali, dico solo questo: che la specificità della civiltà occidentale è questa capacità di mettersi in questione e di autocriticarsi. Vi sono nella storia occidentale, come in tutte le altre, atrocità e orrori, ma non c’è che l’Occidente che ha creato questa capacità di contestazione interna, di messa in causa delle proprie istituzioni e delle proprie idee, in nome di una discussione ragionevole fra esseri umani, che resta indefinitamente aperta e non conosce dogma ultimo[165].
E Castoriadis dice ancora al riguardo,
per esempio, la filosofia indú non ha mai messo in causa il mondo sociale, o […] i commentatori arabi di Aristotele hanno scritto interminabilmente sulla sua metafisica e la sua logica, ma hanno radicalmente ignorato tutta la problematica politica greca: ugualmente, bisogna attendere lo scomunicato Spinoza per trovare una riflessione politica nella tradizione ebraica[166].
Certamente, l’Occidente “ufficiale” – coincidente con le centrali del “sistema” – svolge il contrario di una funzione di emancipazione sul resto del mondo, né tantomeno avanza nell’
erosione delle significazioni religiose, per quanto queste blocchino la costituzione di uno spazio politico, [… e tende] a rafforzare la loro impresa[167].
Anzi, si può aggiungere, l’Occidente “ufficiale” rianima le presenze di queste forme di dominio precedenti alla modernità, ossia al dispiegamento del modo di produzione dell’economia politica, quale sbocco, in ultima istanza innocuo per il “sistema”, delle intime contraddizioni e della disperazione sociale e individuale, del vuoto e non-senso dell’esistenza, che si espandono nella realtà data, sotto gli imperativi del modo di produzione stesso – e anche come ideologia per rivoluzioni anti-regimi locali in quello che veniva detto «terzo mondo», e perfino per battaglie che si pongono come “anti-occidentali” (si vedano le varie gamme dell’islamismo nei paesi arabi), in quanto i loro eventuali successi non solo non mettono realmente in crisi, ma neanche in effettiva discussione, il “sistema” stesso[168].
Il rimando all’Occidente è altro, e tutt’altro: va all’indicato versante di critica e di creazione di civiltà. Che si oppone e contrappone all’adesione alle «grandi religioni» – la “pianta” tripartita, con ulteriori biforcazioni e diramazioni dei suoi rami, che è il giudaismo-cristianesimo-islamismo -, le quali hanno comportato e apportato gravissimi danni alla civiltà[169], costituiscono, mantengono e sostengono l’adesione all’eteronomia (come si è detto), rafforzano lo sprofondamento nell’evaporazione delle capacità di pensare (e di piú, dell’istinto e dell’intuito) di fronte al dover credere in assurdità, situandosi anch’esse come componente del “sistema” – e questo vale ugualmente per tutto il “religionismo”, con le differenziate adesioni, religiose o cripto-religiose: al buddismo, a “orientalismi” vari, a sincretismi o neo-sincretismi di religioni, a esotismi, a esoterismi, a misticismi di vario genere, etc.[170].
In quanto componente del, e per il, “sistema”, il liberalismo accetta e accoglie le «grandi religioni» – purché non intendano prevaricare sul “sistema” stesso, secondo la loro sostanza di fondo, che era, è, e resta, costituita dal fondamentalismo e integralismo[171] – e parimenti accetta e accoglie tutto il “religionismo” – purché non comporti eccessive fuorvianze -, in base ai principi di libertà di opinione, religione, associazione, una volta che si sia aderito ai regolamenti dello Stato liberale e al mercato liberista: e deve essere chiaro che questo è stato, e rimane, un passo avanti da non sottovalutare e da accogliere appieno (anche se tale avanzata civile sotto il manto del liberalismo-liberismo è servita al dispiegamento delle potenze costitutive del “sistema”), rispetto al “clima” soffocante, opprimente e bloccante … tutto, che le chiese-religioni hanno imposto, avrebbero continuato a imporre, e impongono ancora, laddove possono e con chi possono[172].
A ciò si unisce il rispetto – che ostentano o affermano in particolare i politici di professione con tanto dei loro partiti (aderenti e consensi non bastano mai …), e inoltre studiosi vari, e in generale un po’ tutti – in primo luogo per le «grandi religioni» (consentendo a esse anche non pochi privilegi, di influenza politica e potere economico, si pensi solo alla Chiesa cattolica in Italia), nonché per il “religionismo” in genere, per tutte le «fedi», culti, credenze, etc.
Ma nessuno spiega perché mai si dovrebbero rispettare credenze assurde, dannosità sedimentate e organizzazioni di dominio. Il passo avanti compiuto dal liberalismo-liberismo non lo richiede, anzi procede precisamente da una semplice riduzione del peso e della considerazione di chiese, religioni e “religionismo”. Non va, invece, espresso, e manifestato il disprezzo? Il disprezzo che l’autonomia deve avere per l’eteronomia, nella comprensione dell’aberrazione che tutto questo ha comportato e comporta, dell’ostacolo complementare che costituisce alla costruzione e affermazione della democrazia dei liberi cittadini.
“Ma vi deve essere almeno rispetto per le persone dei fedeli, aderenti, credenti”, si usa correntemente dire e mettere in atto. Ora, deve essere chiaro che non si tratta certo di farneticare su una sorta di “apertura di ostilità” o addirittura su qualche forma di “persecuzione” – anche se, va sempre ricordato, precisamente le chiese-religioni l’hanno sempre condotta e sempre la condurrebbero, se potessero, contro i “non-credenti” o comunque i non adeguatamente ossequienti, e ancora la conducono laddove possono (si pensi ai paesi islamici, contro gli «infedeli» e contro i trasgressori della «legge islamica»). E nessuno spiega perché mai si dovrebbero rispettare coloro che aderiscono (per convinzione, ignoranza o abitudine) ad assurdità, dannosità e organizzazioni di dominio, concorrendo cosi a mantenerle e perpetuarle.
Rispettando costoro, non si rispettano, in qualche modo, anche queste loro “affiliazioni”, e, in qualche misura, non ci si concilia anche con ciò che mantengono e perpetuano?
No, non è ammissibile nessuna forma di conciliazione. Nei confronti di adepti e aderenti, «fedeli» e «credenti» (per interiorizzazione o per conformismo), finché rimangono tali – e tanto piú riguardo a preti con vesti nere, rosse, gialle, con zuccotto, chierica, turbante, in “divisa” o senza, “ufficiali” o nei fatti, e qualunque cosa dicano o facciano[173] – vanno, invece, segnati il distacco e la non-considerazione: sono parte organica della necessità di marcare la differenza fra sudditi e no.
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[6] In Italia. Le cifre del disastro in atto nel nostro paese si susseguono e chiunque se ne può rendere conto (almeno se lo voglia, senza lasciarsi rimbombare da politici ed “esperti” vari, e altoparlanti mediatici), anche tramite gli stessi media (stampa e tv) “ufficiali”(nonostante l’adesione e funzione dei diversi media rispetto alle differenti fazioni e frazioni della «classe politica» e connessi partiti, a centri di potere dell’economico-capitalistico, etc.). E, pur sotto le dichiarazioni di “cauto ottimismo” da parte della giunta (governo) attuale, di politici vari, di addetti ai media – altalenanti con il tamburo della necessità dei “sacrifici” per “salvarci dal (presunto e asserito) baratro” (ossia la spremitura della popolazione per pagare al comparto finanziario-bancario gli interessi sul debito statale) e dell’esigenza di “piú produttività e piú competitività” – risulta del tutto palese che:
- il tessuto industriale italiano è in dismissione al livello delle grandi imprese (vedi il declino di quelle «strategiche», come l’Eni e la Finmeccanica, connesso alle manovre di loro scorporo e svendita ad altrui, vedi la fuoriuscita progressiva della Fiat, divenuta trasnazionale Chysler-Fiat, etc.), e in distruzione al livello delle “reti” delle imprese medie, piccole, piccolissime; il tessuto della distribuzione-circolazione è oggetto dell’incalzante scomparsa di quella piccola e piccolissima; il tessuto agro-alimentare è in ulteriore caduta – mentre il degrado sia dello spazio urbano, sia dell’ambiente nel suo complesso, avanza senza sosta.
- Il tasso di disoccupazione – dati “ufficiali” – viaggia (2012) verso l’11% della «forza-lavoro attiva» e verso il 37% dei giovani (pur sempre meno giovani), senza contare il precariato e l’estesa inoccupazione (coloro che non risultano nemmeno cercare lavoro), il che vale ancora di piú per la parte femminile della popolazione[174].
- Meno del 10% della popolazione del nostro paese, ivi compresa quella parte delle classi dominanti che è la «classe politica», detiene il 50% delle ricchezze – né le risorse mancano per gli “impegni militari” (quali ascari al servizio, in primo luogo, degli Usa), per le «grandi opere» devastanti e inutili (per la popolazione, ma utili al “sistema”[175]), per la tecnologia (i fondi per la «ricerca» sono aumentati, nonostante le costanti lagnanze per la loro insufficienza dei diversi comparti tecnoscientifici), per gli apparati statuali di permanenza, di controllo, di potenza (pur fra sprechi insensati in alcuni settori e riduzioni in altri) –, mentre il restante oltre 90% della popolazione si deve accontentare del rimanente 50%, peraltro spartendoselo in maniera del tutto stratificata, e complessivamente dovendosi “strizzare” – e venendo “strizzata” – ulteriormente in tale quota.
- Le previsioni sull’agognata «crescita» (alias ripresa produttiva subordinata e finalizzata all’accumulazione del capitale, come si è detto) restano negative (per il 2013), incerte per il seguito (2014), poi … si vedrà, poi ancora … non si sa (ma si indica la continuazione della crisi fino al 2017), mentre la spremitura “anti-baratro”, attuata e in corso, e in ulteriore prosequio, se ha portato ad “assicurare” un po’ gli «investitori» e i «mercati» (traduzione: il grande capitale transnazionale, e finanziario e bancario, nonché le grandi potenze, Usa in primis, nelle cui strategie le manovre finanziario-speculative si situano e inseriscono), “tranquillizzandoli” sulla continuazione dell’assorbimento di risorse dal nostro paese, perché lo Stato italiano è obbediente e sottomesso, non ha però portato a nessuna riduzione, anzi nemmeno a un arresto, del debito statale, che è già prossimo (2012) ai 2000 miliardi di euro[176].
Tutto ciò evidenzia un disastro in avvitamento, ma la situazione è ancora piú deteriorata e in deterioramento di quanto non dicano già questi incontrovertibili dati: lo è in profondità. Vediamo, infatti, alcuni (e solo alcuni, perché si possono ben estendere) altri dati ancora, a loro volta facilmente constatabili:
- il paese appare diventato di cartapesta: se arrivano piogge piú forti, con regolarità impressionante si hanno alluvioni, se nevica si bloccano intere città e aree abitate – la cartapesta si imbeve e si spappola –, mentre, se non si hanno precipitazioni per qualche mese, “siamo in siccità!” – la cartapesta si secca e si sgretola. “Mutamenti climatici!”, “Grande allarme!” – si dice. Certo, i danni apportati alla natura sono senz’altro già ingenti, il che si combina con la mutevolezza del clima in ampi periodi, ma la faccenda è tutt’altra: si tratta, in primo luogo, del dissesto idro-geologico (in cui si uniscono abbandono e devastazione) attuato nel nostro paese, insieme alla proliferazione scriteriata dello spazio urbano (in forme legali e illegali, speculative o comunque di espansione senza sosta) come tessuto urbano (non piú città e non piú campagna)[177], e questo è l’esito della pervasività continuativa del modo di produzione, né viene fatto alcunché per mutare direzione – al di là di richieste di fondi per rappezzare le devastazioni (e continuare sullo stesso piano, dando soldi direttamente a una serie di imprese, con tassazioni aggiuntive, etc.)
- La società si sta disgregando, nel senso della caduta dei mores communes – è inutile portare esempi: basta la cronaca quotidiana (anche se la si vuole depurare dall’opera mediatica di spettacolarizzazione, tesa a convogliare morbosamente l’attenzione, svolgendo il consueto fuorviamento dai veri “nodi”) –, nell’ascesa non tanto e soltanto di una diffusa micro-criminalità (e non solo quella grande, quella organizzata), ma nell’estensione dei comportamenti criminali; si sta disgregando perché presa, serrata e schiacciata nella tenaglia del politico-statuale e dell’economico-capitalistico, confinata in uno spazio urbano sempre piú fatto a loro impronta e comando, dove l’antico habitare (con i suoi spazi di socialità e interrelazione) è ridotto ad habitat (riproduzione delle funzioni essenziali), dove il tempo di lavoro (se c’è e quando c’è) e il tempo di consumo sono ugualmente coatti, e nella capillarità estraniante dei media, a cui si è aggiunta Internet, con il “tempo di computer” davanti allo schermo del monitor – e in nuovi arrivi (superanti, in questo 2012, i 4 milioni e mezzo di unità) con le loro attitudini e legami “altri”, e uniti al resto sostanzialmente solo dal plafond di lavoro-consumo, concorrono, oggettivamente, alla disgregazione. E nella società in disgregazione anche l’individuo (l’individuale si può formare soltanto in relazione dialettica con il sociale) si disgrega, oscillando, tendenzialmente, fra regole e violazione di esse: l’esito è quello in corso, per cui al sociale subentrano masse di atomizzati, comunque “messi in forma” dal contesto delineato.
- La trasmissione dei saperi è in netta crisi: mentre gli apparati statuali (e anche privati, per lo piú connessi alla Chiesa cattolica) sono lanciati nell’«insegnamento dell’ignoranza» (di cui si è detto – p. 7, n. 6), si tende a cancellare la storia e le sue tracce, e a far svanire le capacità di analisi critica (sostituite dalla retorica e vacua “ma io la vedo cosí”), lasciando tutto alla “messa in forma” mediatica e/o (in particolare per i piú giovani) al confusionismo della “rete”, dove “c’è tutto”, per lo piú superficialmente e opinabilmente, e il contrario di tutto – per il resto, se ciò non basta, c’è il versante del “religionismo” vario.
- Gli “scandali” sono continuativi – è di nuovo inutile portare esempi (e di nuovo basta seguire i media, e pur depurandoli, etc., come sopra) – in tutti i campi, apparati, istituzioni, dalle manovre di grandi gruppi capitalistici a quelli finanziari e bancari, dagli apparati statuali o para-statuali che hanno assunto «servizi» e «funzioni» sociali (come nella sanità, ma non solo) alle appropriazioni indebite nelle istituzioni locali, regionali, centrali. E non si tratta solo di “problemi” o situazioni particolari, o soltanto degli atti di specifiche persone: nella “forbice” (di ricchezze e risorse) fra massa della popolazione e strati dominanti, e mentre i dominanti hanno accettato appieno il loro ruolo di subdominanti, dato il “colpo” autoritario mascherato avvenuto in Italia (come si è detto – p. 13 ss.), e si mostrano per gli spregevoli personaggi che sono (come risulta palese, o meglio dovrebbe risultarlo, ma cosí non è), viene alla luce l’attitudine a “mangiare quanto piú si può”, in tutti i campi e, in particolare, in quelli della «classe politica». Tutti costoro sono sempre piú inutili sia per la gestione dell’economico-capitalistico (rivestono semplicemente dei “posti” e ruoli – il che vale anche per dirigenti delle istituzioni addette alla formazione e dei comparti tecnoscientifici), sia per la gestione (governo) statuale (dal livello centrale alle articolazioni regionali e locali), benché, questi ultimi, ancora utili per assorbire consensi e dissensi – e ciò, nell’aumento dell’inutilità e nella riduzione dell’utilità, ogni tanto viene allo scoperto (ma come punta dell’iceberg), sia per eccessi di appropriazione, e sia anche a causa delle lotte sorde fra settori dello Stato, nonché fra grandi gruppi economici, e fra frazioni, fazioni e singoli esponenti della «classe politica» stessa[178].
- Non è secondario rilevare la caduta libera in cui si trova la lingua italiana[179], ovunque: dai testi della stampa a come si parla in tv, fino ai brevi periodi e frasi smozzicate sulla «rete», e a come si esprimono le persone “comuni”. E non si tratta solo della pur rilevante caduta del congiuntivo (il tempo verbale della possibilità o dell’esortazione)[180], eliminato e basta e/o confuso con il condizionale (il tempo verbale della condizione), e dell’esposizione e pronuncia (in primo luogo televisive, ma anche nei film e telefilm italiani) infarcite di dialettismi (specie lombardi o romaneschi, non senza evitare, inoltre, vari bofonchii), che propongono un “modello linguistico” ridotto e distorto. Si ha l’avanzata dell’anglicismo[181]: dall’utilizzo di termini anglici al posto di quelli corrispondenti (e spesso piú significativi) italiani, all’invasione delle canzonette (parole e musica) confezionate in anglico dall’industria del divertimento[182], e delle scritte (negozi, segnalazioni turistiche[183], pubblicità, etc.) sempre in anglico, fino al suo uso da parte di giornalai, televisionai e “dotti” vari (tanto che già lezioni alla Facoltà di medicina o di economia si tengono … in anglico) – per non parlare dello strabordare anglicistico in Internet. Le giustificazioni dei tanti pappagalli-sudditi (se richiesti, e se mai le diano) sono balbettamenti sull’“inglese lingua internazionale” et similia, ma ciò non spiega perché lo si usi per concorrere alla depauperazione e caduta di quella che è stata una grande ed espressiva, sonora e duttile lingua, l’italiano. Infatti, anche ciò rivela qualcosa di piú profondo – come l’attenzione costante a quanto succede negli Usa, tanto che tutte le reti tv sono arrivate a seguire non solo le «primarie» statunitensi, ma addirittura minuto per minuto le elezioni presidenziali negli Stati Uniti: come se il nostro paese fosse uno degli Stati dell’Unione, e senz’altro manifestando l’aspirazione a esserlo. Rivela la penetrazione e l’interiorizzazione della sudditanza all’estero, al mondo anglofono, e agli Usa in primo luogo – ricaduta, nei fatti, della lunga subordinazione agli Stati Uniti, portata recentemente al suo livello terminale.
