La crisi che sta attraversando l’Europa pone sempre più il problema della tenuta sociale all’interno dei diversi paesi, e sollecita in tal senso interrogativi non solo per quanto riguarda l’effettiva uscita delle economie dalla depressione, ma anche per quel che concerne il permanere delle garanzie democratiche. La stessa crisi – come ha fatto rilevare più volte anche l’economista Paul Krugman – si sta tramutando infatti una occasione per smantellare progressivamente i sistemi di Welfare pubblico, che hanno costituito il nerbo dello sviluppo europeo dal dopoguerra ad oggi. Allo stesso tempo la caduta del reddito e della domanda pone un problema emergenziale, richiedendo adeguati interventi di sostegno. Ma il modo in cui le politiche di sostegno al reddito vengono concepite e portate avanti, risulta essere assolutamente rilevante nel determinare in base a quale modello di sviluppo si uscirà dalla crisi.
Il dibattito attualmente in corso in Italia sull’istituzione di un reddito minimo garantito, offre ottimi spunti per riflettere sulle insidie che la crisi in corso sta tendendo alla tutela dei diritti essenziali dei cittadini, complice il naturale consenso proveniente da quella parte di popolazione che è più danneggiata. E’ necessario, in particolare, comprendere quale dovrebbe essere la collocazione del reddito garantito rispetto all’intero sistema di Welfare e alle caratteristiche del mercato del lavoro. Un Welfare che vada a compensare i bassi salari e la precarietà è ciò che hanno sempre proposto i liberisti e, non a caso, tra i primi a proporre il “reddito minimo garantito” vi fu Milton Friedman: secondo l’economista americano lo Stato avrebbe dovuto stabilire un reddito minimo, ad esempio 1000 dollari al mese: chiunque percepisse un reddito da lavoro inferiore a tale cifra avrebbe ricevuto un’integrazione fino a quella soglia. L’espressione usata da Friedman era “tassa negativa sul reddito” (in inglese NIT: negative income tax): invece di pagare le tasse allo Stato, è lo Stato che paga il contribuente, al fine di mantenere in piedi il sistema basato sui consumi. Secondo Friedman la NIT, inserita all’interno di uno schema di tassazione non più progressivo – come nella tradizione sia americana che europea – ma “piatto”, cioè con un’unica aliquota uguale per tutti, avrebbe dovuto sostituire le previsioni del Welfare tradizionale ed essere accompagnata dall’eliminazione dei minimi salariali.
E d’altra parte, non è necessario fare un grande sforzo di fantasia per accorgersi che le tendenze europee marciano già in questa direzione. E’ ormai noto, infatti che in Germania, con le riforme Hartz implementate dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, il mercato del lavoro è profondamente cambiato: i lavori a tempo pieno e indeterminato hanno lasciato via via il posto a forme di impiego precarie e sottopagate, integrate dall’assistenza pubblica. Il 20 dicembre scorso Eurostat ha inoltre comunicato che con il 22,2% la Germania ha la più alta quota di lavoratori con un basso salario di tutta l’Europa occidentale. Ma ciò che va sottolineato di tale contesto, è che i redditi derivanti dai bassi salari possono sommarsi al “reddito minimo garantito” istituito in Germania. In assenza di un regime di “salario minimo garantito” (troppo spesso erroneamente confuso con il “reddito minimo”), l’istituto del “reddito minimo” in Germania ha in pratica funzionato da “cavallo di Troia” per la precarizzazione del mercato del lavoro dove stanno imperversando i cosiddetti mini-jobs, ossia i lavori sottopagati. Il Welfare è diventato così un surrogato per sostenere una massa crescente di “lavoratori poveri”, e c’è chi non ha esitato a definirlo (molto appropriatamente) “elemosina di sudditanza”.
Lo stato sociale (un’invenzione, peraltro, dei liberali inglesi attuata dalla sinistra socialdemocratica europea) non è affatto nato per accompagnare la flessibilità e la moderazione salariale, ma ha convissuto con alti salari, mercato del lavoro tendenzialmente rigido, obiettivi di piena occupazione e proprio dagli alti salari e dalla piena occupazione ha tratto prioritariamente le proprie risorse. La questione appare particolarmente sensibile nel caso italiano, dove il “reddito minimo garantito” non esiste, e bassi salari e precarietà del lavoro sono diventati un logoro (quanto inutile) strumento di competitività, in assenza di politiche industriali volte a favorire la crescita di settori tecnologicamente avanzati sui quali è ormai improntata la nuova divisione internazionale del lavoro.
Assumere riduttivamente il “reddito minimo garantito” significherebbe disattendere innanzitutto il “diritto ad una esistenza libera e dignitosa” di cui la nostra Costituzione si fa garante. Ed in effetti non è un caso se recentemente Stefano Rodotà nel suo ultimo libro “Il diritto di avere diritti”, richiama la centralità dell’articolo 3 della Costituzione nel quale si afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, e che per questo diventa un vero e proprio architrave di tutto il testo costituzionale. Così, in tema di retribuzioni l’art. 36 dà concreta attuazione al “modello” di riferimento generale indicato nell’art. 3 affermando “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ma poiché in capo a tutto sta l’articolo 1 della Costituzione per cui “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, se ne conclude anche che l’articolo 36 riguarda tutte le persone, affidando al carattere della retribuzione l’obiettivo di far sì che sia garantita una esistenza libera e dignitosa (e dunque non di mera sopravvivenza). Per questo l’istituto del reddito minimo deve diventare funzionale a correggere la fuga in avanti verso la precarizzazione del lavoro e sostenere l’attuazione di una politica economica finalizzata alla realizzazione all’obiettivo della piena e buona occupazione, per un effettivo riequilibrio delle disuguaglianze ed un vero rilancio dello sviluppo.
(7 giugno 2013, www.syloslabini.info)