Ciò che viene alla luce è il dissolvimento che sta investendo il nostro paese e la sua popolazione, su tutti i piani: sotto uno Stato subalterno e classi interne dominanti in quanto subdominanti, l’Italia sta diventando appieno a un “pontone” a disposizione degli Usa e maggiori potenze sue alleate, e del grande capitale transnazionale, e dei loro apparati tecnologici – perciò cade nella dissoluzione, che, del resto, è tipica dell’azione degli Usa & Co.: dovunque mettano piede, il paese va in dissesto permanente e non ne esce piú, il che serve egregiamente alle manovre di dominio (spostando l’appoggio da questo a quello o quell’altro, mettendo gli uni contro gli altri, etc.) e convince a mantenere i pur tentennanti e dipendenti assetti di volta in volta raggiunti.
Va da sé che non si dà che tutto ciò possa continuare a procedere senza contraccolpi, a cui si può agganciare l’opposizione a questa situazione e che questa deve essere componente fondamentale della costruzione dell’autodeterminazione da parte delle associazioni di democrazia, nel e per il progetto che qui si è proposto. Che sia difficile va parimenti ridetto di nuovo, ma bisogna cercare di farlo. Anche perché si è superata perfino l’insopportabilità – e basti ricordare un aneddoto[184].
Gli spregevoli individui che hanno condotto all’approdo la subordinazione agli Usa & Co., con il collaborazionismo della «classe politica», relativi partiti e media, nonché dell’oligarchia italiana nel suo complesso, hanno continuato nell’orchestrazione delle celebrazioni del centocinquantenario (strampalato come ricorrenza) dell’«unità d’Italia». E quale è stata la celebrazione di chiusura (2011)? Questi tetri figuri, impettiti quali buffoni solenni, riuniti a sentire un buffone e basta[185], scatenato a ragliare scemenze retoriche e mistificanti – tutti compuntamente e seriosamente divertiti alle banalità e asinerie sulla formazione dello Stato-nazione italiano, ma certamente con intimo sarcasmo, perché intanto ne portavano a termine la subordinazione, e procedendo dare il via alla spremitura della popolazione e all’affondamento del paese.
* * *
[7] Perché la democrazia «in senso proprio» … sarebbe impossibile. Come dice Cornelius Castoriadis, rispetto all’asserita, sempre ribadita, posta come assodata, impossibilità di andare oltre la cosiddetta «democrazia rappresentativa»,
vi sono parecchie giustificazioni dell’idea di democrazia rappresentativa presso i moderni, ma da nessuna parte presso i filosofi politici, o pretesi tali, un tentativo di dare un fondamento secondo ragione alla democrazia rappresentativa. C’è una metafisica della rappresentanza politica che determina tutto, senza essere mai detta o esplicitata. Qual è questo mistero teologico, questa operazione alchemica, facente sí che la vostra sovranità[186], una [… volta ogni tot] anni, divenga un fluido che percorre tutto il paese, attraversi le urne e ne esca la sera sugli schermi della televisione con i volti dei «rappresentanti del popolo» o del Rappresentante del popolo, il monarca intitolato «presidente»?[187] Si ha qui un’operazione visibilmente sovrannaturale, che non si è mai cercato di fondare o anche di spiegare. Ci si limita a dire che, nelle condizioni moderne, la democrazia diretta è impossibile, dunque occorre una democrazia rappresentativa. Perché no? Ma si può chiedere qualcosa di piú, di meno «empirico»[188].
Ma a questa sua richiesta non vi sono state risposte, né vi sono, né vi saranno – la questione è liquidata come “irrilevante”.
Castoriadis, confrontando la democrazia antica – quella dei greci che l’hanno creata: la democrazia della pólis, e della pólis per eccellenza, Atene[189] –, con la cosiddetta «democrazia rappresentativa» moderna, cosí continua:
esiste, nel regime ateniese, una partecipazione essenziale del corpo politico[190], e leggi miranti a facilitare questa partecipazione – nel mondo moderno, si constata l’abbandono di [… tale] sfera agli specialisti, ai politici di professione […].
Nel Mondo antico, non c’è Stato come apparato o istanza separati dalla collettività politica. Il potere, è la collettività stessa che l’esercita […] – nel mondo moderno, eredità per gran parte della monarchia assoluta, ma molto rafforzato dallo sviluppo ulteriore, per esempio la Rivoluzione francese e il resto, esiste uno Stato centralizzato, burocratico, possente e dotato della tendenza ad assorbire tutto in sé.
Nell’antichità le leggi sono pubblicizzate, iscritte nel marmo perché tutti le possano leggere, e vi sono tribunali popolari. Ogni ateniese, in media due volte nell’arco della sua vita, è chiamato a far parte di una giuria. C’è un sorteggio […] – nel mondo moderno la legge è fabbricata e applicata da categorie di specialisti, incomprensibile per i cittadini comuni, e constatiamo questa doppio legame […]: nessuno è classificato poter ignorare la legge, ma la legge è impossibile da conoscere. Se la si vuol conoscere, occorrono cinque anni di studi giuridici, dopo di che nemmeno si saprà la legge; si sarà specialisti di diritto commerciale, di diritto penale […], etc.
Nel mondo greco c’è un riconoscimento esplicito del potere e della funzione del governo – nel periodo moderno, in cui i governanti sono quasi onnipossenti, si constata un occultamento del governo, nell’immaginario e nella teoria politica e costituzionale, dietro ciò che si chiama «potere esecutivo», il che costituisce una mistificazione e un abuso di linguaggio fantastico. I gradi inferiori dell’amministrazione eseguono, nel senso che applicano, o si suppone che applichino, regole preesistenti che ingiungono di compiere quel tal atto specifico una volta che le condizioni definite dalla regola sono date. Ma quando il governo dichiara guerra non esegue nessuna legge. […] Questo occultamento del potere del governo, la pretesa che il governo non faccia che «eseguire» le leggi (quale legge «esegue» il governo quando prepara, propone e impone un budget?) non è che una parte [… della] duplicità istituita nel mondo moderno […].
Nel Mondo antico esistono gli esperti, ma il loro campo è la téchne, campo in cui ci si può avvalere di un sapere specializzato e in cui si può distinguere fra i migliori e i meno validi: architetti, costruttori navali, etc. Ma non vi sono esperti nel campo della politica. La politica è il campo della dóxa, dell’opinione, e non vi sono né epistéme [scienza] politica, né téchne [arte e tecnica] politica. È perché le dóxai, le opinioni di tutti, sono, in prima approssimazione, equivalenti: dopo aver discusso, bisogna votare. Notiamo en passant questo punto assolutamente fondamentale: il postulato dell’equivalenza, prima facie [a prima vista, di primo acchito], di tutte le dóxai è la sola giustificazione del principio maggioritario (e non procedurale: se bisognasse solo por termine alla discussione a un certo momento, basterebbe allora tirare a sorte) – nell’immaginario moderno, gli esperti sono presenti in tutti i campi, la politica è professionalizzata, e una pretesa a un’epistéme politica, a un sapere politico, viene alla luce, benché anche ciò non sia in genere proclamato pubblicamente (altro caso di duplicità). […]
Nel Mondo antico si riconosceva che è la collettività stessa a essere la fonte dell’istituzione, almeno dell’istituzione politica propriamente detta. Le leggi degli ateniesi cominciano sempre con la famosa clausola: édoxe té boulé kài tó démo …, «è apparso (è sembrato) bene al consiglio e al popolo …». La fonte collettiva della legge è esplicitata […]. [E] non c’è nel Mondo antico una Costituzione in senso proprio […]. La democrazia è, con ogni evidenza, un regime che non conosce norme provenienti dall’esterno, deve porre le proprie norme, e deve porle senza potersi appoggiare su un’altra norma. In questo senso la democrazia è certamente un regime tragico, soggetto all’hýbris, lo si sa e lo si vede nell’ultima parte del V sec. a. C. ad Atene: deve far fronte alla questione della propria autolimitazione[191].
Castoriadis prosegue ancora nel confronto[192], e la democrazia «elettivo-rappresentativa», moderna e attuale, ne risulta per ciò che è: non-democrazia.
Si propone il modello della pólis democratica, il modello della politéia di Atene? Come dice lo stesso Castoriadis, non può essere questo il modello: troppi i limiti (circoscrizione del pieno diritto di cittadini ai maschi liberi adulti, ma nati sempre da cittadini, non provenienti da altre città, status subordinato della parte femminile dell’umanità, nonché dei minorenni, schiavitú[193]) e le contraddizioni che vi permanevano, dalla divisione in classi, con contrasti di classe, nel corpo cittadino (divaricazione nella proprietà dei mezzi di produzione – la terra, con l’attività agricola e di allevamento, ma non solo[194] –, fra grandi proprietari, e medi, e piccoli, e i liberi cittadini con proprietà insufficiente o nessuna proprietà, “questione” mai affrontata o comunque non a fondo, né in maniera generalizzata[195], anche se tali proprietà e attività connesse erano a ogni modo sussunte, e possibili grazie, all’esistenza della pólis come comunità autoistituita di cittadini), alla connessa “esportazione” dei problemi conseguenti, nello sfruttamento imperialistico di territori conquistati e di città subordinate nelle leghe costituite fra città, con chiusura rispetto all’estensione dei diritti della città egemone rispetto alle altre, e, ancora, alle conseguenti guerre continue – con altre città, con altre leghe, con altre potenze, fino alla rovina (in parte rilevante anche auto-rovina) conclusiva della civiltà delle póleis, a partire dal declino procedente dalla fine del IV-III sec. a. C. in poi[196]. Non può essere il modello globale, già pronto – ma in parte, invece, lo è:
- perché dimostra l’esistenza di civiltà umane di alto sviluppo ma senza Stato (piú recenti, dal V sec. a. C., della statualità di regni e imperi, e piú tardi sopraffatte da questi) e la, connessa, immensa ricchezza di creazione che hanno generato, a tutti i livelli della civiltà (arte in tutto il complesso dei suoi campi, storia e filosofia, scienza in tutto il complesso dei suoi campi), che è la base di quanto è stato (pur parzialmente) ripreso poi e che costituisce quanto ancora di valido rimane; e analoga dimostrazione la danno le libere repubbliche comunali (italiane, ma anche anseatiche, nel sud della Francia, e anche altrove nell’Europa occidentale, dall’XI sec. in poi), e in particolare quella di Firenze, dove si è data la ripresa creativa, denominata Rinascimento, della civiltà antica; e proprio sulla caduta (ancora in parte rilevante sempre auto-caduta, e per motivi analoghi a quelli antichi) di queste repubbliche (data terminale: la caduta definitiva della repubblica fiorentina nel 1530)[197] si sono levate le potenze che hanno portato alla modernità[198] – ma i fallimenti mostrano quanto va affrontato, mentre non eliminano quanto si è dimostrato, né cancellano quanto è stato creato.
- Perché il funzionamento di auto-istituzioni e auto-governo da parte del popolo di liberi cittadini rimane un’indicazione pienamente assumibile per il, e nel, funzionamento della democrazia oggi – certamente avendo ben presenti limiti, errori e omissioni di quella passata e puntando a non commetterli, e tenendo ben chiari, fin dall’inizio, i “nodi” (dallo scontro di classe alla necessità di interconnessione paritaria) che quella non ha saputo affrontare, e che invece vanno assunti e risolti.
* * *
[8] Riporre alle spalle. Henri Lefebvre mette in piena luce come il «marxismo» sia andato in pezzi, dividendosi in diversi «marxismi» e «marxisti», sul “nodo” cruciale dello Stato[199]. Se una linea antistatalista percorre tutto il pensiero marxiano – argomenta sempre Lefebvre[200] –, tuttavia l’elaborazione sul politico-statuale è rimasta insufficiente, andando dallo Stato definito quale «comitato d’affari della borghesia» a quanto raggiunto con le analisi sull’esperienza della Comune di Parigi (1871), sintetizzabili nello schema: «dittatura del proletariato, massima estensione della democrazia, deperimento dello Stato»[201].
Ne è seguita una deriva, pur non attribuibile, di per sé, a Marx: il suo opus magnum, ossia Il Capitale, secondo il piano di lavoro, doveva procedere dal livello piú semplice, l’economico, alla società e alle classi, e allo Stato, assumendo, dalla bipartizione capitale-lavoro del modello teorico iniziale, la tripartizione capitale-terra-lavoro – il che, però, non è stato conseguito[202], e infatti Marx ha proceduto alla pubblicazione solo del libro I di Il Capitale (1897)[203].
Peraltro, ben si evince dal complesso della sua opera come Marx sia critico dell’economia politica (Critica dell’economia politica è appunto l’importante sottotitolo di Il Capitale), ma non per porsi a favore di un’“altra” economia, tantomeno politica, bensí sia contro ogni economia, da superare nella riassunzione e sussunzione sociale della produzione-riproduzione della vita reale.
Da questo lascito, incompleto e incompiuto, è venuta appunto, da parte dei “successori”, una deriva, doppia e interconnessa:
- precisamente l’attenzione al livello dell’economico-capitalistico[204] è stata recepita come primaria, nel «marxismo», senza comprendere come questo fosse solo il livello di partenza delle analisi da condurre e sviluppare[205], e comprendendo ancora meno l’opposizione marxiana a ogni economia[206] – per cui, esplicitamente o nei fatti, si è posta l’economia come la base solida, la sostanza di fondo, del modo di produzione dell’economia politica e di ogni sua specifica formazione, e quindi delle classi, del complesso della società, dello stesso Stato, e di conseguenza si è posto come centrale l’economico-capitalistico, le sue condizioni e sviluppi, o inviluppi, e come prioritario l’intervento (piú o meno possibile) su questo piano.
- Precisamente l’insufficienza dell’analisi del politico-statuale, si è tradotta, nel «marxismo», o I) nella ricezione dello Stato come «comitato d’affari», subordinato nelle condizioni date all’economico-capitalistico, ma che può essere utilizzato per altri fini – cosí il versante «riformista», in primo luogo la socialdemocrazia tedesca (ma non solo), con la conseguenza dell’esigenza di un partito ampio e strutturato, che operasse per la presenza nel, e la partecipazione al, politico-statuale dato, quindi all’azione statuale di supporto dell’economico-capitalistico, ottenendo anche miglioramenti per i lavoratori, ma non il mutamento della loro condizione, né il superamento del “sistema” (e con l’abbaglio, di matrice positivistica, riguardo alla tecnologia in sviluppo); oppure II) nella ripresa della «dittatura del proletariato» come obiettivo ovviamente richiedente la previa presa del potere (ossia «lo Stato borghese si abbatte, non si cambia»), con il seguito della prospettiva della «massima estensione della democrazia», e successivamente del «deperimento dello Stato» – cosí il versante «rivoluzionario», in primo luogo Lenin e i “suoi”[207] (ma non solo), con la conseguenza dell’esigenza di un partito ancora piú strutturato, anzi “militarizzato” (con tanto dell’ossimoro del «centralismo democratico»), onde operare per la presa del potere e, una volta questa avvenuta, denominando la struttura statuale, rapidamente ricostituita come Stato-partito (unendo nuovi apporti a resti dei precedenti apparati) per controllare il paese[208] e mandare avanti la «crescita» economica, «dittatura del proletariato», vale a dire portando avanti la pseudo-alternativa al “sistema”, in realtà sua variante e componente (e ancora con l’abbaglio per la tecnologia in sviluppo), in cui la «massima estensione della democrazia» non si distingue da tale «dittatura del proletariato» e il «deperimento dello Stato» svanisce nello «Stato socialista», «Stato di tutto il popolo».
Com’è evidente, il «marxismo» non poteva che frangersi in diversi «marxisti» e «marxismi», piú o meno «riformisti», piú o meno «rivoluzionari», piú o meno commisti fra l’uno e l’altro versante. E tanto piú in quanto il «marxismo» – termine che non piaceva allo stesso Marx, tanto che, intuendo la sistematizzazione che indicava, in un’intervista disse: «io non sono marxista» – si è connesso alla rottura fra Marx e Bakunin, con la divaricazione fra ciò che è diventato «marxismo» e ciò che è diventato «anarchismo» Il che ha comportato, da parte dei «marxisti», l’ulteriore chiusura sul “nodo” dello Stato e l’accentuazione dell’attenzione all’economico-capitalistico-modernista, e al «proletariato industriale» – quindi l’inoltrarsi sulla strada di diventare una componente del “sistema” o di dar vita a una sua variante; da parte degli «anarchici», l’ulteriore accentuazione sullo Stato, con i suoi “gestori” e “agenti”, come obiettivo centrale da colpire e abbattere (e anche la Chiesa e la religione: «né Dio né Stato» è un loro noto slogan), e la minore attenzione ai processi economici, tanto da rivolgersi nella loro propaganda, agitazione e tentativi di azione anche ai contadini poveri, braccianti, etc., ma senza una prospettiva diversa da quella di insurrezioni liberanti dall’oppressione, senza riuscire a concretizzare una conduzione “altra” della società – quindi l’inoltrarsi sulla strada della presenza in, o anche dell’accensione di, manifestazioni decise fino alle sommosse, oppure di azioni anche individuali per punire qualche “attore” dell’oppressione, dando “l’esempio”, servendo però da “versante negativo”, impossibilitato ad affermarsi, ma utile al “sistema” per la propaganda contraria e per l’utilizzo di capri espiatori.
Al di là di “aggiornamenti” vari e di “applicazioni” a campi nuovi (fra cui quello ambientale), e al di là della massa infinita di testi ed esperienze, e con tutta la comprensione storica che si può avere per quello è successo – dalle condizioni in cui i diversi esponenti e aderenti di queste tendenze si sono trovati, all’urgenza di avere risultati, trovandosi poi incastrati nelle condizioni, nell’urgenza, nei processi messi in moto, e certo senza dimenticare il ruolo avuto in battaglie contro totalitarismi, fascismi e nazismi, nonché per la difesa e miglioramento delle condizioni dei lavoratori e dei subalterni, e l’affermazione di diritti sociali –, tuttavia, in buona sostanza, questo è quanto. Ed è stato insufficiente e inadeguato, da parte di tutti i versanti: è andato fallito ed è stato fallimentare rispetto alla rottura e superamento del “sistema”. Infatti, la direttrice dei diversi «marxisti» e «marxismi» è fondata sul partito, e il partito, ogni partito – e proprio quelli che si sono denominati «socialdemocratici», «socialisti», «comunisti» hanno fornito l’esempio della formazione del partito e il modello del partito –, è, di per sé, un “pezzo” di Stato, in pectore o in atto (aspirando a parteciparvi o partecipandovi, o anche mirando ad abbattere lo Stato esistente e costituire il proprio, con cui fondersi)[209]; perciò questa strada ha portato a formare organismi che hanno concorso a portare e situare “le masse” nella statualità, e quindi nel “sistema”. La direttrice degli «anarchici» ha portato a confinarsi nell’“insurrezionalismo” e nelle “azioni esemplari”, senza un possibile costrutto, e anche questo circoscriversi serve allo «stato di cose presente» per perpetuarsi come, se non il migliore, l’unico mondo possibile.
Dunque, continuare a muoversi in questi ambiti, con i loro “impianti”, attitudini, linguaggi – pur riconsiderandoli, aggiornandoli, rimestandoli, ma sempre riproponendoli e ripercorrendoli –, è tanto errato da poter essere designato con il noto detto: errare humanum, perseverare in errorem diabolicum. «Diabolico», perché concorre, con tanto di attivismo volontario, a chiudere affioramenti e possibilità, come si è detto. È perciò che «marxisti», «marxismi» e «anarchismi», con le organizzazioni varie in cui si esprimono, sono da riporre alle spalle, da parte di chi vuole almeno cercare di fare qualcosa di sensato e significativo. Il che non significa certo, va da sé e lo si è detto, gettare alle ortiche le esperienze e le elaborazioni, in primo luogo quella marxiana – però la ripresa deve comprendere ciò che non è stato fatto, se non da sporadici pensatori, ossia aprirla su limiti ed errori, problemi lasciati aperti e “nodi” irrisolti, in una prospettiva di superamento.
Al “nodo” decisivo si è, appunto, cercato di abbozzare una risposta: nel modello teorico che si è proposto, come si è detto, la democrazia viene prima, costituisce la base e l’ossatura della parte delle classi subalterne che si organizzano (rifiutando cosí sia il partito, sia la non-organizzazione), è già la negazione del “sistema” (del politico-statuale, dell’economico-capitalistico, e – campo nuovo, ma organico – della tecnologia), mira a imporre se stessa come potere (contro le, e al posto delle, potenze che fanno il “sistema”) e, se ci riesce, non dà vita a nessuna «dittatura del proletariato», ma si afferma come «massima estensione della democrazia» stessa, quindi non abbisogna del «deperimento dello Stato», perché è già non-Stato.
[1] Come dice Terenziano Mauro, grammatico in un tardo Mondo antico (fine II-III sec. d. C.), nel suo De litteris, de syllabis, de Metris, al v. 1286: pro captu lectoris habent sua fata libellis – «i libretti [i testi, gli scritti] hanno il loro destino secondo la presa [la ricezione] del lettore», e la seconda parte è divenuta il noto detto.
[2] Si usa il termine “sistema” posto fra virgolette alte, volendo cosí indicare un modo di dire sintetico, e non riferirsi a un “qualcosa” di chiuso e compiuto, definito una volta per tutte, ma, al contrario, che è in “macinazione” continua, però permanendo nei suoi “elementi” portanti e costitutivi.
[3] O modo di produzione capitalistico, o capitalismo, da non intendere però solo nel senso stretto dell’economia, bensí come produzione materiale e “immateriale”, cioè come produzione, oltre che economica, anche politica, culturale, sociale – nella spinta che informa tale modo di produzione, volta ad assumere in esso la totalità.
[4] E precisamente lo Stato era e resta la grande forza occultata, assunta come organizzazione “neutra” di istituzioni, per cui il “discorso” si sposta sulla sua gestione (governo, a livello centrale e nelle articolazioni di area e locali) e sulla maniera di funzionare dei suoi apparati, e/o lo Stato viene addirittura visto come subordinato, quasi passivamente, “per necessità”, alle imposizioni provenienti dall’economia e dalla «ricerca scientifica », e, anche a questo riguardo, magari si parla di “concezioni errate” dell’economia e di “uso discutibile” o “criticabile” della «ricerca scientifica»: è la pervasività della concezione liberale dello Stato (che non esclude, ma assorbe le concezioni nazionalistiche) – e veste, maschera e camuffamento di una delle tre «sorelle».
[5] In estrema sintesi: proprietà-possesso-controllo – diretto e indiretto – dei mezzi di produzione e distribuzione, ed esproprio della gran parte della popolazione da tale proprietà-possesso-controllo, e produzione-estrazione del surplus (pluslavoro-plusprodotto-plusvalore) volte primariamente all’accumulazione del surplus stesso, in quanto profitto, come, appunto, capitale, ossia potenziamento-accrescimento della proprietà-possesso-controllo.
[6] Nell’occultamento generale, si crede che i rapporti di proprietà e possesso, di appropriazione del prodotto e del surplus prodotto, di destinazione del surplus stesso, potrebbero sussistere “in sé” e “per sé”, senza la potenza organizzata statuale – per non parlare di moneta, «dispositivi» e regolamenti, interventi diretti e indiretti, forze armate e forze repressive (dette «forze dell’ordine») a disposizione, e cosí via -, tanto che, volendo supporre, in astratto, un’esistenza del capitale senza lo Stato, la sua durata non supererebbe una settimana, se non ricorresse a istituire qualche forma suppletiva, ma sempre di statualità. Non per niente Henri Lefebvre, trattando del dispiegamento del capitalismo avvenuto fino ai nostri giorni, riteneva che ormai andasse adottata la denominazione di «modo di produzione statuale» – H. Lefebvre, Lo Stato, Voll. I-IV, Bari, Dedalo, 1977-78. Del resto, anche del capitale in quanto «rapporto di produzione» (come lo definisce Marx) e dunque di rapporto di comando, che si connette necessariamente al comando su tutti gli altri piani, non se ne ha alcuna consapevolezza, tanto che non si usa il termine «capitale» e/o lo si vede come «fattore» dell’economia, creduta “neutra” (come si crede “neutro” lo Stato): è ancora la pervasività della concezione liberale, che si dice liberista, sul piano economico, dell’economico-capitalistico – ed è veste, maschera e camuffamento di un’altra delle tre «sorelle».
[7] O «tecnoscienza», termine derivante da una “fusione” di greco (téchne) e latino (scientia), mentre «tecnologia» è termine di derivazione greca (téchne e lógos): il loro significato è identico, anche se si tende a usare il termine «tecnologia» per intendere le applicazioni della scienza e il termine «tecnoscienza» per delineare la riduzione della scienza e il suo gradiente svanimento nella sussunzione alla tecnica – ma è una distinzione inutile.
[8] La tecnologia è sempre all’opera e promette di “risolvere” ogni problema e difficoltà degli esseri umani, mentre usa tutto il pianeta e tutta l’umanità come laboratorio, non riuscendo non soltanto a controllare, quanto nemmeno a calcolare effetti e ricadute, applicandosi poi su tali effetti e ricadute, incontrollati e incalcolati, e via di seguito, sotto slogans quali “libertà, validità, efficacia della scienza e della ricerca scientifica”: è anche qui la pervasività della concezione liberale della scienza-tecnica – e veste, maschera e camuffamento della terza delle tre «sorelle».
[9] Si tratta della criminalità: 1) quella organizzata – estesa a livello internazionale oltre che livello di ogni Stato-nazione –, che assume “in proprio” forme di coercizione violenta, rompendone il monopolio statuale, e che concorre, nelle produzioni-distribuzioni illegali, ma investendo anche in quelle legali, all’accumulazione del capitale; 2) quella a cui ricorrono, all’occasione e momento “utile”, gli stessi Stati o apparati di essi, e centrali capitalistiche, etc., senza contare le oscure operazioni degli apparati tecnoscientifici; 3) quella diffusa nella società, nella sua disgregazione in corso, e quindi dei costumi civili usuali. Anche tutto ciò è organico al “mondo” delle tre potenze, intriso di violenza e fondato sulla violenza, ma resta, comunque, un versante laterale rispetto al versante frontale (i «dispositivi» statuali, capitalistici, tecnoscientifici) del funzionamento del “sistema”, pur intrecciandosi con esso – e il “versante frontale” procede a tenere sotto contenimento quello “laterale” di fronte ai suoi eccessi di espansione.
[10] Dal Basso medioevo in poi, attraverso l’eliminazione delle repubbliche comunali cittadine, procedendo attraverso le «guerre di religione», vestendo i panni degli Stati assoluti che si sono andati imponendo, i panni del mercantilismo connesso alla promossa emergenza della nuova borghesia delle manifatture e ai rapporti fra questi Stati, i panni delle «scoperte geografiche» alias imperi coloniali, e della formazione dei mercati mondiali attraverso gli oceani e i mari, i panni della scienza e tecnica, che si muoveva nel contesto delle nuove potenze – vedi M. Monforte, «Alle radici del mondo contemporaneo», in Controllo e manipolazione, www.nea-polis.org.
[11] Curiosa traduzione “secolarizzata” dell’(astrusa) «trinità» divina del cristianesimo? O anche della «trimurti» induista? Al di là dell’ironia, è però da notare come, a ogni modo, ritorni il numero «3», “fattore” di base della dialettica.
[12] I centri di potere sono in parte noti (come, per esempio, la «Trilateral» o il «Gruppo Bildenberg»), in parte segreti, come sono in parte note e in parte segrete le loro decisioni e operazioni, strategie e tattiche, e quindi i loro «complotti»; ma tutto ciò si compone nell’esistenza e nell’opera dei tre assi combinati, non ne è il comando, bensí, appunto, una componente, e, se esistono anche i «complotti», il «complottismo» (diffuso, che vede origine e causa dei “mali” nei complotti, per lo piú segreti e su cui investigare, di queste centrali) è una tendenza fuorviante, perché scambia l’implicato per l’implicante: passa di tangente rispetto agli assi portanti del “sistema”, li mette in ombra e concorre ad occultarne l’essenza – quando non sottende che le “cose” potrebbero “andar bene” se non vi fossero tali «complotti».
[13] Hýbris: «eccesso», «tracotanza», quindi «oltraggio» rispetto alla misura che vi deve essere in … tutto.
[14] Wille zur Macht: bóulesis tóu kratéin, libido dominandi, ésprit de puissance – «volontà di potenza».
[15] Con la formazione dei primi Stati (regni e imperi: Vicino oriente, Egitto, Asia …), con la prima accumulazione di ricchezze (prima statuali, poi private e/o privatistiche), con la prima organizzazione delle tecniche.
[16] Alla fine del XVIII sec., cominciando a rivestire i primi nuovi panni del liberalismo-liberismo: lo Stato-nazione (successore dello Stato assoluto) quale «figlio della nazione» e alveo di “tutto il popolo”; la (cosiddetta) «rivoluzione industriale» quale avvio del “benessere”; il «progresso» senza limiti promesso dalla scienza-tecnica in dispiegamento – vedi M. Monforte, «Alle radici del mondo contemporaneo» cit., in Controllo e manipolazione cit.
[17] Un’immagine che svolge funzioni di illustrazione concettuale – come anche i termini hýbris e «volontà di potenza».
[18] Infatti, possono ben essere individuate altre immagini ancora – purché stimolino una raffigurazione efficace.
[19] Con «alienazione» si intende il “farsi altro da sé” – la costruzione da parte degli esseri umani che si rende autonoma come forma nel contempo astratta e concreta (codificata e pratica, immateriale e materiale), e li domina – e si tratta di un quasi-concetto (ossia non definito logicamente e conseguentemente in tutto il suo complesso di implicazioni, esplicazioni, esclusioni), o meglio anch’essa è, a sua volta, un’immagine-concetto per afferrare come creazioni e produzioni degli esseri umani si autonomizzino in “entità” che imperano sui creatori e produttori.
[20] Illusione dell’ottimismo filosofico, secondo cui il sapere comanda al potere – mentre è precisamente viceversa -, o comunque intride il potere – il che è vero, ma solo nella forma della tecnologia, che con il sapere in quanto scienza ha sempre meno a che fare.
[21] Può essere analizzato con gli strumenti codificati dell’indagine razionale – logica e dialettica; deduzione, induzione e transduzione -, ma tale esame non lo rende, con ciò, «razionale» in quanto tale, e sempre ne resta un fondo oscuro, che può essere individuato e detto, ma non con questo “razionalizzato”.
[22] Tutto il processo e il contesto dello sbocco nel dispiegamento del modo di produzione dell’economia politica si può interpretare come prova – che procede come auto-prova – a cui la natura, o «essere» che sia, sottopone obiettivamente la specie umana (come peraltro ha fatto, e continua a fare, per le altre specie viventi, che compongono la biosfera e che ne sono scaturite), per cui essa può svilupparsi e sussistere, oppure infilarsi in un vicolo cieco e superfetare, per degradare e/o perfino estinguersi (com’è, del resto, accaduto per altre specie).
[23] Secondo la definizione data da Henri Lefebvre (Lo Stato cit.) rispetto alla fase di intervento permanente e continuativo dello Stato nell’economico-capitalistico, a partire appunto dalla «Grande crisi».
[24] Quello dell’Urss, dei regimi dell’Est, della Cina e paesi asiatici, etc. – definizione data da Henri Lefebvre (Lo Stato cit.), quale altro «genere della stessa specie» nel modo di produzione, rispetto all’occidentale «capitalismo di Stato» – e che non aveva (né ha, nei suoi residui) nulla a che fare con quanto si voleva intendere con il termine «socialismo».
[25] «Benessere» concreto, ma opinabile: impedire la miseria piú nera con una sussistenza (diretta – lavori subalterni e/o sussidi – e indiretta – «servizi»), che ribadiva la subalternità ed estendeva il controllo statuale, nel contempo sostenendo la «domanda solvibile» (l’economico-capitalistico) – un «benessere» comunque miserabile, in funzione del “sistema”.
[26] Da rilevare come la denominazione, pur (o proprio perché) invalsa, sia già in sé assurda: lo Stato, che pur si dichiara quale «pubblico», preposto all’affermazione e tutela del cosiddetto «interesse generale» – le maschere continuano, anche se sempre piú logore -, in quanto tale non è, né può essere, la società, perché si erge al di sopra di essa e la comanda, e ne espropria «servizi» e «funzioni», assorbendoli sotto la propria gestione e modus operandi (regolamenti su regolamenti, burocrazia tirannica, iper-assorbimento di risorse, etc.), e trasformandoli in ulteriori apparati di controllo e manipolazione – e l’accecamento corrente fa vedere quale sola alternativa a questo cosiddetto «pubblico» (statuale) il cosiddetto «privato» (capitalistico), il che poi si fonde nel funzionamento anche “privatistico” di apparati statuali.
[27] Nel suo complesso, nell’allora ancora esistenti «blocco occidentale» e «blocco orientale» – H. Lefebvre, Lo Stato cit.
[28] Veste e “impianto” piú consoni e adatti al dispiegamento del modo di produzione dell’economia politica – si rimanda agli esaurienti lavori di J.-Cl. Michea, da Impasse Adam Smith, Paris, Flammarion, 2006, a L’enseignement de l’ignorance, Paris, Climats-Flammarion, 2006, La double pensée, Paris, Flammarion, 2008, Le complexe d’Orphée, Paris, Climats-Flammarion, 2011; v. inoltre M. Monforte, Per il progetto di emancipazione sociale – Tesi d’ottobre, www.nea-polis.org –, pur senza negare con questo, anzi è il contrario, che una serie di sottoprodotti validi vi siano stati, e vi siano (da una serie di diritti, pur astratti, e di «tutele», pur tendenti a essere residuali, alla rottura dello status subalterno della parte femminile dell’umanità, e a quello delle minoranze di vario tipo, etc.): ma il fatto è che il liberal-liberismo del “sistema” tende via via a dissolvere gli “impacci” arcaici e obsoleti al suo processo di omogeneizzazione-atomizzazione.
[29] Implosione inevitabile – che rivela come il «socialismo di Stato» sia stato una pseudo-alternativa -, una volta conseguita una «crescita» adeguata, ossia perseguito e in qualche misura attuato l’imperativo del modo di produzione, assunto dall’asse dello Stato, aprendosi al seguente allineamento all’economia politica “in senso pieno”, e con l’assunzione (piú o meno conseguente, a seconda delle condizioni specifiche) del liberalismo-liberismo, che la permea su tutti i piani: economico, politico, sociale, culturale.
[30] Per riprendere, a proposito degli imperativi attuali, quelli antichi, con il detto dal «sogno di Costantino» – secondo il racconto ecclesiastico, successivo agli eventi (battaglia di Ponte Milvio del 312 d. C. contro il competitore Massenzio), inventato e distorto (come su tutto, si pensi solo al falso della «donazione di Costantino» del «potere temporale» al papato), per mostrare la volontà divina di affermazione della Chiesa -, in cui il dio cristiano avrebbe detto en tóuto níka, ossia in hoc signo vinces, «in questo segno vincerai», apponendo la “sigla” cristiana sugli scudi dei soldati, etc. – però, se vi erano insegne sugli scudi, erano relative al culto di Mithra, molto diffuso proprio fra i militari.
[31] Va ancora una volta ripetuto – dato che i pappagalli parlanti, istituzionali, partitici, mediatici, continuano nell’uso tanto evocativo quanto vacuo del termine, dandola a intendere quale novità e necessità -, che si tratta solo della fase presente: l’espansione al mondo del modo di produzione dell’economia politica, ossia la «globalizzazione», è proceduta in fasi successive, ed è stata, anzi, già una delle condizioni della sua nascita «in senso proprio» (espressione marxiana).
[32] Ma le «masse» non incidono piú, o comunque non adeguatamente, perché colpite dalla «massificazione delle masse» stesse – cfr. in proposito G. Anders [pseudonimo di Günter Stern], L’uomo è antiquato, voll. I e II, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, in particolare il vol. II, Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale -, ossia dal fatto di essere sempre piú composte di esseri umani polverizzati come singoli atomi (aggregati, al massimo, in instabili molecole), per cui, passato il culmine di mobilitazione, le «masse» nella loro maggioranza si sfaldano e/o vengono utilizzate da comparti delle potenze in atto, per i loro disegni.
[33] L’imperativo generale della «crescita» include e comporta anche quello della crescita numerica dell’umanità. E se tale proliferazione si è arrestata nei paesi detti «avanzati» – già “macinati” nel loro precedente assetto, e quindi “assestati” -, l’“ondata” arriva dal resto del mondo, portando con sé la spinta a vivere secondo il cosiddetto «modello occidentale», ossia secondo l’ancora piú generalizzata devastazione della biosfera del pianeta e di quanto è utilizzato come «risorse».
[34] L’ecologismo-ambientalismo dovrebbe situarsi nella relazione dialettica uomo-natura-propria natura, ossia affrontare il complesso della situazione determinata dal modo di produzione dell’economia politica, cosa che non fa, per cui – anche nei versanti piú coerenti e conseguenti – finisce per centrarsi su obiettivi limitati e per tendere a qualche risultato parziale, donde il suo facile riassorbimento sul piano politico-statuale, sul piano economico-capitalistico, sul piano della tecnologia e sue applicazioni, e infine la sua complicità.
[35] «Come “funziona”? In fondo, è semplice: si ha una cultura “componibile”, che forma oggi l’insieme delle “competenze umane” – composta da comparti indipendenti e non-comunicanti, e tuttavia ancora raggruppati nei supercomparti “umanistico” e “scientifico” – e che non ha relazione diretta con la realtà (naturale e sociale) se non sui versanti “tecnici”, per quanto può “servire”, cioè, oltre a saper leggere e scrivere, e far di conto, qualcosa di lingue (per lo piú anglico), di conoscenze matematiche, di infarinamenti umanistici, etc. E dato che, con tanto dell’accompagnamento delle chiacchiere false e vuote sulle “capacità critiche”, tutto si traduce in di nozioni e “cose” da ripetere, ciò che viene in qualche misura appreso resta frammentario e sconnesso, di poca o nessuna valenza rispetto al presente e alla sua comprensione. Ma viene sancito dal diploma finale, il che dà a intendere, ufficialmente e al diplomato, che il diplomato stesso è “formato” – sí, è “messo in forma”, ossia gli è stato insegnato, e ha imparato, a essere ignorante, mentre lo si è persuaso di essere istruito “adeguatamente”. Ai livelli “superiori” di istruzione, il diplomato, se poi prosegue negli studi, si imbatte in qualcuno dei settori e sotto-settori presenti nei campi della cultura iper-parcellizzata; per il resto, resta – in buona compagna del cosiddetto «uomo della strada» – un “normale” sprovveduto (privo di strumenti di analisi) a disposizione della manipolazione corrente, dei media, della variegata industria dell’intrattenimento – v. «Per concludere – senza chiudere», in Controllo e manipolazione cit. e v. inoltre J.-C. Michea, L’enseignement de l’ignorance cit.
[36] Statualità come disposizioni e regolamenti, loro imposizione, repressione della loro violazione, per imporre l’«ordine» e a supporto della produzione-consumo; produzione-consumo, con spinta ad altro consumo e quindi alla produzione connessa, e cosí via; tecnologia all’opera per la produzione-consumo e per perfezionare l’imposizione.
[37] Sulla sedicente “scienza medica” e relativa “ricerca medica”, e quindi sull’apparato della sanità, ormai uno dei massimi «dispositivi» preposti al controllo e manipolazione (e ammazzamento) della popolazione, andrà condotta una specifica trattazione.
[38] Si pensi soltanto alla vacua evocazione e sostanziale inconsistenza di slogans sullo stile di «un altro mondo è possibile» di «altermondialisti», di new-global e no-global, e affini – che accettano e fanno proprio il terreno già perdente in partenza, perché è il terreno imposto dalle potenze: quello della cosiddetta «globalizzazione».
[39] E sostanzialmente operante solo per supportare – a ogni costo possibile, presente e futuro – la propria crescente importanza, in interconnessione agli imperativi di Stato e capitale (in condizione critica permanente, il che accentua il ruolo “salvifico” della tecnologia).
[40] E la presenza e azione (repressiva e bellica) dello Stato israeliano, iper-alleato degli Usa, ma operante anche come “martello” in “conto proprio”, con la sua azione di sterminio in Palestina e la sua funzione di “miccia” sempre accesa, a minacciare l’esplosione dell’intero Vicino oriente, rappresentano la causa centrale (ma non l’unica) del “focolaio” di un «teatro» di importanza cruciale sul piano mondiale, ma non è questa la sola area critica: si pensi all’opera di contenimento dello Stato russo da parte degli Usa, alla situazione in Africa, etc.
[41] Applicazione della tecnologia sempre piú “spinta” (mezzi di produzione a base informatica e processi produttivi sempre piú “tecnicizzati”), aumento esponenziale della produzione unita al labour saving (la riduzione degli addetti in rapporto all’aumentata produzione), riduzione salariale e normativa (del «costo del lavoro» e delle tutele), ricerca della «flessibilità» e della «competitività» a tutti i costi (con tanto di chiusure di unità produttive e delocalizzazione altrove), e via di seguito – con alta produzione di profitto e di massa di prodotti, da un lato, ma con strozzatura della «domanda solvibile» (circolazione dei prodotti e loro traduzione in denaro, tramite il mercato), dall’altro: le difficoltà del ciclo, dopo i successi iniziali, e il suo inoltrarsi verso blocchi successivi, fino alla crisi (distruzione di parte del capitale sul piano della produzione, della circolazione, del denaro), erano assicurati in partenza (vedi [2]).
[42] “Discorso” ripetuto e diffuso, secondo cui l’azione del grande capitale finanziario, con tanto di connessa e strabordante speculazione, ha portato ai crack di centrali finanziarie e banche – il che è una mezza verità, quindi anche una mezza menzogna, in quanto occulta il fatto che il “nodo” di fondo è la difficoltà, e/o il blocco, e/o il crollo, per il complesso del capitale nel continuare la sua accumulazione (ossia la valorizzazione del valore) al ritmo precedente, per cui, da un lato, poiché ciò accade nell’«economia (detta) reale», al redde rationem la traduzione della forma-denaro nel resto del ciclo (produzione-circolazione-denaro, e di qui viceversa) non procede, mentre, dall’altro, il capitale finanziario e bancario sforza al massimo, comprese le «bolle speculative», l’accumulazione nella sua forma-denaro, con esiti, appunto, di crack: dunque, il capitale finanziario e bancario è senz’altro corresponsabile, ma di crisi e crack è responsabile il “sistema” tutto dell’economia politica – quindi, parlare di «crisi finanziaria» è una maniera per giustificare il “sistema”.
[43] Si veda, in proposito, M. Monforte, Sul debito pubblico, www.nea-polis.org.
[44] Al “discorso” sulla «crisi finanziaria» (di cui sopra) se ne aggiunge un altro, anch’esso abbastanza diffuso, secondo cui “le banche stampano moneta ad libitum”, quindi, a loro piacere e decisione, “ci danno carta straccia”, che non vale niente, etc.: qui siamo di fronte, al massimo, a una frazione di verità, quella per cui, avendo gli Stati dell’Ue dimesso il «signoraggio», l’emissione di moneta spetta a Banca centrale e sistema bancario, che ne assumono il controllo, mentre la moneta emessa va pagata dagli Stati, con tanto di interessi e di incapacità di controllo (però la “faccenda” è già un po’ diversa per lo Stato germanico, e per quello francese) – ma ritenere che il denaro divenuto sia “carta straccia” senza valore (ossia senza copertura né in metallo prezioso, né in valuta estera e titoli, e soprattutto senza corrispondenza nel ciclo, ossia in produzione e prodotti) significa non aver capito, e non far capire, nulla del ciclo capitalistico e ipotizzare una “soluzione” fittizia (“riprendiamoci il denaro!”), che occulta realtà e responsabilità del complesso del “sistema”.
[45] Termini usati per non offendere i giornalisti (di stampa, radio e tv), parte dei quali qualcosa di fattivo, soprattutto a suo tempo, l’ha fatto – e naturalmente senza voler insultare gli edicolanti.
[46] È interessante ricordare che termine «riforma» risale precisamente alla … Controriforma, attuata dalla Chiesa cattolica (con il Concilio di Trento, 1545-1563) contro l’ondata del protestantesimo (la quale fu seguita dalle terrificanti «guerre di religione», che hanno devastato l’Europa e in particolare la Germania), e denominata, appunto, «Riforma della Chiesa»: «riforma», ossia rimessa in forma, con la chiusura retriva e reazionaria che ha caratterizzato la Chiesa stessa (costretta solo molto piú tardi a una serie di allentamenti e aperture – molto piú tardi: si pensi solo all’asfissiante gravame ecclesiastico nell’Italia degli anni cinquanta-sessanta del Novecento). Successivamente il termine è stato ripreso in altro contesto e significato, per indicare misure fattive, sul piano civile e sociale, in particolare da parte dei partiti socialdemocratici, socialisti, anche comunisti, e, in genere, «progressisti» (per legarsi alla fase del Welfare State), mentre, attualmente, il termine appare essere tornato a significato e fini originari, per cui ogni «riforma» è un peggioramento, sul piano politico, sociale e civile (accentramento della gestione del potere e smantellamento del Welfare).
[47] È questo un motivo conduttore comune al coro cacofonico: di fronte alla violenza organizzata che intride tutto il “sistema” e che ne è la base, la violenza stigmatizzata – e classificata come “anti-democratica” in sé – è quella di quei manifestanti che, per lo piú, non accettano certi divieti e che agiscono o reagiscono rispetto alle forze repressive (dette «forze dell’ordine», il che può solo significare addette a sostenere l’ordine del “sistema” che crea un costante disordine, su tutti i piani), per cui “si manifesti pure, ma …” senza incidere su niente e, terminata la processione-sfogatoio, “tutti a casa” – che poi, anche con manifestazioni dure e scontri maggiori o minori, non si incida un granché, è l’altro discorso che si sta vedendo di sviluppare.
[48] Con «politica» (termine che vorrebbe indicare esaustivamente la “sfera” delle attività politiche), va, in realtà, intesa la «classe politica», per cui sarebbe «antipolitica» tutto quanto critica, piú o meno a fondo che sia, la «classe politica» stessa e i connessi partiti “ufficiali” – e l’«antipolitica» confluirebbe e si comporrebbe, appunto, nel «populismo».
[49] Il termine è ormai di uso corrente – in senso del tutto negativo, da “lanciare contro altri” a fini di discredito -, tanto che si attaglia … a ogni “cosa”: “posizioni populiste”, “proposte populiste”, “partito” o “personaggio populista”, “diffusione del populismo”, addirittura “banchieri populisti”, e le citazioni si possono estendere. La carica negativa e discreditante è chiara; molto meno lo è il significato, al di la dell’assimilazione a «demagogico», quindi «ingannevole», dunque «truffaldino» – assumendo cosí l’operazione di mistificazione mediatica in merito, ormai di lunga data (vedi [3]).
[50] Da intendere sia in senso letterale – da delinquo, «dissolvo», «distruggo» –, sia in senso corrente – crimini, misfatti, appropriazioni indebite, abusi di vario genere, etc.
[51] Caduta, privazione, mancanza di mens, da intendere come capacità di pensare e di sentire, e di rapportarsi alla realtà e agli altri – donde insensatezza, assurdità, follia.
[52] Vale a dire dal grande capitale transnazionale, finanziario e speculativo, che tuttavia non opera al di fuori e indipendentemente dalle sottese strategie della superpotenza e potenze maggiori – detto per chi afferma che “gli Stati sono sottomessi al capitale”, o “devono eseguire gli ordini”, o addirittura “sono falliti”, non comprendendo il ruolo che ha il livello economico nel conflittuale contesto politico-statuale internazionale (scontro fra monocentrismo e multipolarismo), e non vedendo che falliscono o vengono posti sotto pressione gli Stati minori, oggetto delle strategie in atto, e che quello economico-capitalistico è una delle componenti, forte e possente, ma una delle componenti delle strategie stesse.
[53] Con ciò, non si fraintenda, i danni e guasti apportati alla natura sono senz’altro vasti e profondi, in parte anche irreversibili – come quelli apportati alla natura umana –, ma vedere in questi la rovina del pianeta rappresenta ancora una forma di tenace antropocentrismo: il pianeta è “troppo”, per poter essere distrutto dall’uomo, che però può distruggere se stesso e un bel “pezzo” della biosfera esistente e dell’assetto attuale del mondo. La prospettiva spettrale, in cui confluisce e si compone la serie di danni e guasti apportati, è un’altra: la catastrofe degli esseri umani come specie (vedi [4]).
[54] Catastrofe che non è solo quella di un conflitto mondiale nucleare (“chiodo fisso”, per sua ammissione, e con ottimi motivi, del citato Günter Anders [Stern]) e che resta incombente perché è sí possibile, e tuttavia, ieri come oggi, improbabile (come rileva Eric J. Hobsbawm nel suo Il secolo breve) – però domani … non si sa. Ma la catastrofe va avanti, accelerandosi, in quanto è già in atto adesso, su tutti i piani (vedi [4]).
[55] W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, Scena V.
[56] Dal mondo ellenico, e poi ellenistico – espanto ben oltre la Grecia attuale come penisola e isole – ci è arrivata (pur molto ridotta e frammentata) non solo la creazione relativa a pittura, scultura, architettura, a teatro e musica, a poesia e letteratura, a storia e filosofia, ma anche la creazione della scienza in tutti i campi – scienza intesa «in senso proprio» (e non tecnologia): fondamentale, in merito, è il lavoro di L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano, Feltrinelli, 2009, e anche sul tema della tecnologia andrà condotta un’ulteriore e specifica trattazione.
[57] Che è anche quello giudeo – ed è opera della casta sacerdotale ebraica l’invenzione originaria della divinità unica e assoluta, onnipotente e onnipresente -, nonché islamico – all’Islam è giunto infine, dopo il passaggio al cristianesimo -, invenzione di un’entità insensata e impossibile, ma che trasfigura in sé e tramite la quale, e in suo nome, si attua il dominio delle rispettive caste sacerdotali.
[58] Che può svolgere anch’essa funzioni di immagine-concetto.
[59] L’Unione europea, con il suo pendant della Banca centrale europea, non è altro che uno di tali «organismi», installato in Europa, funzionale al liberismo piú scatenato, in cui è assunta la preminenza dello Stato germanico, specie in funzione di contrasto e penetrazione a Est, rispetto allo Stato russo, con il supporto – pur “affannato” e non senza contrasti – dello Stato francese, e sotto la supervisione Usa (che accettano la preminenza germanica, ma nel contempo la vogliono contenuta, tramite gli Stati a essi piú legati come quello britannico, piú interessati all’appoggio-limitazione della Germania come quello francese, piú subordinati come quello italiano); Ue-Bce gestita da élites delle «classi politiche», semplicemente designate e auto-cooptate, al di fuori di ogni controllo, anche debole e indiretto, dei popoli europei, con un parlamento poco piú che formale, mentre l’euro, imposto come moneta unica, è stato uno strumento, devastante per tanti paesi e per la gran parte delle popolazioni, di tale dominio: è questo e solo questo l’Ue, nemica dell’Europa e dei popoli europei – e, nello scornacchío fra cosiddetti «europeisti» e cosiddetti «euroscettici», sia coloro che approvano l’Ue cosí com’è o con ridotte modifiche, sia i “critici” che discettano sulle “riforme” necessarie od opportune da apportare all’Unione europea, tutti però, in fondo e infine, sostengono l’Ue-Bce-euro, agitando, se altrimenti, lo spettro di “disastri inimmginabili” – e vanno tutti valutati, a pieno titolo, secondo l’indicato rating DD, doppia D.
[60] Si rimanda in proposito a M. Monforte, Colpo di Stato «bianco», www.nea-polis.org.
[61] Il termine rimanda all’assemblea nazionale della Rivoluzione francese del 1789, dove i «montagnardi» (giacobini) erano seduti a sinistra, rispetto alla presidenza, a destra i “moderati” (dai monarchico-costituzionali ai repubblicani), e al centro gli “indecisi” (la «palude»), da dove si è esteso a indicare la divisione fra e dentro i partiti «borghesi», e loro coalizioni, in piú conservatori o “moderati” (rispetto all’«ordine» esistente) e piú “innovatori” – tanto che c’è stata, in Italia, una sinistra dc, e, prima, addirittura una sinistra fascista. Quindi la definizione è poco significante, perché non specifica che cosa si intenda fare, al di là dell’apertura al «progresso» (il che è già del tutto piú che opinabile); è “pudica”, perché intende allontanare ogni accusa di “eversione”; è poi ipocrita per coloro che intendono qualcos’altro, come «socialismo» o «comunismo» – collegati alla «sinistra» detta «estrema», o «radicale», o «alternativa», che non sempre lo dichiara, o lo fa “sottovoce”, o lo lascia sotteso, o lo dice “poi”, per non trovare barriere iniziali.
[62] Escludiamo qui ogni riferimento ai critici detti, e che si dicono, di «destra» e di «estrema destra», perché i contenuti socio-economici proposti sono solo ripresi da coloro che sono detti, e si dicono, di «sinistra», semplicemente commisti, per la «destra», a discorsi piú “liberalistici-liberistici” e “perbenistici” (anche qui la testa è storta all’indietro), e, per l’«estrema destra», fusi con foschi rimandi (sempre la testa storta all’indietro) a nazionalismi, militarismi e razzismi, a Stati autoritari, dittatoriali e totalitari, nonché al fascismo e nazismo storici (non solo del tutto intollerabili in ogni aspetto e su tutti i piani, ma che sono stati parte anch’essi degli ostacoli da abbattere per il dispiegamento del modo di produzione dell’economia politica).
[63] Si rimanda sempre M. Monforte, Colpo di Stato «bianco» cit.
[64] Il che, per portare un solo esempio, è già proceduto, e da tempo, nelle “interpretazioni” opinabili e capziose (vedi solo la sorte dell’art. 11 che «ripudia la guerra», o quella dei disattesi artt. su lavoro, casa, studio, sanità, etc.) della Costituzione statuale in Italia, e nelle modifiche, nei fatti e per legge, del suo stesso statuto e funzionamento (come la modifica dell’art. 18 e l’introduzione, votata quasi all’unanimità dai parlamentari, del «Fiscal compact») – il che continuerà ancora, in nome dell’“adattamento alle esigenze” di «modernizzazione», di «governabilità», etc.
[65] Si ricorda che «collaborazionismo» è il termine coniato per definire chi, appunto, collaborava con il nazismo e il fascismo durante la Seconda guerra mondiale, e può ben essere esteso a chi collabora con un potere imposto dal di sopra e dal di fuori, appunto nel caso italiano, con un «golpe bianco».
[66] La possibilità è solo legata – nelle condizioni attuali – all’iniziativa di alcune frazioni dei dominanti-subdominanti volta non tanto a rompere la subordinazione, quanto a contrattare (con Usa & Co.), pur restandovi dentro, degli “spazi di movimento” maggiori, sia sul piano del politico-statuale, sia su quello dell’economico-capitalistico (soprattutto a livello estero), beninteso per i propri interessi, ma servendosi a tal fine del malcontento diffuso fra le classi subalterne popolari. Tuttavia, da un lato, questa linea è già avuto forti e duraturi contrasti, all’interno del paese, da parte del trasversale “partito amerikano” e, all’esterno, dall’opera combinata di Usa-«organismi internazionali»-Ue-Bce, venendo infine del tutto battuta con il «golpe bianco» del 2011, per cui potrebbe eventualmente ripartire solo in posizione ancor piú sfavorevole; dall’altro lato, non se ne scorge a tutt’oggi (in questa fine del 2012) una significativa emersione, a parte alcuni sparsi conati.
[67] Magari appellandosi alla Costituzione, la quale, però, ha solo sancito e suggellato il fallimento di quella rivoluzione interrotta e mancata (e tradita) che è stata la Resistenza, inserendo una serie di principi sociali, sostanzialmente di marca pata-keynesiana, conditi con tanto di ideologiche e formali “buone intenzioni”, nella “Carta” di un’organizzazione statuale in parte rinnovata – ma in parte ricostituita in piena continuità con lo Stato fascistizzato e, prima ancora, con lo Stato monarchico -, tuttavia, ancora sostanzialmente, sulla scia degli Stati liberal-liberisti «occidentali» (donde lo iato fra realtà e prassi, da un lato, e principi e “buone intenzioni”, dall’altro). E magari – ma questo nelle “punte critiche” – pensando di poter eliminare, e che sia sufficiente eliminare, dalle gestioni statuali (governo centrale e governi locali) approfittatori, corrotti, delinquenti, etc., nella convinzione che, allora, “le cose funzionerebbero”.
[68][68] Anche le politiche economiche keynesiane sono organiche al capitalismo e anch’esse liberiste (già come “impianto” teorico) – peraltro John Maynard Keynes si dichiarava apertamente liberale e liberista, e diceva chiaramente che il suo intento era il mantenimento e la prosecuzione del capitalismo -, con la sola differenza sostanziale, rispetto a ideologia e prassi del liberismo “puro”, di porre il capitalismo e il liberismo, e le loro inevitabili contraddizioni (sul piano economico e sociale, con le ricadute a livello politico) sotto tutela continuativa da parte dello Stato, con gli interventi del politico-statuale (utilizzando il surplus sociale che lo Stato raccoglie) volti non solo al supporto diretto del capitale, ma anche a “smussare”, contenere e riassorbire le contraddizioni (economiche e sociali, e quindi politiche).
[69] Né, sulla tecnologia, si scorge altro che il suo “carattere”, al di là di rilievi sul suo “uso parziale”, o “distorto” poiché “prezzolato” – per capire che cos’è (dovrebbe essere) la scienza v. ancora a L. Russo, La rivoluzione dimenticata cit.
[70] Senza le “intermediazioni” di investimenti per l’occupazione e i «servizi sociali», da smantellare, o ridurre, o «privatizzare», sempre per accrescere il profitto diretto del capitale.
[71] La critica vale anche per i keynesiani piú coerenti e coraggiosi, come per esempio Barnard e i “suoi”, capaci di denunziare il golpe Napolitano-Monti, di chiamarli – con predecessori e personale di contorno, da Amato a Prodi – con la denominazione appropriata di «delinquenti», di indicare nella Merkel la prosecuzione del progetto di dominio germanico sull’Europa, insieme alla necessità di fuoriuscita dall’euro e da questa Ue, ma parlando di «golpe finanziario» e indicando misure keynesiane (dalla ripresa di sovranità monetaria al deficit spending, la spesa statale per sostenere produzione e domanda interna) che, oltre a restaurare una fase precedente del capitalismo, presuppongono uno Stato effettivamente autonomo e sovrano – il che non vale per lo Stato italiano, ma tale “nodo” non viene posto.
[72] E la battaglia di fondo, svoltasi di nascosto (alla cosiddetta «opinione pubblica», sempre grazie al servilismo dei media), fra frazioni e fazioni delle classi dominanti-«classe politica» in Italia ha riguardato precisamente la tendenza a svolgere una politica estera (economica e non solo) con parziale “sgomitamento” di ridotta autonomia (relazioni con la Russia, con la Libia e paesi arabi, progetto di gasdotto da Russia-paesiarabi-Mediterraneo-Italia, alternativo al progetto Usa-Ue, etc.), sostenuto, pur malamente, solo da una parte del centrodestra, e la tendenza di piena ossequienza subordinata agli Usa (e potenze e «organismi» stretti loro alleati), sostenuta dal centrosinistra (il trasversale “partito americano” ha la sua “centrale” nel gruppo di «La Repubblica» e ha il Pd come maggiore componente, ma si estende anche a comparti del «centro» e del centrodestra, del Pdl) – il che è rimasto affogato e occultato nel lungo scontro fra i contrapposti dei berluscones e degli antiberluscones. Si è già trattato di ciò, e a piú riprese, per cui si rimanda a M. Monforte, Manovra, manovre e manovratori, Di miracoli italici e consimili sciagure, Fuori dai cori – tutti questi testi sono reperibili in www.nea-polis.org. -, oltre che a M. Monforte, Colpo di Stato «bianco» cit.
[73] E nell’ambiente ecclesiastico di inferni, con tanto di diavoli, ci se ne intende, movendosi nel contesto dell’invenzione del dio unico e onnipossente, donde la seconda assurdità all’interno della prima, l’invenzione del diavolo-inferno (se il dio è assoluto, o il diavolo e l’inferno ne sono parte, oppure ne sono consentiti, il che è lo stesso) – il che, ovviamente, va inteso come metafora: le «buone intenzioni» di “correggere i mali” del “sistema” sono componente del “sistema” stesso, e della sua perpetuazione.
[74] Ma proprio il «realismo», in base al “dato di fatto esistente”, con l’«irrealismo», sempre in base al “dato di fatto esistente”, dovrebbero essere caduti da un pezzo nel derisorio – per chi ha «occhi per vedere» e «orecchie per intendere».
[75] Si rimanda a M. Monforte, Il declino del meno peggio, www.nea-polis.org.
[76] Da ricordare che già Henri Lefebvre evidenzia e sottolinea – in molte sue opere, compreso Lo Stato cit. – come non si possa parlare di un unico «marxismo», ma di vari «marxismi» e «marxisti», e come proprio questi ultimi siano stati i peggiori nemici di Marx, avendo ridotto e dogmatizzato la sua elaborazione, invece di aprirla sui “nodi” irrisolti, superarla nelle sue contraddizioni, proseguirla oltre i suoi limiti, insomma, snaturandola da teoria in ideologia di copertura delle attività politiche, sia effettive (in primo luogo dello Stato-partito sovietico e delle sue “diramazioni” terzinternazionaliste, poi degli altri regimi a «socialismo di Stato), sia critiche (dello Stato-partito sovietico, etc.), sia presunte (i “discorsi” circoscritti di partitini e gruppi).
[77] Ossia la capacità di padroneggiare un ciclo produttivo, o parte significativa di un ciclo, il che non vale solo per il lavoro direttamente produttivo, ma si amplia anche agli altri settori, pur non direttamente produttivi o non produttivi, a tutti i comparti, compresi quelli detti «intellettuali» – si rimanda alle analisi di G. Anders [Stern], L’uomo è antiquato cit.
[78] Con la collocazione in altro impiego, il che potrebbe anche avvenire, se non l’ostacolassero la contrazione connessa sia alla fase attuale di produzione-distribuzione-amministrazione a base informatica, sia la presente crisi di lunga durata, con tanto di riduzione dell’occupazione negli stessi apparati statuali, sia la caduta delle tutele delle condizioni di lavoro unita all’estensione del precariato, sia l’afflusso dell’immigrazione – in merito alla “questione” dell’immigrazione, e alla funzione che a questa viene fatta svolgere, sul piano del lavoro e sul piano sociale, si rimanda a M. Monforte, Immigrazione, www.nea-polis.org.
[79] La questione sta nei rapporti – di produzione, sociali, politici, culturali (individuati da Marx, «il capitale è un rapporto di produzione», ma il concetto di «rapporto» è da estendere dalla sola produzione: importante è, al riguardo, H. Lefebvre, La survie du capitalisme – La re-production des rapports de production, Paris, Anthropos, 1973) – su cui si strutturano potenza, dominio, controllo dei tre assi portanti, e nelle contraddizioni permanenti che generano e ne derivano, in base alle quali si determinano congiunture storiche di possibile superamento dello «stato di cose presente», con gli “agenti” in cui si “incarnano” queste possibilità: ma, una volta che le possibilità-congiunture storiche sono mancate e passate, non si possono riproporre tali e quali, e, se lo si fa, si cade nell’astratto irreale, in una sorta di “para-metafisica”, che suppone “sostanze eterne” (“soggetti” e “agenti” sociali uguali, pur nelle trasformazioni storiche), e quindi sottesamente in un “discorso” ecclesiastico.
[80] E che cos’altro è stato laddove questo “impianto” si è in qualche maniera realizzato, pur nella forma del «marxismo-leninismo», ossia del terzinternazionalismo, vale a dire dello stalinismo, se non una forma di iper-ultra-statalismo? Lo Stato che doveva dominare tutto, in particolare, nell’Urss, sotto l’occhio sospettoso e feroce del capo dello Stato-partito stesso, cioè Stalin – come rileva H. Lefebvre, Lo Stato cit.
[81] E non il mero passaggio dalla proprietà-possesso-controllo dei mezzi di produzione in mano privata a quella che costoro asserirebbero senz’altro «pubblica», in realtà statale.
[82] Con ricadute durature (e sempre utili al “sistema), per cui resta abbastanza diffuso anche nella congerie di “sinistri”, tanto che è facile sentir dire, a mo’ di chiusura, rispetto sia a proposte (presunte) dirompenti, sia ad alcuni gruppi e iniziative: “ma sono anarchici”, “ma è un discorso anarchico”, “ma sarebbe anarchia”, e simili amenità.
[83] Infatti Henri Lefebvre, nella sua ricostruzione storico-analitica di «marxismo» e dintorni – vedi Lo Stato cit. -, parte da Hegel e vi inserisce anche, e a pieno titolo, «anarchismo» e anarchici.
[84] Per considerazioni piú articolate sulla questione si rimanda a M. Monforte, Analisi critica del modo di produzione (modello 1 e modello 2), www.nea-polis.org.
[85] Vedi ancora M. Monforte, Analisi critica del modo di produzione (modello 1 e modello 2) cit.
[86] A meno che non vi siano condizioni particolari e “nodi” cruciali, che portano a una «resistenza a oltranza» – il che esiste, ma è rarissimo (vedi soprattutto il movimento anti-Tav della Val di Susa), né ciò basta per il “passaggio” a un’opposizione piú vasta, incisiva e coinvolgente altre opposizioni e “resistenze” (al di là delle tante «solidarietà»).
[87] Il che, tuttavia, è comunque problematico: l’«impegno», e quindi la «militanza», si pone come un “qualcosa d’altro” rispetto all’esistenza “ordinaria” (lavoro, se c’è, consumo, casa, cerchie amicali, massmedialità), dunque come un «dover essere» che sa di “vocazione religiosa”, o comunque che ha un sentore ecclesiastico – il che ben si coniuga con le esegesi relative a testi e “sacri testi” di referenza, pur diversi secondo i differenti gruppetti –, concorrendo, infine, sia a criticare tutti “gli altri”, fuorché il proprio partitino o gruppo o gruppetto (nel quale, peraltro, critiche e “panni spochi” diventano spesso sorde ostilità), sia a porre questo come “modo d’essere” presunto valido in sé, chiudendo ogni considerazione sensata sulle inconsistenze, e quindi bloccando il conseguente processo di superamento.
[88] Tuttavia, anche in questo caso, si ripete il “copione”: vecchi superflui e giovani inutili tirano di tanto in tanto fuori la testa (per modo di dire: va visto se hanno una vera e propria testa), mostrandosi in pubblico, con sberci trucidi, gagliardetti, «saluti (detti) romani», slogans confusionisti e demagogici, etc., e sono sempre disponibili ad associarsi a operazioni repressive e autoritarie; e allora ci si muove contro di loro, il che è giusto (“no al fascismo”, “no al nazismo”, “tornate nelle fogne” ….), con tanto di forze repressive presenti, eventuali scontri, etc. Ma, se non si mira a tagliare definitivamente le basi di queste “risorgenze”, che affondano nell’utilità, pur marginale, però di potenziale supporto, che mantengono per il “sistema”, che quindi coincidono con il “sistema” stesso, il “copione” si può ripetere in infinitum.
[89] Perfino nello stesso ricorso alla forza, alla violenza: perché esiste una violenza innocua – innocua per il “sistema”, in quanto vi si situa, diventando un suo versante, tanto usato per “scandali” mediatici, quanto scontato (come, per esempio, la violenza dei tifosi di calcio dentro e fuori gli stadi, peraltro terreno di azione e reclutamento per fascisti-nazisti), mentre ne stimola reattività e rafforzamento.
[90] Da notare: nei partiti “ufficiali”, maggiori e minori, si trovano “prezzolati” (che a tale titolo svolgono un’attività), persone “in lista d’attesa” (per ottenere vantaggi, impegni o promesse, etc.), interessati (ad assumere o mantenere collocazioni, posti, etc.), nonché “tifosi” e fans che fanno gli “attivisti” del partito, e questi ultimi, detti «militanti» (pur sempre piú residuali), si meritano, a tutti gli effetti, la “decorazione” di militonti – ma tale “decorazione” si attaglia anche ai «militanti» che si ostinano a far caracollare gli scheletri di dinosauri.
[91] Il passo citato: F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra, in G. Colli e M. Montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, Milano, Adelphi, vol. VI, tomo I, 1968, «Della virtú che dona», p. 91.
[92] Si rimanda in proposito a J.-Cl. Michea, op. cit.
[93] La tecnologia – va ripetuto e ribadito: al servizio di Stato e capitale, e di se stessa – minaccia la natura umana (dalla permanente azione della tecnomedicina all’introduzione delle nanoteconologie, fino all’“adattamento” cibernetico, allo sviluppo dei meccanismi globali di controllo, etc.) e la società umana (sostituita da media permanenti e contatti elettronici “virtuali” fra individui massificati nell’atomizzazione, ridotta a prestazioni lavorative di cui gli atomizzati non colgono alcun senso – con sempre meno atomizzati al lavoro – e al consumo programmato, da dispositivi di regolamento e controllo capillare a cui assimilarsi), mentre la residualità della storia viene cancellata in un presente che vede il futuro solo come “perfezionamento” del presente stesso, e le contraddizioni sono poste come “specificità” da superare. Che miliardi di esseri umani siano esclusi, gettati nella mera sussistenza che sconfina nell’impossibilità di sussistenza (distruzione delle precedenti forme di esistenza), è un problema, ma conta poco in sé – ed è campo per le varie associazioni di “assistenza” – e fornisce potenziali riserve rispetto ad aree e paesi tenuti “sotto minaccia”. Che poi la minaccia indicata funzioni davvero fino in fondo, secondo l’ideologia “tecnoscientico-modernista”, è un altro discorso, ma la devastazione tuttavia procede: «l’uomo è antiquato» – già diceva Günter Anders [Stern ] – e va “adeguato”, in un processo che, infine, lo rende inutile – e che si compone, appunto, nella via, già enunciata, del fallimento della specie.
[94] Ciò avviene “in negativo”, vale a dire assumendo fino in fondo la condizione di subordinazione e rifiutando di parteciparvi con qualche assenso cosciente – la crescita esponenziale del non-voto in Italia (ma non solo) ne rappresenta una manifestazione significativa, anche se, continuando cosí le “cose”, non si traduce in niente di piú fattivo.
[95] Dove va compresa anche la semplificazione, anch’essa ormai abbastanza corrente nelle critiche che si diffondono rispetto ai gestori del “sistema” -, e si pensi ai «grillini» (il «Movimento 5 stelle»: denominazione buffa, sembra quella di un hotel o di un ristorante di prima categoria, forse non per niente inventata da un comico professionista) –, dell’“assumiamo i bisogni della gente”, “affermiamo i beni comuni” (in senso specifico e lato), “imponiamoli alle e nelle istituzioni” e attraverso le istituzioni, ma “ripuliamole dai delinquenti”, e slogans di questa gamma – il che, senza altre prospettive (e a parte il fatto che i «bisogni» sono coatti e programmati, e che i «beni comuni» vanno “svolti”, andando ben oltre l’acqua e simili), e quindi senza una consapevolezza superiore, ossia senza un effettivo progetto di “altro” e “oltre”, può solo finire per apportare altre energie e forze, magari piú “fresche”, nel contesto del “sistema”, incanalandovi in tal modo l’affioramento dell’opposto di cui si è detto e rifornendo il “sistema” stesso, almeno in parte (e nel nostro paese), di quel contrasto funzionale che è andato perdendo, e che serve alla sua dinamica di perpetuazione.
[96] Da eteróu nómoi, «leggi, norme, di un altro» – “modi d’essere”, agire, comportarsi altrui.
[97] In particolare, gli economisti, come cultori … di che? La scienza della produzione-distribuzione? No, in questi campi servono i diversi comparti scientifici e tecnici (della tecnologia). Allora del funzionamento dell’economia? Ma ne sanno qualcosa, dato che non riescono a prevedere nulla? – Nemmeno la crisi, finché non ci siamo dentro, e tantomeno sensate vie di uscita. L’“impianto” su cui si muovono (la teoria economica detta «neoclassica», o «marginalista», fautrice del «libero mercato non distorto» da interventi esterni) procede dalla priorità del «mercato» e non della produzione, e, per quest’ultima, mette in un guazzabuglio tutti quelli che denomina «fattori della produzione», e pone come capitale (quand’anche usa tale termine) un po’ tutto, compresi i lavoratori, detti «capitale umano» (o anche «risorse umane»), e non vede il surplus o, se lo scorge, lo vede scaturire magicamente dalla produzione-distribuzione stessa, preferendo parlare di «remunerazione» degli investimenti, etc., e buttandola su elementi psicologici (non si sa di chi e come) quali «propensione agli investimenti» o meno, «propensione al comsumo» o no, «propensione al risparmio» o il contrario, e cosí via. E non tiene conto dell’aggettivo «politica» che segue il termine «economia», ossia dell’interconnessione con il politico-statuale. Tutti gli economisti – tutti, «ortodossi» (seguaci della teoria ufficiale, liberista) ed «eterodossi» (seguaci dell’interventismo statuale, di matrice keynesiana), e i molti che adottano un mix fra «ortodossia» ed «eterodossia» – compiono una triplice opera di mistificazione: a) presentano l’economia esistente come l’economia in sé (“questa è la produzione-distribuzione”); b) sostengono l’autonomia pressoché totale della “sfera” economica e ne sottendono la preminenza; c) pongono quello che è solo un costrutto, commisto di pratiche capitalistiche (nella produzione, circolazione, attività bancarie e finanziarie) ed elucubrazioni (offuscanti la realtà della produzione ed estrazione del surplus, del profitto come motore del capitale e dell’accumulazione del capitale stesso tramite il profitto), come scienza («scienza sociale», ma sempre scienza – peraltro accostandosi, in ciò, al carattere della tecnologia). E quindi tutti gli economisti e tutta la loro “disciplina” sono soltanto una funzione del “sistema” – a cui non c’è luogo di dare considerazione, né da servirsene come referenza.
[98] Negli Usa, però, le «primarie» non sono mere operazioni di partito o coalizione, ma una procedura sancita dallo Stato, con la prima messa in moto di quelle macchine elettorali che sono il Partito democratico e il Partito repubblicano – solo due frazioni di quello che è un partito unico, che si può ben denominare “Partito repubblicano democratico” -, macchine che cosí si mettono “in rodaggio” per le successive macchinose elezioni, e con spese miliardarie.
[99] Per distinguere i moderni sudditi da quelli degli storicamente precedenti Stati assoluti, oppure degli Stati totalitari, o dittatoriali, o autoritari, passati e presenti.
[100] Si rimanda ancora a M. Monforte, Analisi critica del modo di produzione (modello 1 e modello 2) cit.
[101] Termini usati e temi ben trattati da J.-Cl. Michea, nel complesso delle op. cit.
[102] Ma va detto che anche istinto e intuito sono messi in discussione nell’estendersi generale e capillare della minaccia incombente e agente sugli esseri umani, di cui si è detto.
[103] Da autóu nómoi: «leggi, norme, di un se stesso», “modi d’essere”, agire, comportarsi secondo se stessi – per non ingenerare confusioni e commistioni, si sottolinea che il termine «autonomia», in contrapposizione a quello di «eteronomia», è qui usato senza riferimento a ciò che si intende con «autonomi», «autonomia operaia» e consimili denominazioni, adottate da chi si è indicato.
[104] Che patrocina l’individualismo fittizio dell’atomizzazione, per cui «ognuno» solo «per sé» e, per il resto, poiché il dio è un rimando ininfluente, le potenze terrene, che comandano su tutto e tutti.
[105] Peraltro, quelli attuali sono basati sul presunto “scientismo”, per cui si hanno specialismi di specialismi, in una frammentazione che impedisce di pervenire a una ricostruzione generale, mentre i presupposti, oltre a non essere dichiarati, sono piú che opinabili.
[106] Tuttavia, va pur rilevato che anche questo è ostacolato dall’«insegnamento dell’ignoranza», che li mette sempre piú in discussione, già a partire dalla padronanza della lingua, deposito del patrimonio culturale, che è ormai in «caduta libera», e del calcolo, anche minimale, rimesso a, e sostituito da, strumenti elettronici, per non dire della comprensione della storia o della scienza, e, in generale, della capacità di pensare “in proprio”, in maniera analitico-sintetica e critica – e «non c’è sapere senza critica del sapere», come dice Henri Lefebvre.
[107] F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra cit., «Dell’uomo superiore», p. 356.
[108] F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra cit., «Sul monte degli olivi», p. 210.
[109] Per intendersi, sinteticamente: dai campi detti «scientifici» a quelli detti «umanistici», ivi compresi quelli artistici (le arti nel loro complesso), il che rimanda alla definizione di che cosa sono «teoria» e «modello teorico», di che cosa sono «saperi» e «scienza», nonché di che cos’è «arte» – ma anche questo è un altro discorso, da aprire in altro momento.
[110] Lo ripetiamo, perché è molto importante: «mestiere» come conoscenza e controllo di un ciclo o di un comparto, o di una sua componente estesa – il che non significa doversi limitare a un solo «mestiere» -, e non «impiego» come semplici addetti macchinali, sussunti a questo o quest’altro processo, o comparto.
[111] Si rimanda, in proposito, a M. Monforte, Per il progetto di emancipazione sociale – Tesi d’ottobre cit.
[112] Come “entità” necessaria, cosí già individuata e definita in M. Monforte, Per il progetto di emancipazione sociale – Tesi d’ottobre cit.
[113] Va rilevato, en passant, che questa è una balla del liberalismo, e già antica: la gestione (governo) statuale non si limita a “eseguire” le leggi fatte dal parlamento, ma le emette in proprio, facendole approvare, e l’attività parlamentare è di adesione od opposizione alla gestione statuale, mentre la magistratura, se applica le leggi, non è al di fuori dalla connessione con gestione statuale, maggioranza e opposizione in parlamento, e lotte interne fra fazioni e gruppi di interesse.
[114] C. Castoriadis, La montée de l’insignifiance, Paris, Ed. du Seuil, 1996, p. 225.
[115] Tempi, modi e mezzi sono da elaborare – va ripetuto e ribadito – da parte delle associazioni di democrazia stessa, ma si può accennare a quanto può già apparire avere una validità: un’operazione di erosione-congelamento del comando delle potenze, che va dallo sgretolamento della loro “presa” nella testa del popolo allo sviluppo delle capacità di ostacolare, fino a fermare, l’effettuazione delle loro disposizioni (da unità produttive o comparti utili, magari in chiusura o contrazione, di cui va rivendicato il passaggio alla gestione sociale, e nei primari termini volti all’interno, di cui si è detto, ai blocchi di ulteriori devastazione dello spazio urbano e interurbano, e dell’ambiente, alla creazione di reti di attività e sussistenza sottratti al comando e alle sue modalità di funzionamento, fino a rifiuti il piú generalizzati possibile di ulteriori spremiture, comprendendo – si può ipotizzare –, se del caso e in condizioni di sicuro successo, la presa di possesso di istituzioni statuali minori, quali i Comuni, ma non per farle “funzionare bene”, bensí per ridurle a mera formalità ininfluente, che ratifica meccanicamente ciò che decide la democrazia locale – e l’argomentazione può ampiamente estendersi, ma ci si ferma a tali accenni) – tuttavia, anche se ciò è necessario come preparazione e accumulo di forze, non basta “erodere” e “congelare”: non sembra evitabile che «azioni dirette» si debbano intrecciare con tale processo, e appare inevitabile dover arrivare anche all’abolizione in maniera decisa, il che, necessariamente, comporta «atti di forza».
[116] Lo si è già detto e scritto in altri testi, ma è utile ripeterlo: riferirsi alla vaga «complessità» significa solo, lo si voglia o no, lodare (e cosí aderire a) questo «mondo moderno», che si trincera nel suo porsi come «complesso» per mascherare soltanto la sua opacità – potenze costitutive e assi portanti tendono a non mostrarsi apertamente.
[117] Rispetto alla ripresa critica dell’elaborazione marxiana rimangono fondamentali i lavori di Lefebvre: oltre a Lo Stato cit., H. Lefebvre, Hegel-Marx-Nietzsche ou le royame des ombres, Tournai, Casterman, 1975 e Abbandonare Marx?, Roma, Editori Riuniti, 1983.
[118] Nel senso originario dei termini, definiti a suo tempo in contrapposizione alle potenze (esproprianti la massa del popolo) del modo di produzione e allo pseudo-individualismo da esse generato, in particolare dall’“impianto” del liberalismo-liberismo.
[119] Con una precisazione, necessaria di fronte all’offuscato, ma sempre invalso, slogan del «progresso» e «progressismo» – con i «progressisti», che si dichiarano per il «progresso» comunque e dovunque, e i “moderati”, che pur si dichiarano per il «progresso», ma con la “gradualità” necessaria (sullo stile del manzoniano adelante con jiudicio) –, «progresso» e «progressismo» che sono diventati, in realtà, i sinonimi della peggiore adesione agli imperativi e processi statuali, capitalistici, tecnoscientifici (si pensi, solo per portare alcuni esempi, alle cosiddette «Grandi opere» devastanti e distruttive nel nostro paese, o all’imposizione della «flessibilità» del lavoro per la «competitività» con relativo “adattamento” anche degli studi, o alle disposizioni in campo agricolo e alimentare dell’Ue, agli imperativi degli apparati della sanità-tecnomedicina, alla prospettiva della estensione della Smart City); ebbene, c’è invece l’esigenza della conservazione dell’essenza dei mores communes (i validi costumi ordinari, depurati da sovrastrutture e “infiltrazioni” delle potenze, che sono una necessità antropica – si rimanda ancora, in merito, a J.-Cl. Michea, op. cit.), delle piú valide tracce e permanenze della storia (spazio e natura), di quelle «piccole cose perfette», che devono diventare non piú «piccole» – il che sarebbe definito «conservatorismo» (con le accezioni di destrismo, reazionarismo, etc.) dai mentori del “sistema”, ma è precisamente partendo dalla volontà di conservare le possibilità di una vita degna, che ci si erge contro il “sistema” stesso.
[120] Nel caso della Russia, al contrario delle asserzioni che vedevano la «rivoluzione socialista» nei paesi piú capitalisticamente «avanzati», si è trattato dell’avvio della «deriva della rivoluzione verso paesi agrari» – cfr. H. Lefebvre, Lo Stato cit. – per “fare qualcos’altro” (la «crescita» condotta dallo Stato-partito), mentre l’elaborazione marxista si è ossificata e snaturata in ideologia di copertura del «socialismo di Stato» e della politica di potenza dell’iper-Stato sovietico, anche, ma non solo, tramite lo stesso Komintern (III Internazionale) – piú tardi Kominform.
[121] Certo, anche con manifestazioni “dure”, battaglie sostenute a lungo, sommosse – ma ricadendo poi nella sconfitta, e quindi nella subordinazione.
[122] Esistono tre generi di prassi: quella ripetitiva, che è di massa, rispetto a “ciò che c’è”; quella mimetica, che appunto imita le prassi esistenti, comprese quelle pseudo-innovative, “di sistema”; quella effettivamente innovativa, che, riuscendo a porsi, genera a sua volta una prassi mimetica – come dice H. Lefebvre, La sociologia di Marx, Milano, Il Saggiatore, 19712.
[123] Prodotto “rivoluzionario” di cosmetica, “rivoluzione” di qualche marchingegno burocratico, nuova automobile “rivoluzionaria”, “rivoluzione” in qualche partito con l’ascesa di un qualche leader, e cosí via – l’esemplificazione della banalizzazione del temine è sterminata.
[124] Un tempo gli esseri umani comunicavano a distanza con fuochi o segnali di fumo, ci si serviva degli ángeloi – «messaggeri» (non gli strampalati «angeli» asessuati del cristianesimo, piú tardo) – a piedi o a cavallo, che portavano messaggi a voce o per scritto, per distanze ancora maggiori dei piccioni viaggiatori, piú tardi del servizio postale, poi ancora del telefono, della radio … Ora si usa la posta elettronica (sempre piú prevalente, oltre agli onnipresenti “telefonini”, sempre piú complessificati in funzioni) su Internet: si utilizzano i mezzi di comunicazione a disposizione, certo, ma ciò non va confuso con estranianti “nuove possibilità”, perché in tal modo si attribuisce validità a mezzi che fanno altri fini (i mezzi non giustificano i fini, ma li costruiscono, e senza giustificazione), ossia si aderisce all’atomizzazione che pone le persone isolate (o al massimo in qualche gruppetto) a rapportarsi tramite … uno schermo (e con l’anglofagia “internettistica” sullo sfondo), mentre niente può, né deve, sostituire il rapporto diretto, di persona, fra gli esseri umani.
[125] F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra, «Di tavole antiche e nuove».
[126] Finendo magari per sostenere vecchie o nuove forme dell’esecrabile “virtú” cristiana della modestia, a sua volta maschera ipocrita e maligna, da sempre, per l’inconfessata hýbris od occultata Wille zur Macht.
[127] Peraltro, la considerazione che tale “pratica” non dà esiti rilevanti e che la “grammatica” è quantomeno inadeguata pare sempre sfuggire a questi “pratici”, mentre, sull’altro versante, quello del privilegio della “grammatica”, i “grammatici” non paiono schiodarsi dagli “impianti” prefissati, standosene a rimuginare e rifriggere senza costrutto.
[128] Piuttosto poco, in verità, rispetto alla grande creazione e produzione letteraria, storica, filosofica, artistica, scientifica, di cui ci è arrivata solo una millesima parte; il resto è andato perduto, nella dissoluzione del Mondo antico, nelle invasioni arabe a Oriente e Nordafrica, nella formazione dei «regni (detti dagli storici) romano-barbarici» in Occidente, sotto la pesante coltre della Chiesa cristiana, nell’arretramento che è stato il Medioevo (che procede, in Occidente, ma non solo, dal III sec. d. C. – e non dal V, come dice la vulgata degli storici – e continua almeno fino all’XI-XII sec., e in ampie aree anche molto oltre) – né il “salvataggio” di opere da parte di monasteri (per lo piú non, o poco, consapevole) e studiosi arabi è stato sufficientemente adeguato.
[129] Basti pensare, per esempio, all’analisi compiuta da Tucidide nella sua storia della Guerra del Peloponneso, in cui ne individua la causa di fondo nell’«egemonismo» ateniese (quindi nell’hýbris di Atene), oppure alla centralità di tale “nodo” in opere teatrali quali le tragedie attiche.
[130] Pensatore che è stato oggetto di profonde incomprensioni, nonché di una forsennata mistificazione. Se fin dal 1938 – mentre il nazismo puntava a impadronirsene a proprio lustro, e Hitler faceva visita pubblica a Elisabeth Förster Nietzsche, sorella di Friedrich (deceduto nel 1900) –, Henri Lefebvre proponeva l’assunzione del pensiero nietzschiano nel contesto del movimento di emancipazione – il suo lavoro è pubblicato l’anno seguente: H. Lefebvre, Nietzsche, Paris, Éditions sociales internationales, 1939. Senza esiti, mentre è stata a lungo accolta l’attribuzione del pensiero nietzschiano al nazifascismo – con ricadute fino a tutt’oggi –, sanzionata dalla visione distorta di Nietzsche, in particolare di Georgy Lucács nella sua opera La distruzione della ragione, dove lo colloca fra gli ideologi “irrazionalisti” dell’imperialismo (!?). E poi … Nietzsche è diventato una “componente” dei “lavori” accademici (inutili, quando non dannosi – molto utilizzato, per esempio, nel “filone” dell’«ermeneutica»), per poi svanire – Lefebvre è tornato, invece, sull’importanza dell’elaborazione nietzschiana, situandola nei tre pensatori che, dice, costituiscono la «costellazione» sovrastante la modernità: H. Lefebvre, Hegel-Marx-Nietzsche ou le royame des ombres cit.
[131] Ma il termine tedesco – «oltre», «sopra» (über), e «uomo», «umano» (mensch): «oltre-uomo» od «oltre-umano», o «sovra-uomo» o «sovra-umano» – va inteso come oltre il “tipo” di uomo, oltre la condizione dell’umanità, esistenti.
[132] Dal superomismo dannunziano (paradigmatico tipo dell’intellettuale abbiente, indebitato e decadente) al superomismo nazifascista (un tipo d’uomo che, usando i parametri di superiore e inferiore, è senz’altro non superiore, bensí inferiore), fino al Superman statunitense e al seguito di “eroi” consimili, nei «fumetti», cartoni animati e films (quali “incarnazioni” dell’uomo “potenziato” grazie alla tecnologia in avanzata e che combatte contro nemici “tecnoscientificizzati”).
[133] «Dietro i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo», F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra cit., «Dei dispregiatori del corpo», p. 34.
[134] Dal verbo poiéo, che significa «fare», «creare», sul piano materiale e “immateriale”.
[135] Nello stesso gruppo umano e fra diversi gruppi umani, e fra uomo e donna, e fra genitori e bambini, e rispetto agli altri esseri viventi, e alla natura …
[136] Il «principio di identità» è quello di base della logica formale (A = A), insieme al conseguente «principio di non contraddizione» (A non è non-A).
[137] L’«identitario» è l’applicazione del principio logico-formale dell’identità, applicazione anche pratica e operativa: l’identità, quale ripetizione dell’identico, è connessa all’identificazione, vale a dire al principio logistico della collocazione di ciascuno e di ogni “cosa” al “suo posto”, il che significa collocazione nella gerarchia “strutturata” che compone l’assetto dato (economico, sociale, politico e culturale), e nel “funzionamento” operativo di tale gerarchia (cioè nella sua riproduzione sul piano economico, sociale, politico e culturale), con l’annesso “corollario” del controllo di questa collocazione, onde impedire i dissesti dell’assetto esistente e/o ricomporli nell’assetto esistente stesso (azione del potere e mantenimento del potere) – su quest’altro tema nietzschiano dell’identità non è questo il luogo per entrare in merito.
[138] Anche lo sviluppo della civiltà – o meglio, per Nietzsche, le avanzate e le cadute della civiltà – non è stato affatto una serena e oggettiva “evoluzione”, magari con qualche “inciampo”, né l’incontestabile e necessario procedere delle «magnifiche sorti e progressive», né tantomeno la trama razionale del divenire dello «spirito» (hegeliano), bensí la tormentata storia della «volontà di potenza», nel suo intreccio di forza di liberazione e potenziamento metamorfizzante, creativo, e di forza terribile, di oppressione e di distruzione, di morte.
[139] Cfr. F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra cit., «Delle tre cose malvagie», pp. 228-233.
[140] Non si può entrare qui in merito a un altro tema nietzschiano ancora, tema molto importante: quello del ressentiment, per cui ci si limita agli accenni presenti nel testo.
[141] Chi scrive era riuscito a individuarla negli anni novanta, indicandolo in un intervento sulla «globalizzazione», uscito sulla rivista «Il Ponte» nel 1997 – intervento che ora è inutile ripresentare.
[142] È la definizione data da Henri Lefebvre, già ricordata (p. 5, e nn. 5-6, del presente testo).
[143] Si tratta delle politiche, teorizzate dal già ricordato (p. 16, n. 1) economista inglese Keynes (ma già varate prima della sua teorizzazione), dette di «sostegno alla domanda», che si traducevano nell’uso del surplus sociale raccolto dallo Stato tramite l’esazione fiscale per l’intervento diretto dello Stato sul piano dell’economico-capitalistico, a supporto di comparti in crisi o difficoltà e dell’occupazione, e con l’assunzione in proprio di altri comparti (produttivi o comunque essenziali, che altrimenti avrebbero “chiuso”, e in «funzioni» e «servizi» che diventano gestiti dallo Stato), nonché per la produzione bellica (dando vita al «complesso militar-tecnoscientifico-industriale»), per tradursi infine negli apparati del Welfare State (nei paesi detti «avanzati») – e la domanda (di capitali e di merci sul mercato) sostenuta cosí dallo Stato, sosteneva e faceva avanzare il complesso dell’economico-capitalistico, al livello interno di ogni specifica formazione del complessivo modo di produzione, nonché al livello delle interrelazioni internazionali, mentre dilatava il ruolo dello Stato. E tali politiche economiche sono state attuate anche da Stati e regimi che non si ispiravano a Keynes, come la Germania nazista e l’Italia fascista.
[144] Quello in cui, come si è detto, le tre potenze o assi sussistono e procedono in maniera combinata e intrecciata, a differenza del predominio dello statuale nel «socialismo di Stato».
[145] È l’epoca, per segnare la fase, della presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti e del governo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna.
[146] Infatti, con le politiche economiche di tipo «keynesiano», restava un “nodo” irrisolto: si tendeva a bloccare l’assetto produttivo (nel senso capitalistico: plusprodotto, pluslavoro, plusavalore, traduzione in profitto) nelle condizioni date, per cui l’accumulazione del capitale “reggeva”, sí, ma tendeva a stagnare rispetto a tali condizioni – ossia, a non trovare, nei reinvestimenti seguenti nel ciclo, sbocci in grado di dare un tasso di profitto superiore, e, anzi, a vedere abbassarsi lo stesso tasso presente rispetto al prosequio della produzione e alla saturazione dei mercati, nonostante lo sviluppo della pubblicità e dell’obsolescenza programmata dei prodotti. Da parte sua, lo Stato si trovava vincolato nell’uso surplus sociale assorbito per mantenere l’assetto dato, mentre la tecnologia non poteva procedere liberamente a escogitare e accumulare, applicandole, “innovazioni” su “innovazioni”.
[147] Da quelli politico-militari (quali la Nato e la Seato) a quelli economici (quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio, l’Unione europea – per l’area dell’Europa, che resta nevralgica – e altri ancora).
[148] Benché relativa come novità: il fondamento dell’informatica è del 1946 e il transistor degli anni cinquanta del Novecento – le novità stanno, sostanzialmente, nella sempre maggiore minuriatizzazione dei componenti, nell’ampliamento delle funzioni, nell’espansione delle applicazioni.
[149] Tramite la riduzione della retribuzione (livelli di salari e stipendi), per via diretta o indiretta (in cui rientra anche la riduzione di quella retribuzione differita che è la pensione, unita all’allungamento dell’età da raggiungere per poterlo ottenere), e delle normative precedentemente conseguite, spostando retribuzioni e normative all’aggancio con la «produttività», «competitività», «flessibilità», etc.
[150] Qui si situano anche le delocalizzazioni di un’ampia serie di unità di produzione, che depauperano il tessuto produttivo del paese di origine, senza con ciò arricchire durevolmente quello in cui si dislocano – attratte da ancora minori costi della forza-lavoro, minore fiscalità, maggiori facilitazioni, etc. -, dove sfruttano semplicemente le condizioni locali, lasciando in cambio solo le retribuzioni degli “addetti”, e afflussi per autorità e apparati statuali del luogo.
[151] Dal che conseguono i già 2 miliardi di esseri umani posti nelle condizioni di non avere sicura sussistenza, o di sopravvivere con una “capacità di spesa” pari a 1 dollaro al giorno.
[152] “Sballando” dal piano della produzione a quello della circolazione fino a quello del denaro (finanze e banche), ossia la produzione-estrazione di profitto tradotta nei prodotti, la sua realizzazione in denaro sui mercati, il reinvestimento «remunerativo» (per via diretta o indiretta) del denaro stesso – ossia il ciclo dell’economico-capitalistico, dopo le “vampate” iniziali per unità o rami o comparti, e per prodotti «innovativi» – sono sboccati nel seguito “esplosioni” critiche della fine Novecento-primi anni del XXI sec., per cadere, nel 2007-2008, nella crisi presente, di lunga durata e di sicura lunga stagnazione seguente.
[153] Il testo di Michea, da cui proviene il passo riportato, è stato pubblicato nel 2006.
[154] F. Mires, Breve storia del populismo, «Les temps modernes», 1973.
[155] Denominazione ripresa dal 1984 di Orwell.
[156] J.-Cl. Michea, Impasse Adam Smith cit., pp. 82-83.
[157] Rispetto al giudeo-cristiano-islamismo il fine è (asserito) chiaro: per l’ebraismo, è quello di conseguire appieno la posizione di «popolo eletto» dal dio stesso sulla terra, con le “ricompense” che ne conseguiranno, per il «popolo» e per i suoi singoli membri; per il cristianesimo, è quello, «ecumenico», di totalizzazione degli esseri umani come fedeli al dio (alla trinità divina, con annessi Madonna e santi) e a lui obbedienti, mentre il fine ultimo è situato nel «mondo al di là del mondo» (come dice Nietzsche), ossia nell’«aldilà» (pur con una ricaduta conclusiva terrena/meta-terrena: il «giudizio universale», etc.); per l’islamismo è semplicemente la totalizzazione dell’umanità nella fede nel dio, di cui Maometto è l’unico profeta, e nell’obbedienza ai suoi dettami (ma c’è via via il premio di uno strano ente, un “paradiso per uomini”, con donne, anzi vergini, a disposizione, etc.). Che poi tale fine, o tali fini – che sono affini fra loro, come lo è la “pianta” tripartita di queste religioni – abbiano un qualche senso è un altro discorso, al di là del loro vero senso: se il dio assoluto è tutto, gli esseri umani non sono niente, ma sono padroni del mondo nell’obbedienza alla divinità, il che significa, poiché non esiste nessun dio (né in cielo, né in terra, né in nessun luogo, ma solo nella testa di chi l’ha inventato e cacciato nella testa altrui), obbedienza alle caste sacerdotali e organizzazioni ecclesiastiche (ancora peggio dove si fondono con il potere politico-statuale), che cosí intendono gestire l’asserita “padronanza umana” sul mondo. E questo «senso» giudeo-cristiano-islamico, che blocca l’umanità in una massa di eterodiretti da gruppi di alienati-alienanti, addetti all’eteronomia, costituisce già una delle varianti del fallimento della specie.
[158] Che è – in buona sostanza – quanto indica Marx con la sua prospettiva di abolizione del capitalismo per la successiva affermazione dell’«uomo totale», e quanto indica Nietzsche con la sua prospettiva di conclusione di quel «ponte» che è l’uomo, quel passaggio non portato a termine, aperto a piú possibilità, nell’Übermensch.
[159] Con tanto di organizzazioni dell’assistenzialismo, alimentare e/o medico & annessi e connessi, le quali si occupano di abbandonati ed esclusi, vivono di ciò, per ciò assorbono risorse e fanno costanti collette, gratificando cosí l’«anima bella» di “addetti”, sostenitori, questuanti, e fuorviando nella “buona coscienza” e nella convinzione di “fare qualcosa di pratico”, mentre concorrono a mantenere e riprodurre la situazione – è come l’elemosina del cattolicesimo o dell’islamismo: necessita di mendicanti, e riproduce la mendicità.
[160] F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra cit., «Prefazione di Zarathustra», pp. 10-12.
[161] Ibidem.
[162] Ibidem.
[163] Ibidem.
[164] In attuazione e come tendenza – che è la ricaduta della stessa “esportazione” della democrazia tramite le operazioni militari e che si traduce, per esempio, nelle rivolte delle cosiddette «primavere arabe» (2010-2012) nel Vicino oriente-Nordafrica (anche se spinte e obiettivi vanno inquadrati nel sottostante scontro fra monocentrismo e multipolarismo, e nell’azione, diretta e indiretta, condotta in primo luogo dagli Usa).
[165] C. Castoriadis, La montée de l’insignifiance cit., pp. 119-111.
[166] C. Castoriadis, La montée de l’insignifiance cit., p. 71.
[167] Ibidem.
[168] Dando solo vita a statualità che procedono in un mix di comando per la «crescita», e di controllo e oppressione della popolazione (in primo luogo della componente femminile) tramite i comandamenti islamici – per cui in questi paesi si formano, di conseguenza, opposizioni, maggiori o minori, aperte o costrette alla clandestinità, basate sostanzialmente sull’assunzione del liberalismo.
[169] Componente, il giudeo-cristianesimo, del declino e dissoluzione del Mondo antico e fomito duraturo di cancellazione per ogni creazione sostanziale della civiltà (greca e antica), mantenendone, deformato e snaturato, solo quanto potesse servire al suo dominio, gettando la piú obbrobriosa calunnia su sesso, piacere e procreazione (per ammalare in modo duraturo gli esseri umani) e ponendo, nel contempo, la piú distorta visione dell’uomo, che visto come niente rispetto al dio assoluto e onnipossente, e come tutto rispetto al mondo, perché questo dio l’avrebbe reso signore e padrone della natura (animale, vegetale, ambientale), anzi avrebbe creato il mondo per lui – il che ha avuto lunghe e pessime ricadute sulla stessa ripresa, dal primo Rinascimento in poi, della scienza creata dagli antichi (peraltro a lungo contrasta dalla Chiesa), ripresa dimidiata e infarcita comunque da questa visione. Da parte sua, l’islamismo si mostra a tutt’oggi come l’imposizione dell’eteronomia per antonomasia (il muslim è «sottomesso» al dio: deve avere «fede cieca») e – a differenza del giudaismo, che si è dovuto inserire in altre e maggiori civiltà, e del cristianesimo, che ha dovuto comunque “fare i conti” con la precedente stratificazione storica, civile, culturale, non ha potuto evitare resistenze e ha subito successivamente le lotte contro la sua pervasività e comando, in base alla rinascita delle città e la ripresa di cultura e scienza del Mondo antico -, avendo alle spalle una storia di minore consistenza (si perde nell’oscurità delle tribú nomadi o seminomadi dell’Arabia, con alcuni centri commerciali e sedi di poteri, dette «città») e una dura e dissolvente conquista recente di territori di civiltà altrui (del Mondo antico, nonché verso est: India e oltre), non si sono mai sviluppati al suo interno i contrasti alla fusione fra “impianto” religioso e potere politico, il che ha portato, nel corso di pochi secoli dopo la grande espansione, al blocco di ogni sviluppo della civiltà arabo-islamica.
[170] Compresi quelli sorti sul terreno della tecnologia, come la traduzione dei piú antichi angeli o diavoli, di entità sovrumane, benevoli o demoniche, nei piú moderni «extraterrestri» o «alieni» (tempo fa i «marziani», ora lasciati cadere, dopo aver avuto piú dati sul pianeta Marte), attribuendo loro una scienza e delle capacità tecniche (quindi una tecnologia) superiori e a noi ignote, fantasticandone la presenza o da sempre (alle radici delle stesse capacità umane, o addirittura dell’esistenza del genere umano), o da qualche tempo, e cercandone segni, manifestazioni e presenze, e convincendosene in quanto convinti, vedendole, allucinandosi di “esperienze”, rapporti, contatti, et similia – l’«ufologia», che si estende però anche a ricerche non direttamente «ufologiche», quali i “misteri” dell’antico Egitto, dei Maya, dei circoli megalitici, etc. (con i presunti “misteri” che restano, e devono restare, tali). Da rilevare che il meccanismo psichico per/di adepti «ufologi» è lo stesso per/di tutti gli adepti e fedeli di chiese e religioni – precisando: per/di coloro che non lo fanno per mera abitudine, perbenismo, conformismo (volontario o forzato) -, ed è quello dell’assunzione e interiorizzazione dell’eteronomia: convinzione e auto-convinzione, costruzione e auto-costruzione di “prove” e comunicazioni, allucinazioni e auto-allucinazioni.
[171] Al di là delle chiacchiere (utili a queste religioni) su giudaismo moderno, cattolicesimo liberale, islamismo moderato, etc., dovrebbe essere evidente che, trattandosi di religioni (dette) rivelate, cioè dettate dal dio unico, onnipresente e onnipossente – dalla divinità che darebbe a Mosè le «tavole delle legge» e poi parlerebbe tramite i «profeti», alla «rivelazione» salvifica che sarebbe rappresentata da dio-dio figlio di se stesso-Gesú Cristo, fino a Maometto quale “penna” del dio, che scriverebbe il Corano -, quanto pongono, dispongono e impongono non è discutibile, né possono essere discusse e messe in causa, né ostacolate l’attuazione e l’ossequienza totale a essa: si può non obbedire al dio assoluto?
[172] Si rimanda, in proposito, a M. Monforte, «Alle radici del mondo contemporaneo» cit., in Controllo e manipolazione cit.
[173] Sono presenti in tutto lo schieramento delle forze politiche, parlamentari e (come si diceva un tempo) «extraparlamentari», nonché in tutto l’insieme di iniziative, rivendicazioni, movimenti, comitati, etc. – senza dimenticare lo storico assistenzialismo, “aggiornato” e non –, e si collocano anche fra i “sinistri”, ottenendo perfino autorevolezza e riscuotendo successi in tali ambiti: tanto è profonda la non-visione delle “cose”e di che cosa rappresentino, comunque, i preti (finché restano tali).
[174] Certo, sussiste e persiste il «lavoro nero» … A sua volta “bestia nera” delle gestioni statuali, dei politici, dei media (anche se non manca chi vi rivolge qualche “strizzata d’occhio”, per raccogliere consensi), tanto da far circolare in tv pubblicità ministeriali in cui l’evasore fiscale è assimilato a parassiti di piante e pulci di cani; «lavoro nero» in cui confluisce un po’ di tutto, da capitalisti, grandi, medi e piccoli, e membri vari dell’oligarchia, che evadono le tasse (illegalmente, oppure o in parte no, se supportati da esperti «commercialisti»), alla criminalità organizzata, ma anche tutto un tessuto di sussistenza di addetti alla piccolissima produzione e distribuzione, e di lavoratori, che riescono in tal modo ad “andare avanti” – altrimenti la situazione sarebbe ancor piú disastrosa. La sostanza della questione, infatti, è una sola (a meno che non si aderisca, anche su questo piano, allo statalismo, al “sistema” e ai suoi altoparlanti e pappagalli parlanti): lo Stato non vuole che nessuno si sottragga all’esazione di parte delle risorse – siano queste surplus o risorse distribuite per il consumo nella circolazione – nella raccolta che compie, e il monopolio che istituisce, del surplus della società – donde la Guardia di finanza (che agisce anche come truppa di occupazione in determinate occasioni), donde apparati appositi (come Equitalia – nome del tutto opposto alla sua funzione e azione: Orwell è stato profetico), donde procedimenti giudiziari, etc. (con l’incidenza dei costi necessari per l’esazione). Si sostiene, allora, il «lavoro nero»-evasione fiscale? Si può solo dire che la situazione, vista da tutti i lati, è inaccettabile – e va ricordato, e sottolineato, che economie di sussistenza ed esistenza locali non possono che doversi sottrarre all’avvolgimento di disposizioni, comandi, controlli, esazioni statuali, cioè essere, dal punto di vista statale, «al nero».
[175] Per il controllo della popolazione stessa e della “messa in forma” dello spazio urbano e interurbano, nonché per l’afflusso di fondi direttamente all’economico-capitalistico.
[176] Da notare – gli apologeti della “salvezza dal baratro” non lo dicono mai – che l’entità del debito, di per sé, non precipita in nessun “baratro”, e basti pensare al debito stratosferico degli Usa, a quello dello Stato britannico, o giapponese, e di altri Stati ancora, dal che si evince – con facilità (ovviamente sempre per chi voglia vedere) – che la questione non sta nella sola azione dello Stato germanico, che pur ha la sua parte, affermando la propria preminenza in Europa e sull’Europa mediterranea tramite gli strumenti economici e l’azione dell’Unione europea, ma anche nelle operazioni strategiche attuate dalla superpotenza statunitense (nello scontro fra monocentrismo e multipolarismo di cui si è detto).
[177] Sullo spazio come produzione umana, e sulla proliferazione del tessuto urbano – al posto di quelle opere storiche che sono le città –, con la sua estensione nello spazio interurbano, resta fondamentale: H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Milano, Moizzi, Voll. I-II, 1976.
[178] Del resto, non sono già uno “scandalo” le laute prebende di cui godono – anche se non si appropriano di un soldo in piú del “dovuto” – i membri della «classe politica» a tutti i livelli? Ivi compresi i «rimborsi pubblici» (statali) ai partiti, appendici della «classe politica» stessa. E non è lo stesso per le retribuzioni degli alti funzionari statali? E per non dire di quelle dei finanzieri, dei banchieri e dei managers dei comparti statali o privati, etc.
[179] E la lingua, ogni lingua, costituisce la “borsa” del patrimonio storico e culturale, il fondamento della stessa capacità di pensare, per cui ne andrebbe ben conosciuta e usata nella sua ricchezza.
[180] Che permane, grazie all’uso, soprattutto in Toscana (ma anche qui sta diventando “incerto”, specie nelle piú giovani generazioni), e presso persone colte (in genere, però, di una “certa età”) di altre regioni.
[181] Come si è già detto in passato, ma è opportuno ripetere, non c’è niente di ostile alla lingua inglese in quanto tale e tantomeno agli apporti che sono venuti e vengono da autori che parlano e scrivono in questa lingua: la questione è un’altra, ossia della diffusione non del grande inglese, ma di quello che va denominato anglico, e dell’anglofagia rispetto alla lingua italiana.
[182] E si pensi ai tanti giovani che, emozionati, fanno il viaggio a Londra, o a New York, o in altre località statunitensi.
[183] Un tempo scritte in italiano e tradotte, certo e ovviamente in inglese, ma anche in francese, tedesco, spagnolo.
[184] Ma gli aneddoti non sono mai marginali, bensí le “spie” spesso piú chiare della realtà di una situazione.
[185] Personaggio giusto, per servilismo filo-“amerikano”, tanto da far liberare, in un suo film, il lager nazista di Auschwitz dagli americani, e non dai russi (come, invece, è accaduto), oltre a cimentarsi in insensate lecturae Dantis (condite da commenti illuminanti quali “ bello”, “meraviglioso”, “incommensurabile” …) – con l’afflusso di folle, paganti il biglietto, coerentemente con la realtà che si sta determinando nel nostro paese –, e non per niente insignito della laura honoris causa per cotanta cultura da un’adeguata università, quella di Siena.
[186] Castoriadis, ovviamente, intende con «vostra sovranità» la sovranità popolare.
[187] Castoriadis qui si riferisce, com’è chiaro, al sistema presidenziale francese.
[188] C. Castoriadis, La montée de l’insignifiance cit., p. 198.
[189] Non però l’unica pólis coerentemente e conseguentemente sviluppatasi – in quanto comunità di cittadini – in democrazia, ma la sola di cui, fra le oltre 150 “costituzioni” di città riportate da Aristotele, ci è pervenuta la politéia.
[190] Ossia dei polítes, dei cittadini.
[191] C. Castoriadis, La montée de l’insignifiance cit., pp. 199-202.
[192] C. Castoriadis, La montée de l’insignifiance cit., pp. 203-210.
[193] Benché, per le epoche dette «arcaica» e «classica» dell’Ellade, e anche oltre, fino al primo periodo dell’età detta «ellenistica», l’entità numerica degli schiavi fosse molto piú contenuta di quanto sia stato diffuso nella letteratura moderna.
[194] Nello sviluppo dell’economia mercantile nel Mondo antico, non c’è solo la produzione agricola per il mercato, ma c’è anche quella dei laboratori artigianali – la cui proprietà vede in genere la bottega artigianale, ma anche laboratori piú vasti, e alcuni anche grandi -, il che comporta la proprietà dei mezzi di circolazione dei prodotti (magazzini e mezzi di trasporto, in particolare navi commerciali) per la distribuzione sul mercato, e si forma inoltre la proprietà mobile, quella del medium della realizzazione dei prodotti sul mercato, il denaro, accumulato tramite investimenti e vendite.
[195] Abbiamo però la notizia – sfortunatamente troppo scarna – di un tentativo significativo in tal senso: un “esperimento socialistico” a Lipára, la pólis fondata a Lipari, che comprendeva le isole Eolie; si sa, però, che l’“esperimento” è affondato negli scontri delle póleis della Trinákria, oltre che fra di esse e contro l’egemonia di Siracusa, con la potenza di Cartagine, installata nella parte occidentale dell’isola, e infine con l’intervento della potenza di Roma (a partire dalla Prima guerra punica, nel 261 a. C.), che ha conquistato e distrutto Lipára nel 252 a. C.
[196] Si rimanda a una trattazione piú articolata e argomentata sul tema del declino e dissoluzione del Mondo antico.
[197] Si rimanda ancora, in proposito, a M. Monforte, «Alle radici del mondo contemporaneo», in Controllo e manipolazione cit.
[198] Che poi si chiami il mondo contemporaneo «post-modernità» significa poco, al di là del segnale del logoramento delle ideologie apologetiche, perché sempre persiste il modo di produzione dell’economia politica, con i suoi assi portanti.
[199] Si rimanda a H. Lefebvre, Lo Stato cit.
[200] Vedi H. Lefebvre, Il materialismo dialettico, Torino, Einaudi, 1949; Il marxismo, Milano, Garzanti, 1954; Marx – Uomo, pensatore, rivoluzionario, Roma, Tendalo, 1970; inoltre Lo Stato cit.
[201] Vedi H. Lefebvre, Lo Stato cit.
[202] Il lavoro propostosi da Marx è, da un lato, immenso, in particolare data l’attenzione sia all’economico-capitalistico piú avanzato del suo tempo, quello inglese, sia all’insieme degli economisti, passati e della sua epoca, e sempre soprattutto britannici, ma, dall’altro lato, si viene a urtare con le difficoltà di Marx, con il suo stato di salute, e infine con la sua morte, avvenuta in non tarda età (a 65 ani, nel 1883).
[203] Il resto – il libro II e III di Il Capitale – viene pubblicato per opera di Engels, il solo, del resto, che sapesse leggere la grafia dell’amico di tutta la vita, esaminando la mole di brani e “pezzi”, riflessioni e note, considerazioni e appunti, lasciati manoscritti da Marx; e il libro IV viene pubblicato ancora piú tardi, con il titolo di Teorie del plusvalore.
[204] Su cui ha inciso proprio la stessa attenzione prioritaria di Marx all’Inghilterra, dove lo Stato era ben presente e supportante, ma in forme piuttosto indirette, di contorno e garanzia, mentre in altri paesi europei, come la Francia o la Prussia (poi Impero germanico), il processo di dispiegamento del modo di produzione dell’economia politica seguiva altre vie, in cui l’azione statuale è decisiva (il che vale, in parte rilevante, anche per l’Italia).
[205] Vi sono dei limiti, nei lavori marxiani noti come libro II e III di Il Capitale (per esempio, dalla questione della «trasformazione dei valori in prezzi» a quella della ripresa della ricardiana «caduta tendenziale del saggio di profitto»), e anche degli errori di calcolo – come, forse si può a buon diritto ipotizzare, lo stesso Marx avrebbe riconosciuto, se avesse potuto riguardare i suoi lavori per la pubblicazione -, nonché “scivolate positivistiche”, per esempio, dallo «sviluppo delle forze produttive», che avrebbe necessariamente spinto a superare i «rapporti di produzione capitalistici», all’esaltazione della prospettiva dell’«automazione», e infatti, per esempio, non viene compresa, né da lui, né dai «marxisti», la rilevanza del movimento dei luddisti, rispetto a cui si assume la valutazione di movimento reazionario. E altri limiti ancora sono riscontrabili, insieme a una serie di contraddizioni, nel complesso dell’opera marxiana: ma anche Marx era uomo del suo tempo e non poteva non risentirne, come, nella vastità dei suoi lavori e della partecipazione al movimento dei lavoratori, non poteva andare esente dalle contraddizioni (secondo questioni, situazioni e fasi), tanto piú che la sua elaborazione non costituisce un sistema (a differenza del sistema hegeliano, nonché a differenza della riduzione a sistema che ne hanno fatta «marxismi» e »marxisti» successivi), e qui sta la sua permanente ricchezza. Comunque, la trattazione di tali tematiche esorbita dal presente testo e si rimanda, in merito, a M. Monforte, La teoria sociale: Karl Marx, www.nea-polis.org.
[206] È addirittura divertente, in proposito, citare questo ricordo: venne pubblicato, tradotto in italiano, un testo steso, in “epoca maoista” in Cina, da un tal Xu Uhe (o nome simile), intitolato Teoria marxista dell’economia politica, dove già nel titolo si arriva a una sorta di comicità involontaria, sullo stile di chi scrivesse una “Teoria pacifica dell’offensiva bellica”, o una “Teoria umanitaria dello sterminio di massa” – a dimostrazione, certo estrema, ma significativa, della totale incomprensione della posizione critica marxiana da parte dei «marxisti».
[207] Si pensi al lavoro del 1917, a lungo famoso, di Lenin: Stato e rivoluzione.
[208] E, in Russia, per contrastare i nemici che puntavano a restaurare le forze abbattute, sostenuti dalle potenze estere, nella guerra civile, in cui cade il paese dal 1918 al 1921.
[209] Il che ha condotto, in maniera magari inizialmente inconsapevole, ma via via precisandosi, all’adesione alla collocazione raggiunta, con i suoi “modi d’essere” “modi di fare”, di pensare e rapportarsi, ossia all’inserimento nella «classe politica», come sua componente.